Giuseppe Bonghi
Biografia
di
Giacomo Leopardi
prima parte
1798-1817
I PRIMI ANNI
Giacomo Leopardi nasce
a Recanati il 29 giugno 1798, verso sera, da Adelaide dei Marchesi Antici (1778-1857) e
dal conte Monaldo (1776-1847) che si erano sposati il 27 settembre 1797. Così venne
scritto nel documento di nascita: Die 30 junii, 1798. Iacobus
Taldegardus Franciscus Sales Xaverius Petrus, natus heri hora 19 ex cive Monaldo quondam
Iacobi Leopardi et Adelaide filia civis Philippi quondam Josephi Antici legitimis
coniugibus ex hac civitate et parochia, baptizatus fuit de licentia a reverendo patre
Aloysio Leopardi ex oratorio Divi Philippi. Patrini fuere Philippus Antici et Virginia
Mosca Leopardi (Luigi Leopardi, Filippo Antici e Virginia Mosca erano
rispettivamente zio, suocero e madre di Monaldo Leopardi).
Giacomo avrà altri undici fratelli, come
afferma lo stesso Monaldo nelle sue memorie, ma molti di essi sopravvissero solo pochi
giorni; importanti ai fini della storia della vita di Giacomo furono Carlo (1799-1878) e
Paolina (1800-1869), che furono i compagni di gioco dellinfanzia di Giacomo e i suoi
confidenti per tutta la sua esistenza, e Pierfrancesco (1813), che erediterà il
maggiorasco, che continuerà la stirpe dei Leopardi, e morirà ancor giovane a soli 38
anni nel 1851, quasi della stessa età di Giacomo.
Gli ultimi anni del secolo furono molto
importanti per Recanati, a causa degli scontri militari fra le truppe repubblicane
francesi e quelle papaline; dal 1797 al 99 le Marche furono occupate dalle truppe
francesi, alle quali Monaldo dovette pagare tasse ingenti per le casse già abbastanza
esauste della sua famiglia; allinizio del 99 i francesi vengono cacciati da
"una grossa mano di briganti" (popolani ribelli contro il governo francese) e
Recanati viene proclamata Repubblica Democratica, e, tra le altre cose, prende anche
limpegno di eliminare titoli e privilegi nobiliari, sulla falsariga di quanto era
avvenuto in Francia nella notte fra il 4 e il 5 agosto 1789 con labolizione dei
diritti feudali, e Monaldo nominato addirittura governatore. Ma una settimana dopo le
truppe francesi tornano, i briganti spariscono e Monaldo resta solo ad affrontare il
ritorno del nemico: viene immediatamente arrestato e dapprima condannato a morte, poi la
sentenza fu tramutata in un provvedimento di demolizione del suo palazzo, infine in una
grossa ammenda. Pochi mesi dopo con laiuto delle truppe austriache (che
comprendevano soldati appartenenti a molte nazioni europee), le Marche si liberano dei
Francesi che vengono infine assediati in Ancona. Lanno successivo, il 23 giugno, il
nuovo Papa Pio VII, imbarcatosi a Venezia, approda a Pesaro, dopo essere stato in
pellegrinaggio a Loreto, arriva in visita a Recanati fra il delirio festante della folla,
in mezzo alla quale si trovava anche Monaldo, che viene.
Certamente Monaldo non è stato un
oculato amministratore dei beni della famiglia; per liberarsi di unincauta promessa
di matrimonio fatta alla marchesina Diana Zambeccari di Bologna, attraverso la mediazione
di un sensale, è costretto a pagare circa ventimila scudi, poi il matrimonio con Adelaide
Antici, avversato da sua madre che arrivò ad inginocchiarsi davanti al figlio pur di
distoglierlo dal suo proposito; quindi le avversità delloccupazione francese e
investimenti sbagliati, tanto che sei anni dopo il matrimonio Adelaide Antici prende in
mano la situazione, perché gli interessi sui debiti contratti che bisognava pagare ogni
anno ammontavano ormai allintero reddito familiare. Monaldo è costretto ad
accettare questa nuova situazione di fatto, ma si consolava come poteva nella coltivazione
degli studi e nella compilazione dei troppi trattati di teologia e politica. Ebbe perfino
lidea di far resuscitare laccademia poetica de "I disuguali
placidi", ospitando le sedute nel suo palazzo e pagando di tasca sua la musica per le
serate finché la sede fu spostata nel Palazzo Pubblico. A queste riunioni parteciperanno
anche Paolina, col nome di Doralice e Giacomo col nome di Tirso Licedio.
