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Il primo trentennio del secolo è tutto occupato dal successo delle opere del D’Annunzio, dal diffondersi, sia pure attraverso innumerevoli incomprensioni, delle novelle e dei romanzi del Pirandello, dalla riscoperta del Verga, prima ad opera del Croce e poi, definitivamente e compiutamente, del saggio del Russo, dalla scoperta dello Svevo dovuta al Montale.  

Scrittori d'opposizione 

Intanto si consolida  il potere  della dittatura fascista, che dà vita ad una retorica che mira ad esaltare la presunta “sanità” del popolo italiano, ma anche alle prime sommesse voci di dissenso. Ad esempio nel 1929 Alberto Pincherle, detto Moravia, pubblica “Gli indifferenti” tracciando un quadro della piccola borghesia di provincia, inetta e dai costumi scandalosi, assai in contrasto con l'immagine che si voleva artatamente costruire della società italiana. Naturalmente il romanzo fu aspramente criticato dalla intellettualità di regime. Alcuni anni dopo, nel 1934, apertamente osteggiato, vide la luce un altro romanzo di opposizione, “Tre operai”, di Carlo Bernari, che osava affrontare i problemi del mondo operaio con consapevole atteggiamento polemico nei confronti della classe dirigente, come, sia pure a distanza di tempo, confidò lo stesso Autore: «Forse a torto (ma non so fino a che punto) ritenevo che la memoria, per quanto fedele ad una privata e dolente verità, avrebbe fornito un alibi estetico al fascismo con inoffensive evasioni a ritroso nell’infanzia, nella idillica giovinezza». Un altro colpo alla presunta “sanità” e “virilità” della nostra razza lo inferse Vitaliano Brancati col suo romanzo “Don Giovanni in Sicilia”, in cui si narrano ironicamente le disavventure erotiche di un gruppo di giovani che si raccontano straordinarie gesta amorose, ovviamente inventate, mentre di fatto vanno quasi sempre... in bianco: «Che differenza può trovarsi - nota Carlo Salinari - tra il gallismo puramente verbale dei giovani catanesi e la potenza puramente verbale degli “otto milioni di baionette” e dei “colli fatali”?».  

Scrittori neorealisti 

Nell’immediato secondo dopoguerra, dopo la sconfitta del fascismo ed il ripristino delle libertà democratiche, molti scrittori, che durante il famigerato “ventennio” avevano dovuto subire una sorta di costrizioni al “silenzio”, furono animati da  un senso di rivalsa  e si impegnarono nel ridisegnare l'immagine e la funzione dell'intellettuale in generale e dello scrittore in particolare, dando vita a quella tendenza letteraria  (sulla spinta anche delle nuove istanze dell'arte cinematografica) che è stata definita del neorealismo.

Questa tendenza si richiama  solo  in parte alle caratteristiche del primo realismo di fine Ottocento, cioè al verismo, in quanto ha come principio irrinunciabile quello di attenersi scrupolosamente ed obiettivamente alla “realtà” della vita; ma il suo impegno, il suo rapporto con la realtà sociale va ben al di là delle intenzioni dei veristi, in quanto implica una decisa volontà di intervenire coscientemente  nell’evoluzione della società, di contribuire al suo rinnovamento ed al suo progresso.

Per questo gli scrittori degli anni  Cinquanta parteciparono  attivamente alla vita  dei partiti politici, schierandosi in gran parte con quelli che apparivano meno conservatori e più riformisti e finanche rivoluzionari (quelli della “sinistra”, per interderci). Il critico Franco Fortini giustamente nota: «In quel tempo gli uomini delle parole, gli scrittori, furono investiti da una incredibile responsabilità pubblica. Insieme all’agitatore politico, al giornalista, al regista, lo scrittore fu, per tutte le categorie degli italiani che lo sconvolgimento della guerra civile aveva portato a sinistra, un testimone e un formatore di speranze. Uomini come Vittorini o Levi e, in misura minore, molti altri si trovarono ad avere una autorità morale che nessuno scrittore aveva avuto dai tempi del bardo della democrazia e del poeta soldato».

E fu proprio il Vittorini che, con la sua rivista “Il Politecnico” (1945-1947), tentò di chiarire la qualità delle nuove istanze letterarie: egli affermava che la cultura tradizionale era stata semplicemente “consolatoria  delle sofferenze  umane, senza mai impegnarsi nella lotta di difesa degli umili contro i soprusi dei potenti e che questo atteggiamento aveva consentito, ad esempio, l’avvento del fascismo; era necessario pertanto rigenerare la nozione stessa di “cultura” e chiamare tutti gli intellettuali, e soprattutto gli scrittori, ad un impegno concreto di lotta civile.

Il richiamo del Vittorini fu tutt’altro che inascoltato perché in effetti interpretava e chiariva istanze culturali largamente diffuse. Nell’ambito del neorealismo si affermarono scrittori come Francesco Jovine, Vasco Pratolini, Italo Calvino, Beppe Fenoglio,  ecc., e molti studiosi del fenomeno non esitarono a far rientrare nella nuova tendenza l’opera di Cesare Pavese.

