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Ermetici furono definiti da  Francesco Flora  (che evidentemente alludeva ad una pratica mistico-misterica dell’antichità, detta appunto Ermetismo)  quei poeti che tra gli  anni 1930-1945  si riunirono in una vera e propria “scuola” con l'intento di fare una poesia totalmente staccata dal contingente, magica e innocente espressione dell’ “essere” ricercato con uno scavo estenuante nel profondo dell'inconscio. Essi inoltre portarono alle estreme  conseguenze l’uso dell’analogia col risultato di apparire incomprensibili tranne  che  ad una élite di iniziati. Questi poeti riconobbero come maestri l’Ungaretti ed il Montale, ma rivolsero la loro attenzione anche più lontano, a Mallarmé  e Valéry.

Tra gli Ermetici ricordiamo i poeti del gruppo fiorentino, Mario Luzi, il più importante, Piero Bigongiari e Alessandro Parronchi. Oltre a questi meritano di essere citati Alfonso Gatto, Libero de Libero, Vittorio Sereni, Leonardo Sinisgalli e Sergio Solmi.

Il più significativo di tutti è però Salvatore Quasimodo, Premio Nobel 1959 per la letteratura, che dopo la seconda guerra mondiale si staccò dagli ermetici per dedicarsi ad una poesia che aprisse un colloquio più esteso e più elementare col pubblico.

Salvatore Quasimodo  nacque da una modesta famiglia (il padre era capostazione) a Modica, in provincia di Ragusa, nel 1901. Frequentò le scuole medie e l'istituto tecnico a Messina, diplomandosi in fisica e matematica nel 1919. L’anno successivo si iscrisse a Roma alla facoltà di ingegneria, ma, costretto dal bisogno, dovette impiegarsi (prima in uno studio tecnico  e  poi alla Rinascente)  e non poté conseguire la laurea. Tra il 1926 e il 1929 prestò servizio di impiegato presso il Genio Civile di Reggio Calabria, ma in seguito si dedicò esclusivamente alla letteratura ed ai suoi studi preferiti (da autodidatta imparò finanche il greco, tanto da poter tradurre i lirici greci). A Firenze fu introdotto da Elio Vittorini nell’ambiente di “Solaria” e conobbe il Montale. Nel 1941 fu nominato “per chiara fama” dal Ministero dell' educazione Nazionale professore di letteratura italiana al conservatorio musicale di Milano. Morì a Napoli nel 1968.

Il nucleo essenziale di ogni sua lirica è costituito dal segno di una reale esperienza di vita. Non per niente egli affermò che «...il poeta non rinnega mai la vita, anche se attraverso la disperazione riconosce l'aridità... Vita, s’intende, in ogni sua inesorabile manifestazione: gioia, se gioia, dolore, se dolore, delitto, psicosi, miseria». E purtroppo tra le esperienze che maggiormente colpirono la sua sensibilità umana furono, da fanciullo, gli orrori del terremoto di Messina (1908), da giovinetto, gli orrori della prima guerra mondiale, da adulto, gli orrori della seconda guerra mondiale. E perciò egli via via maturò l’idea che il poeta deve farsi uomo tra gli uomini e deve aiutare il prossimo a ricercare dentro di sé il bene di cui è capace e far tacere il furore bestiale che così frequentemente assurge a metodo di vita. In questa maturazione certo contribuì la profonda amicizia che lo legò a Giorgio La Pira: «La posizione del poeta  - si legge nel “Discorso sulla poesia” -  non può essere passiva nella società: egli modifica il mondo... Le sue immagini forti, quelle create, battono sul cuore dell'uomo più della filosofia e della storia. La poesia si trasforma in etica, proprio per la sua resa di bellezza: la sua responsa­bilità è in diretto rapporto con la sua perfezione... Un poeta è tale quando non rinuncia alla sua presenza in una data terra, in un tempo esatto, definito politicamente

Delle opere di Quasimodo ricordiamo “Acque e terre” (1930), “Oboe sommerso” (1932), “Lirici greci” (1940), “Ed è subito sera” (1942), “Giorno dopo giorno” (1947), “La vita non è un sogno” (1949), “Il falso e vero verde” (1956).

Ed ora tre esempi famosi, il primo riferentesi all’esperienza più decisamente ermetica, gli altri due al Quasimodo seconda maniera:

           ED E' SUBITO SERA

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera. 

 

     ALLE FRONDE DEI SALICI

  E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull'erba dura di ghiaccio, al lamento
d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.

              UOMO DEL MIO TEMPO

  Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
-t'ho visto- dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T'ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all'altro fratello:
"Andiamo ai campi". E quell'eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

 


Copyright © 1999 Luigi De Bellis