Monaldo e Adelaide avevano due caratteri
profondamente diversi: tanto buono e debole il prima, quanto inflessibile e soprattutto
incapace di manifestare i suoi sentimenti e il suo affetto per i figli, che non
riceveranno da lei mai una carezza. Adelaide il giorno in cui diventa amministratrice dei
beni della famiglia, vende tutti i suoi gioielli privandosi dogni piacere e
dogni lusso, e anno dopo anno, scudo dopo scudo, rimette in sesto il patrimonio
della famiglia, pur non rinunciando a un solo domestico e tenendo aperto il palazzo come
per il passato per mantenere il decoro della famiglia. È una donna che non sa esprimere i
suoi sentimenti, ma li prova: una volta, "dopo una lunga assenza del marito, svenne
di commozione mentre scendeva lo scalone per andarlo ad accogliere", narra Iris Origo
e "di tutte le cose terrene amava singolarmente i fiori più delicati e fragranti, il
mughetto, la mammola, la resèda, le gaggie, che non fanno spicco ed emanano profumo solo
per chi se li tiene accanto": è il ritratto di una donna intimamente delicata, che
si presentava allesterno fredda e controllata, addirittura stoica nel dolore fisico
e che non vezzeggiava mai i suoi figli, ma, come scriveva Paolina al fratello, li
comprendeva benissimo: "In verità, caro Giacomuccio mio, che non vintendevamo
allora, fuori di Mamà che vi comprendeva benissimo."
I coniugi Leopardi erano assidui nel
vigilare sulla salute morale e fisica dei figli: Monaldo fece perfino vaccinare i primi
tre figli, facendo arrivare il vaccino da Genova, e fu il primo tra i recanatesi ad avere
un simile pensiero. Furono molto attenti almeno alle cose esteriori, ma forse un po
meno a quelle intime, quelle che tanti problemi generano soprattutto in chi è dotato di
una sensibilità fuori del comune, come Giacomo.
I PRIMI STUDI: gli anni della poesia
Il primo educatore di
Giacomo è il cappellano di famiglia, Don Vincenzo Diotallevi, dal quale imparò
lalfabeto e il catechismo, un uomo semplice che i bambini di casa Leopardi ogni
tanto prendevano in giro bonariamente o al quale facevano qualche scherzo che però non
faceva imbizzire il vecchio prelato: "pare che una sera, tornando dalla loro fattoria
per una solitaria strada di campagna, Giacomo e i fratelli, mascherati, si siano divertiti
a preparare un agguato per il vecchio precettore, Don Vincenzo, il pedante rigido,
chiedendogli in tono faceto la borsa o la vita" (Iris Dorigo). Lo
stesso episodio racconta Leopardi nella poesia giovanile La
Dimenticanza. Don Vincenzo è anche un po il confidente dei ragazzini: è
lui, ad esempio, a ricevere le lettere segrete che Paolina scambia, di nascosto dalla
madre, con Marianna ed Anna Brighenti, leditore di Giacomo, scrivendole di notte:
quando arrivava una lettera Don Vincenzo metteva un vasetto fiorito sul davanzale della
propria finestra per comunicare la buona notizia, poi di notte Paolina sgattaiolava nella
biblioteca a recuperare la lettera.
Ma le prime vere lezioni Giacomo le
riceve da don Giuseppe Torres, un gesuita di Vera Cruz, già precettore di Monaldo che di
lui così dice: "A lui debbo la mia educazione, i miei
principi, e tutto il mio essere di cristiano e di galantuomo"; e subito dopo
sinceramente aggiunge che quello stesso precettore, con il suo pretendere che egli
recitasse a memoria la lezione senza sbagliare una sillaba, era stato "lassassino degli studi miei". Successivamente viene
affidato alle cure dellabate Sebastiano Sanchini di Saludeccio di Pesaro e al
profugo francese, labbé Borne, per le prime lezioni di francese. Sanchini, che non
aveva una conoscenza accurata del latino, "ammaestrò Giacomo e
il suo minore Carlo fino alli 20 di luglio del 1812, in cui diedero ambedue pubblico
esperimento di filosofia": così scrive Monaldo in una lettera-memoriale
indirizzata ad Antonio Ranieri; ma Giacomo in una nota autobiografica, inviata a Carlo
Pepoli nel 1826, ricorda come era già indipendente e senza maestro alletà di dieci
anni.