In effetti il Pavese, nel suo breve romanzo (o lungo racconto) “La casa in collina” (1948), narra la vicenda esistenziale di un intellettuale incapace di partecipare alla guerra partigiana contro il fascismo - che pure ritiene sacrosanta e doverosa - e perciò vittima di un complesso di vergogna civile. E' chiaro che lo scrittore si è posto il problema della necessità storica di rinnovare radicalmente la funzione della letteratura secondo  le indicazioni del Vittorini  (e per questa intenzione egli appare condividere le istanze del neorealismo), ma è altrettanto chiaro che egli denunzia (o, meglio, “confessa”) l’incapacità del protagonista verso un impegno concreto di lotta civile: se quest'opera deve essere intesa  - come pare plausibile -  in senso autobiografico, dobbiamo convenire con quanti ritengono che il Pavese non possa essere annoverato, al di là delle sue stesse intenzioni, tra gli scrittori neorealisti.

A noi l’opera del Pavese appare  un’esperienza affatto singolare nel panorama letterario del suo tempo e perciò riteniamo di dovergli dedicare un po' di spazio a parte.  

Cesare Pavese 

Nacque a S. Stefano Belbo, in provincia di Cuneo, nel 1908. Pochi anni dopo si trasferì con la famiglia a Torino, ove il padre svolgeva l’attività di cancelliere di tribunale. Qui compì tutti i suoi studi laureandosi in lettere e filosofia nel 1930. Non potendo accedere alle scuole pubbliche perché non iscritto al partito fascista, si dedicò all’insegnamento in istituti privati e soprattutto ai suoi studi preferiti, fra i quali privilegiò quelli di letteratura americana, come testimoniano le numerose traduzioni che pubblicò. Nel 1935 venne arrestato dalla polizia del regime sia perché aveva collaborato a “La Cultura  (la famosa rivista diretta dal grande maestro Cesare De Lollis, che fu soppressa perché considerata sovversiva), sia perché nella sua casa furono trovate lettere compromettenti indirizzate ad una donna di fede comunista, con la quale lo scrittore aveva in corso una relazione amorosa. Condannato a tre anni di confino, in realtà ne scontò solo uno a Brancaleone, in Calabria.  Ritornato nella sua Torino, scoprì che la sua donna si era sposata e cadde in una tale prostrazione psichica che per poco non lo indusse al suicidio. Tra il 1943 ed il 1945, durante l’infuriare della guerra civile tra partigiani e fascisti, egli si rifugiò con la famiglia della sorella in un paesino del Monferrato, spettatore inerte dell’epica Resistenza, come confesserà, non senza rimorso, nel romanzo autobiografico “La casa in collina”. Nel 1947 ottenne il Premio Strega per il romanzo  Il compagno”. Nell’agosto del 1950, dopo aver annotato nel suo lungo diario “Il mestiere di vivere”: «Non parole. Un gesto. Non scriverò più», si suicidò in una stanzetta d’albergo.

Nel suo diario  egli  affermava: «Tutto il problema della vita è questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri». Da ciò si evince che il  comunicare con gli altri  diviene una necessità  vitale dello scrittore e, in particolar modo, del poeta. Di conseguenza al Pavese appare irrinunciabile e improcrastinabile il superamento dell'arte ermetica assai poco disponibile alla comunicazione: «La prosa italiana era un colloquio estenuato  con se stessa  e la poesia un sofferto silenzio», egli afferma riferendosi alla letteratura italiana del primo trentennio del secolo. Di qui la risposta di un nuovo tipo di poesia, antiletteraria, oggettiva, elementare, una poesia-racconto, e la sua scelta di passare alla narrativa, che meglio si adatta alla comunicazione in quanto dispone di una “trama”, che egli così definisce: «Il nerbo di ogni trama è questo: vedere come quel tale se la cava in quella situazione. Il che vuol dire che ogni trama è sempre un atto di ottimismo in quanto è una ricerca di come si reagisce (va da sé che anche la sconfitta di quel tale è quest’atto: se per l’autore è sconfitto, vuol dire che non se l’è saputa cavare - implicito giudizio su come occorreva fare per cavarsela). E' questo il messaggio di ogni trama: così si deve, o non si deve, fare. Per questo esistono opere immorali: le opere in cui non c’è trama».

Da quanto si è detto si evince che almeno nelle intenzioni il Pavese tien conto delle istanze neorealiste e sembrerebbe voler seguire le orme del Vittorini. Senonché non bastano le intenzioni per imboccare, nel campo dell’arte, una strada anziché un'altra. Occorre anche (e soprattutto) la vocazione. E la vocazione del Pavese era essenzialmente di natura lirico-elegiaca. Solo così è possibile spiegarci, ed acquista un senso artistico concreto, la sua teoria sul mito: come i popoli hanno ciascuno una propria mitologia che affonda le radici nei loro primordi, così gli uomini hanno ciascuno una “mitologia personale” che affonda le radici nella loro infanzia. Compito del poeta, secondo il Pavese, è di spogliare il “mito” di quanto conserva di irrazionale, di primitivo, e di ridurlo in “immagine chiara”.

Queste affermazioni sembrerebbero in contrasto con  quanto detto prima a proposito della trama, ma non è così, perché il Pavese stesso - che, per altro, rifiutò esplicitamente  l’etichetta  di neorealista -, nella pratica della sua arte, pur attingendo alla vita reale e svolgendo una “trama”, in effetti mirava appunto  a  rappresentare l’immagine chiara del mito. Di questo ebbe consapevolezza quando affermò che, ai nostri tempi, per fare il poeta «... ci vuole la ricchezza d'esperienza del realismo e la profondità di sensi del simbolismo».

L'intera produzione artistica del Pavese  si fonda sulle antitesi città-campagna e maturità-infanzia.