Da quella data Giacomo e Carlo
continuarono gli studi da soli, non avendo altri a disposizione che avessero una cultura
così vasta da poter loro insegnare qualcosa. Si dedica a uno studio fecondo di carattere
filologico, erudito e filosofico in senso lato, componendo numerose Dissertazioni
filosofiche. Con il 1812 si chiude il primo periodo della formazione culturale
di Giacomo, incentrato soprattutto su una produzione di poesie e di traduzioni da poeti
latini e greci, culminante nella tragedia Pompeo in Egitto,
avente per tema il culto della libertà e una certa avversione per Cesare, rappresentato
come tiranno e usurpatore, che Giacomo donerà al padre alla vigilia di Natale (1812),
alletà di soli 14 anni. "Nei primi lavori di Giacomo si
avverte chiaramente linfluenza esercitata su di lui dalleredità classica e
dai pregiudizi politici paterni, ma si sente anche il peso della mano materna e gesuitica
sui temi a sfondo religioso" (Origo); sono lavori che
preannunciano in qualche modo il futuro grande poeta, come questa delicata favola,
scritta nel 1810, intitolata LUcello, che,
commenta Maria Corti, "È il primo grido di evasione del
ragazzo, in nome della libertà:
LUcello Entro dipinta gabbia A lui dentro i tersissimi Pur de la gabbia luscio Ma quando a lui soffersero De labbondanza immemore Di libertà lamore |
I SETTE ANNI DI STUDIO MATTO E DISPERATISSIMO, gli anni della filologia
Il 1809 è un anno importante: il 9
aprile riceve la Prima Comunione e si rafforza in lui quello spirito religioso che per
alcuni anni hanno portato molti della sua famiglia a pensare che anche lui avrebbe seguito
le orme di numerosi familiari abbracciando la vita sacerdotale; ma proprio in
quellanno comincia anche quel periodo di studi che più tardi Giacomo definirà
"matto e disperatissimo", che durerà per sette
anni fino al 1816. Nel 1809 potè cominciare ad usare la ricca biblioteca paterna e a
partire dal 1812, in coincidenza con lapertura al pubblico recanatese della fornita
biblioteca paterna (ma quasi sempre resterà deserta), accedere alla parte riservata della
biblioteca stessa, che conteneva i libri proibiti dalla Chiesa, per leggere i quali
occorreva una speciale dispensa che il padre gli fa ottenere in quellanno. A
conferma della inclinazione di Giacomo a una profonda "divozione" e del fatto
che era "pochissimo dato ai sollazzi puerili", il
19 agosto 1810 riceve, comera costume dei nobili, la tonsura da monsignor Bellini,
vescovo di Recanati.
Di questi anni ricordiamo lo studio del greco e
dellebraico, del francese e perfino dellaramaico, in cui scrive opere come il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi del 1815, in
cui il giovane autore disserta su 24 errori degli antichi secondo questo indice:
Capo primo |
Idea dellopera |
Capo secondo |
Degli dei |
Capo terzo |
Degli oracoli |
Capo quarto |
Della magia |
Capo quinto |
Dei sogni |
Capo sesto |
Dello sternuto |
Capo settimo |
Del meriggio |
Capo ottavo |
Dei terrori notturni |
Capo nono |
Del sole |
Capo decimo |
Degli astri |
Capo decimoprimo |
Dellastrologia, delle eclissi, delle comete |
Capo decimosecondo |
Della terra |
Capo decimoterzo |
Del tuono |
Capo decimoquarto |
Del vento e del tremuoto |
Capo decimoquinto |
Dei pigmei e dei giganti |
Capo decimosesto |
Dei centauri, dei ciclopi, degli arimaspi, dei cinocefali |
Capo decimosettimo |
Della fenice |
Capo decimottavo |
Della lince |
Capo decimonono |
Ricapitolazione |
Ricordiamo ancora
numerose dissertazioni filosofiche e traduzioni dal Greco (gli Idilli Mosco, il I
libro dellOdissea, la Titanomachia di Esiodo) e dal latino (il II
libro dellEneide).
Così scrive allamico Pietro
Giordani il 2 marzo 1818
" Io per lunghissimo tempo ho creduto fermamente di dover morire alla più lunga fra due o tre anni. Ma di qua ad otto mesi addietro, cioè presso a poco da quel giorno chio misi piede nel mio ventesimo anno ho potuto accorgermi e persuadermi, non lusingandomi, o caro, né ingannandomi, che il lusimgarmi e lingannarmi pur troppo mè impossibile, che in me veramente non è cagione necessaria di morir presto, e purché mabbia infinita cura, potrò vivere, bensì strascinando la vita coi denti, e servendomi di me stesso appena per la metà di quello che facciano gli altri uomini, e sempre in pericolo che ogni piccolo accidente e ogni minimo sproposito mi pregiudichi o mi uccida: perché in somma io mi sono rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo in quel tempo che mi sandava formando e mi si doveva assodare la complessione. E mi sono rovinato infelicemente e senza rimedio per tutta la vita, e rendutomi laspetto miserabile, e dispregevolissima tutta quella gran parte delluomo, che è la sola a cui guardino i più; e coi più bisogna conversare in questo mondo: e non solamente i più, ma chicchessia è costretto a desiderare che la virtù non sia qualche ornamento esteriore, e trovandonela nuda affatto, sattrista, e per forza di natura che nessuna sapienza può vincere, quasi non ha coraggio damare quel virtuoso in cui niente è bello fuorché lanima. Questa ed altre misere circostanze ha posto la fortuna intorno alla mia vita, dandomi una cotale apertura dintelletto perchio le vedessi chiaramente, e maccorgessi di quello che sono, e di cuore perchegli conoscesse che a lui non si conviene lallegria, e quasi vestendosi a lutto, si togliesse la malinconia per compagna eterna e inseparabile. Io so dunque e vedo che la mia vita non può essere altro che infelice: tuttavia non mi spavento, e così potesse ella esser utile a qualche cosa, come io proccurerò di sostenerla senza viltà. Ho passato anni così acerbi, che peggio non par che mi possa sopravvenire: contuttociò non dispero di soffrire anche di più: non ho ancora veduto il mondo, e come prima lo vedrò, e sperimenterò gli uomini, certo mi dovrò rannicchiare amaramente in me stesso, non già per le disgrazie che potranno accadere a me, per le quali mi pare dessere armato di una pertinace e gagliarda noncuranza, né anche per quelle infinite cose che mi offenderanno lamor proprio, perché io sono risolutissimo e quasi certo che non minchinerò mai a persona del mondo, e che la mia vita sarà un continuo disprezzo di disprezzi e derisione di derisioni; ma per quelle cose che mi offenderanno il cuore: e massimamente soffrirò quando con tutte quelle mie circostanze che ho dette, mi succederà, come necessarissimamente mi deve succedere, e già in parte mè succeduta una cosa più fiera di tutte, della quale adesso non vi parlo."
Abbiamo riportato
quasi per intero la lettera, perché ci sembra molto significativa sul piano della
coscienza di come lavevano ridotto sette anni di studio matto e disperatissimo e di
come avrebbe dovuto affrontare da quel momento in poi la sua vita. A diciotto anni,
avrebbe detto circa un secolo dopo Pirandello, le sue idee non sarebbero state viste nella
loro interezza, ma avrebbero avuto il colore e il calore di un corpo deforme e dalla
complessione "dispregevolissima". Da quel momento in poi le cose avrebbero
potuto solo peggiorare, anche perché forte stava diventando il desiderio di allargare i
propri angusti orizzonti con la conoscenza del mondo e degli uomini che si trovano oltre
gli angusti confini di Recanati: e per questa conoscenza ci sarebbe voluta una forza quasi
eroica che avrebbe potuto permettere di superare disprezzi e derisioni.
Il Conte Monaldo certo non era
insensibile alla salvaguardia fisica dei suoi figli, ma forse lorgoglio di avere un
figlio che da solo e in così tenera età stava diventando "dottissimo" deve
avergli chiuso gli occhi di fronte alla misera realtà che si stava verificando, anche se
qualcuno aveva cercato di aprirgli gli occhi, come già nel 1813 lo zio marchese Carlo
Antici in una lunga lettera di ammonimento: "Voi mi dite che il
vostro impareggiabile Giacomo studia ora, senza maestro, la lingua greca di cui spera
farsi padrone in un anno, e che in seguito vuole studiare lebraica: Io mi rallegro
con voi, con lui, col sacerdozio cui sembra sin da ora chiamato; ma permettetemi che io vi
esterni la mia apprensione per la sua salute" (Origo p. 89),
e concludeva la lettera pregando il cognato di mandare Giacomo a Roma ospite suo, perché
lì il ragazzo, pur proseguendo i suoi studi con eminenti studiosi, avrebbe potuto anche
condurre una vita più attiva.
Il conte Monaldo non capì e rispose che
non poteva privarsi dellunico amico che aveva o sperava di avere in Recanati. E non
capì, né poteva prevederlo, che quellunico amico che credeva e sperava di avere,
qualche anno dopo si sarebbe ribellato con tutte le sue forze alla tirannia di essere
relegato in un paese provinciale e soffocante come Recanati.
In quegli stessi anni il rapporto di
Giacomo con Recanati si spezza, reso difficile prima dalla stessa posizione sociale dei
conti Leopardi, che impediva di fatto ogni rapporto di Giacomo coi suoi coetanei, poi
dalla malattia che aveva colpito il ragazzo durante i sette anni di studio matto e
disperatissimo: lisolamento e la deformità fisica eccitava i ragazzi recanatesi,
fra i quale spiccava il nipote del parroco della chiesa di Santa Maria di Montemorello,
uno dei tre borghi in cui si divideva il paese, e che dava sullo stesso spiazzo su cui si
affacciava palazzo Leopardi. "Altri ragazzi
scrive Rolando Damiani - tra cui il
figlio del "cacciarolo" dei conti, schiamazzavano con lui quando intonava la
filastrocca: "Gobbus esto fammi un canestro: fammelo cupo gobbo fottuto".
Per i ragazzi Giacomo era diventato Il gobbo di Montemorello
e in termini più dispregiativi leremita, il saccentuzzo, il filosofo che per un
orribile scherzo della natura si credeva un granduomo. Tutto questo ricorderà
Leopardi ne Le ricordanze:
Nè mi diceva il cor che l'età verde |
I due grandi elementi importanti per la crescita di ogni individuo, la famiglia come vedremo più oltre e il rapporto sociale, si vestono di una profonda negatività, per cui non resta che la biblioteca paterna nella quale consumerà la gioventù e la propria sanità fisica, contraendo una malattia, agli e nel fisico, che lentamente lo porterà, attraverso lunghi mesi di sofferenza intervallati da brevi periodi in cui il dolore per le malattie diventa sopportabile tanto da sembrare e credersi illudendosi guarito dalle malattie.
E LAMORE?
L11 dicembre
1817 da Pesaro giunge ospite la cugina ventiseienne di Monaldo, Geltrude Cassi sposata col
conte Giovanni Giuseppe Lazzari, una donna dalla bellezza giunonica e dalla corporatura
robusta, nata nel 1791 (sette anni prima di Giacomo) e di 31 anni più giovane del marito
(nato nel 1760), che si sarebbe trattenuto in casa Leopardi per un paio di giorni: per la
prima volta "colle sue burlette" Giacomo aveva
fatto ridere "una dama di bello aspetto, e parlatole, e
ottenutone molte parole e sorrisi" giocando con lei a carte durante la seconda
serata; ma il gioco viene troppo presto interrotto dalla madre, per cui si deve
allontanare "scontentissimo e inquieto".
Geltrude rappresenta il primo amore di
Giacomo, che così descrive il primo sorgere del sentimento che mai sarà realizzato nel
corso della sua vita:
"Avea giuocato senza molto piacere, ma lasciai anche con dispiacere, pressato da mia madre: La Signora mavea trattato benignamente, ed io per la prima volta avea fatto ridere colle mie burlette una dama di bello aspetto, e parlatole, e ottenutone per me molte parole e sorrisi. Laonde cercando fra me perché fossi scontento, non lo sapea trovare. Non sentia quel rimorso che spesso, passato qualche diletto, ci avvelena il cuore, di non esserci ben serviti delloccasione. Mi parea di aver fatto e ottenuto quanto si poteva e quanto io mera potuto aspettare. Conosceva però benissimo che quel piacere era stato più torbido e incerto, chio non me lera immaginato, ma non vedeva di poterne incolpare nessuna cosa. E ad ogni modo io mi sentiva il cuore molto molle e tenero, e alla cena osservando gli atti e i discorsi della signora, mi piacquero assai, e mi ammollirono sempre più; e insomma la Signora mi premeva molto: la quale nelluscire capii che sarebbe partita lindomani, né io lavrei riveduta."
Da questa esperienza
scaturiranno Il primo amore e il Diario
del primo amore.
Per capire queste parole bisogna
ritornare in casa Leopardi, a come era organizzata la vita nella casa, a come vivevano i
ragazzi, lontano da qualsiasi tipo di rapporti umani con qualsiasi tipo di persona in modo
ravvicinato: l'nico rapporto poteva essere quello epistolare (vedi il caso di
Paolina) o libresco (vedi il caso di Giacomo).
Per capire queste parole bisogna
ritornare in casa Leopardi, a come era organizzata la vita nella casa, a come vivevano i
ragazzi, lontano da qualsiasi tipo di rapporti umani con qualsiasi tipo di persona in modo
ravvicinato: l'unico rapporto poteva essere quello epistolare (vedi il caso di Paolina) o
libresco (vedi il caso di Giacomo). I rapporti tra genitori e figli sono improntati a un
formalismo che bandisce quasi del tutto laffetto: la madre è una sfinge che ha
rinunciato e che si è posta due fini: la salvezza dellanima delle persone che fanno
parte della sua famiglia (parenti e servi) e la salvezza del patrimonio familiare.
Giacomo non si leverà mai di dosso
questa freddezza, sembra quasi che non diventi mai adulto se per adulto intendiamo colui
che prende da sè tutte le decisioni senza dipendere da nessuno: è un atteggiamento
mentale che verrà analizzato nel Discorso sopra lo stato presente degli italiani,
in cui afferma.
Luomo è animale imitativo e desempio. Questa è cosa provata. Tale egli è sempre, anche dopo emancipato (se egli arriva mai ad esserlo) dal giogo delle credenze e del modo di pensare e di vedere altrui; anche filosofo: egli lo è men degli altri, ma pure in gran parte. Questa sua imitazione è volta principalmente a suoi simili, questo esempio chei ne prende, da loro principalmente lo piglia. Una parte maggiore o minore, ma sempre una qualche parte, non solo della sua condotta, non solo del suo carattere, de suoi costumi, non solo del suo animo generalmente, ma del suo stesso intelletto, e del suo modo di pensare, dipende, imita, si regola, è modificata dallesempio altrui, cioè precisamente e massimamente di quella parte de suoi simili colla quale ei convive, sia che ei conviva per mezzo della lettura, sia specialmente colla persona, sia come si voglia.
E qui lesempio
di imitazione e di educazione è, innanzitutto, latteggiamento morale e religioso di
mamma Adelaide, mentale e culturale di papà Monaldo che tanta parte avrà nella
formazione di Giacomo e tanta influenza eserciterà con una presenza costante nella mente
del figlio anche se non effettiva fisicamente.
Nell'epistolario del Poeta si conservano
solo cinque lettere scritte alla madre (a fronte delle circa 270 scritte
ai familiari: al padre 136, a Paolina 55, Carlo 51,
Pierfrancesco 16, Carlo Antici 9). Anzi, con
luscita di casa riceve espressamente la proibizione di mandare lettere alla madre:
così infatti scrive da Roma:
[Roma] 22 gennaio 1823
Cara Mamma. Io mi ricordo chElla quasi mi proibì di scriverle, ma intanto non vorrei che pian piano, Ella si scordasse di me. Per questo timore rompo la sua proibizione e le scrivo, ma brevemente, dandole i saluti del Zio Carlo e del Zio Momo. Sono in piedi oggi per la prima volta dopo otto giorni intieri di letto, e la mia piccola piaga è ben chiusa. Se non si riapre, che spero di no, son guarito. S'ella non mi vuol rispondere di sua mano, basterà che lo faccia fare, e mi faccia dar le sue nuove, ma in particolare, perché le ho avute sempre in genere. La prego a salutare cordialmente da mia parte il Papà e i fratelli; e se vuol salutare anche D. Vincenzo, faccia Ella. Ma soprattutto la prego a volermi bene, comè obbligata in coscienza, tanto più challa fine io sono un buon ragazzo, e le voglio quel bene chElla sa o dovrebbe sapere. Le bacio la mano, il che non potrei fare in Recanati. E con tutto il cuore mi protesto Suo figlio doro Giacomo-alias-Mucciaccio
È un Giacomo che cerca affetto, che cerca di scherzare col nomignolo di Mucciaccio e di figlio doro e che soprattutto chiede che gli voglia un poco di bene perché alla fin dei conti è un bravo ragazzo e così è obbligata in coscienza. Così, parlando della religione, la descrive Giacomo nello Zibaldone:
Quanto anche la religion cristiana sia contraria alla natura, quando non influisce se non sul semplice e rigido raziocinio, e quando questo solo serve di norma, si può vedere per questo esempio. Io ho conosciuto intimamente una madre di famiglia che non era punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza cristiana, e negli esercizi della religione. Questa non solamente non compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl'invidiava intimamente e sinceramente, perchè questi eran volati al paradiso senza pericoli, e avean liberato i genitori dall'incomodo di mantenerli. Trovandosi più volte in pericolo di perdere i suoi figli nella stessa [354] età, non pregava Dio che li facesse morire, perchè la religione non lo permette, ma gioiva cordialmente; e vedendo piangere o affliggersi il marito, si rannicchiava in se stessa, e provava un vero e sensibile dispetto. Era esattissima negli uffizi che rendeva a quei poveri malati, ma nel fondo dell'anima desiderava che fossero inutili, ed arrivò a confessare che il solo timore che provava nell'interrogare o consultare i medici, era di sentirne opinioni o ragguagli di miglioramento. Vedendo ne' malati qualche segno di morte vicina, sentiva una gioia profonda (che si sforzava di dissimulare solamente con quelli che la condannavano); e il giorno della loro morte, se accadeva, era per lei un giorno allegro ed ameno, nè sapeva comprendere come il marito fosse sì poco savio da attristarsene. Considerava la bellezza come una vera disgrazia, e vedendo i suoi figli brutti o deformi, ne ringraziava Dio, non per eroismo, ma di tutta voglia. Non proccurava in nessun modo di aiutarli a nascondere i loro difetti, anzi pretendeva che in vista di essi, rinunziassero intieramente alla vita nella loro prima gioventù: se resistevano, se cercavano il contrario, se vi riuscivano in qualche minima parte, n'era indispettita, scemava quanto poteva colle parole e coll'opinion sua i loro successi (tanto de' brutti quanto de' belli, perchè n'ebbe molti), e non lasciava [355] passare anzi cercava studiosamente l'occasione di rinfacciar loro, e far loro ben conoscere i loro difetti, e le conseguenze che ne dovevano aspettare, e persuaderli della loro inevitabile miseria, con una veracità spietata e feroce. Sentiva i cattivi successi de' suoi figli in questo o simili particolari, con vera consolazione, e si tratteneva di preferenza con loro sopra ciò che aveva sentito in loro disfavore. Tutto questo per liberarli dai pericoli dell'anima, e nello stesso modo si regolava in tutto quello che spetta all'educazione dei figli, al produrli nel mondo, al collocarli, ai mezzi tutti di felicità temporale. Sentiva infinita compassione per li peccatori, ma pochissima per le sventure corporali o temporali, eccetto se la natura talvolta la vinceva. Le malattie, le morti le più compassionevoli de' giovanetti estinti nel fior dell'età, fra le più belle speranze, col maggior danno delle famiglie o del pubblico ec. non la toccavano in verun modo. Perchè diceva che non importa l'età della morte, ma il modo: e perciò soleva sempre informarsi curiosamente se erano morti bene secondo la religione, o quando erano malati, se mostravano rassegnazione ec. E parlava di queste disgrazie con una freddezza marmorea. Questa donna aveva sortito dalla natura un carattere sensibilissimo, ed era stata così ridotta dalla sola religione.
La nota dello Zibaldone
porta la data del 25 novembre 1820, ed anche se in seguito non metterà questa pagine,
compilando lindice dello stesso Zibaldone,
fra le Memorie della mia vita ma fra i passi che si
riferiscono alla Natura degli uomini e delle cose,
resta comunque una descrizione terribile, frutto non di una impressione fuggevole, ma di
un pensiero meditato, che da anni si andava approfondendo, almeno dalla fine del 1817, da
quando cioè Giacomo prende coscienza della deformità del proprio corpo in rapporto alla
bellezza statuaria e un po giunonica della cugina Gertrude Cassi. La descrizione ci
porta a capire due cose importanti:
1) tutta
laffettuosità che mamma Adelaide provava per i suoi figli era stata chiusa in una
parte ben nascosta del suo cuore, conseguenza delleducazione tipica delle signore
della vecchia nobiltà di quel tempo che aveva come segni caratteristici "una
decorosa semplicità di modi, per cui nulla aborrivano più che lenfasi,
laffettazione, labito professorale" (Filippo Crispolti, 1929).
Daltronde la crisi economica della famiglia (il risparmio era un obbligo per salvare
la casa dai debiti) ha portato in casa Leopardi una vera rivoluzione in quanto a gusti e
aspetti della vita quotidiana insieme a un senso profondo di disagio per la nuova
situazione sentita come una degradazione;
2)
la situazione affettiva in seno alla famiglia Leopardi era una cosa tutto sommato normale
nelle famiglie sia nobili che borghesi dellepoca; in Giacomo la situazione affettiva
era sentita penosamente grave proprio in conseguenza delle sue condizioni fisiche,
debilitate dai sette anni di studio matto e disperatissimo, che gli hanno distrutto non
solo il fisico, ma lo hanno intaccato nello spirito, iniettandogli il malessere profondo
della depressione unito alla coscienza dolorosa del proprio corpo che lo porta a vivere
unesistenza senza felicità sentita come aspettazione della morte.
Questa difficoltà di stringere rapporti umani in tutta serenità, in una situazione aggravata dalle sue condizioni di salute che lentamente peggiorano ad ogni mese che passa, durerà tutta la vita e lo porterà a vivere una condizione psicologica che lui stesso descriverà al Viesseux in una lettera del 4 marzo 1826:
... La mia vita, prima per necessità di circostanze e contro mia voglia, poi per inclinazione nata dallabito convertito in natura e divenuto indelebile, è stata sempre, ed è, e sarà perpetuamente solitaria, anche in mezzo alla conversazione, nella quale, per dirlo allinglese, io sono più absent di quello che sarebbe un cieco e sordo. Questo vizio dellabsence è in me incorreggibile e disperato. Se volete persuadervi della mia bestialità, domandatene a Giordani, al quale, se occorre, do pienissima licenza di dirvi di me tutto il male che io merito e che è la verità. Da questa assuefazione e da questo carattere nasce naturalmente che gli uomini sono a miei occhi quello che sono in natura, cioè una menomissima parte delluniverso, e che i miei rapporti con loro e i loro rapporti scambievoli non minteressano punto, e non interessandomi, non gli osservo se non superficialissimamente. Però siate certo che nella filosofia sociale io sono per ogni parte un vero ignorante. Bensì sono assuefatto ad osservar di continuo me stesso, cioè luomo in sé, e similmente i suoi rapporti col resto della natura, dai quali, con tutta la mia solitudine, io non mi posso liberare. Tenete dunque per costante che la mia filosofia (se volete onorarla con questo nome) non è di quel genere che si apprezza ed è gradito in questo secolo; è bensì utile a me stesso, perché mi fa disprezzar la vita e considerar tutte le cose come chimere, e così mi aiuta a sopportar lesistenza; ma non so quanto possa esser utile alla società ...
In questa condizione mentale e di
generale educazione, Geltrude diventa allora un "caso letterario", nel senso che
fra i due personaggi della storia damore non intercorre né uno sguardo
né una parola che sia fuori dalle regole di normale convivenza sociale e civile, non
abbiamo nessuna sensazione della donna né alcun atteggiamento né alcuna parola né
alcuno sguardo, ma solo una visione di Giacomo e di ciò che lui sente;
lintera vicenda è un qualcosa che entra profondamente nellanimo del poeta, e
direi che non verrà mai più provato perché non esisterà nessunaltra visione che
possiamo vedere così vicina a lui perché nessunaltra realizzerà una vicinanza
fisica e mentale così vitale.
La presenza di altre donne, come Silvia alias Teresa Fattorini o Nerina alias Maria Belardinelli, sulle
quali tanti e acclamati critici si affannano inutilmente con immaginazioni molto spesso
fantasiose, lontane da ogni documentabile realtà, e soprattutto lontano da ogni
intelligente valutazione dei pochissimi indizi di cui siamo in possesso, delle quali
abbiamo testimonianza nella sua vita, sono abbastanza tenui e sfumati e quindi assumono la
veste di una evanescente presenza più intellettiva che reale. Sia Silvia-Fattorini
che Nerina-Belardinelli, entrambe di condizione
modesta, e quindi lontane dalle possibilità di aprire un possibile dialogo
con il conte Giacomo, morirono nella prima gioventù e sono i soli che egli ricorderà
senza nessuna amarezza e che saranno lispirazione dei celebri canti di A Silvia e de Le ricordanze.
Altre donne, altri amori non si
conoscono. Né daltronde crediamo che potrebbero venire alla luce dopo tutto quel
che ha scritto lo stesso Leopardi intorno alla propria vita sia intima che sociale.
Lamore per Giacomo è stata una
idealità tutta personale e mentale; nella realtà della sua esistenza, ristretta prima
allambito recanatese, poi allargata a confini e limiti sempre più ampi ed
extrarecanatesi, ma solo apparentemente perché ormai i limiti erano nella mente stessa
del poeta, resta una idealità tutta personale e mentale, quasi un sogno, originato dalla
coscienza della precarietà della vita e dello sfinimento fisico determinato dalle sue
condizioni patologiche che abbiamo già evidenziato e che accompagneranno il poeta fino
alla morte.
La donna per Giacomo Leopardi sarà
sempre qualcosa di sfuggente sul piano reale e fisico e sarà relegata al piano mentale e
spirituale, a una pittura visionaria idealistica che richiama alla mente le donne del
Trecento, ma molto sottovoce, in tono dimesso, come se lamore, pur così
profondamente sentito, fosse un qualcosa di secondario e da tacere, un tabù radicato
profondamente nellanimo dalleducazione ricevuta dalla madre e dai sentimenti
religiosi così intimamente assaporati, tanto da predestinarlo in qualche modo, come
abbiamo visto, alla vita sacerdotale.
Ma dentro di sé il Leopardi ha
immaginato, sognato e desiderato; e dopo aver immaginato e sognato ha desiderato con forza
e dolcezza, quella forza che derivava dalla sua giovane età e quella dolcezza che
derivava dalla sua coscienza di essere divenuto ormai spregevolissimo nella conformazione
fisica allidealità dei più: con questo sentimento lamore gli sarà per
sempre negato.
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© aprile 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 08 luglio 1998