Alessandro Manzoni
Storia della colonna infame
Capitolo VII
Tra i molti scrittori contemporanei
all'avvenimento, scegliamo il solo che non sia oscuro, e che non n'abbia parlato a seconda
affatto della credenza comune, Giuseppe Ripamonti, già tante volte citato. E ci par che
possa essere un esempio curioso della tirannia che un'opinion dominante esercita spesso
sulla parola di quelli di cui non ha potuto assoggettar la mente. Non solo non nega
espressamente la reità di quegl'infelici (nè, fino al Verri, ci fu chi lo facesse in uno
scritto destinato al pubblico); ma pare più d'una volta che la voglia espressamente
affermare; giacchè, parlando del primo interrogatorio del Piazza, chiama «malizia» la
sua, e «avvedutezza» quella de' giudici; dice che, «con le molte contradizioni,
palesava il delitto, nell'atto che voleva negarlo;» del Mora dice parimenti, che «fin
che potè reggere alla tortura, negava, al solito di tutti i rei, e che finalmente
raccontò la cosa com'era: exposuit omnia cum fide.» E nello stesso tempo, cerca
di fare intendere il contrario, accennando, timidamente e di fuga, qualche dubbio sulle
circostanze più importanti; dirigendo, con una parola, la riflession del lettore al punto
giusto; mettendo in bocca a qualche imputato parole più atte a dimostrar la sua
innocenza, di quelle che aveva sapute trovar lui medesimo; mostrando finalmente qualche
compassione che non si prova se non per gl'innocenti. Parlando della caldaia trovata in
casa del Mora, dice: «fece principalmente grand'impressione una cosa forse innocente e
accidentale, del resto schifosa, e che poteva parer qualcosa di quello che si cercava.»
Parlando del primo confronto, dice che il Mora «invocava la giustizia di Dio contro una
frode, contro una maligna invenzione, contro un'insidia nella quale si poteva far cadere
qualunque innocente.» Lo chiama «sventurato padre di famiglia, che, senza saperlo,
portava su quell'infausto capo l'infamia e la rovina sua e de' suoi.» Tutte le
riflessioni che abbiamo esposte poco fa, e quelle di più che si posson fare, sulla
contradizion manifesta tra l'assoluzion del Padilla, e la condanna degli altri, il
Ripamonti le accenna con un vocabolo: «gli untori furon puniti ciò non ostante: unctores
puniti tamen.» Quanto non dice quell'avverbio, o congiunzione che sia! E aggiunge:
«la città sarebbe rimasta inorridita di quella mostruosità di supplizi, se tutto non
fosse parso meno del delitto.»
Ma il luogo dove fa intender più
chiaramente il suo sentimento è dove protesta di non volerlo dire. Dopo aver raccontato
vari casi di persone cadute in sospetto d'untori, senza che ne seguissero processi, «mi
trovo,» dice, «a un passo difficile e pericoloso, a dover dichiarare se, oltre quelli
così a torto presi per untori, io creda che ci siano stati untori davvero... Nè la
difficoltà nasce dall'incertezza della cosa, ma dal non essermi lasciata la libertà di
far quello che pur si pretende da ogni scrittore, cioè ch'esprima i suoi veri sentimenti.
Chè se io dicessi che non ci furono untori, che senza ragione si va a immaginar malizia
degli uomini in ciò che fu punizion di Dio, si griderebbe subito che la storia è empia,
che l'autore non rispetta un giudizio solenne. Tanto l'opinion contraria è radicata nelle
menti, e la plebe credula al solito, e la nobiltà superba son pronti a difenderla come
quello che possano aver di più caro e di più sacro. Mettersi in guerra con tanti,
sarebbe un'impresa dura e inutile; e per ciò, senza negare, nè affermare, nè pender
più da una parte che dall'altra, mi ristringerò a riferir l'opinioni altrui (nota 78).» Chi domandasse se non sarebbe stata cosa più
ragionevole, come più facile, il non parlarne affatto, sappia che il Ripamonti era
istoriografo della città; cioè uno di quegli uomini, ai quali, in qualche caso, può
esser comandato e proibito di scriver la storia.
Un altro istoriografo, ma in un campo più
vasto, Batista Nani, veneziano, che in questo caso non poteva esser condotto da nessun
riguardo a dire il falso, fu condotto a crederlo dall'autorità d'un'iscrizione e d'un
monumento. «Se ben veramente,» dice, «l'immaginazione de' popoli, alterata dallo
spavento, molte cose si figurava, ad ogni modo il delitto fu scoperto e punito, stando
ancora in Milano l'iscrizione e le memorie degli edifici abbattuti, dove que' mostri si
congregavano (nota 79).» Chi, non conoscendo altro di
quello scrittore, prendesse questo ragionamento per misura del suo giudizio,
s'ingannerebbe di molto. In varie ambascerie importanti, e in varie cariche domestiche,
aveva avuto campo di conoscer gli uomini e le cose; e dà prova nella sua storia d'esserci
non volgarmente riuscito. Ma i giudizi criminali, e la povera gente, quand'è poca, non si
riguardano come materia propriamente della storia; sicchè, non c'è da meravigliarsi che,
occorrendo al Nani di parlare incidentalmente di quel fatto, non ci guardasse tanto per la
minuta. Se alcuno gli avesse citata un'altra colonna, e un'altra iscrizione di Milano,
come prova d'una sconfitta ricevuta da' veneziani (sconfitta tanto vera, quanto il delitto
di que' mostri), certo il Nani si sarebbe messo a ridere.
Fa più meraviglia e più dispiacere il
trovar lo stesso argomento e gli stessi improperi in uno scritto d'un uomo molto più
celebre, e con gran ragione. Il Muratori, nel «Trattato del governo della peste,» dopo
aver accennato diverse storie di quel genere, «ma nessun caso,» dice, «è più rinomato
di quel di Milano, ove nel contagio del 1630, furono prese parecchie persone, che
confessarono un sì enorme delitto, e furono aspramente giustiziate. Ne esiste tuttavia (e
l'ho veduta anch'io) la funesta memoria nella Colonna infame posta ov'era la casa di
quegli inumani carnefici. Il perchè grande attenzion ci vuole affinchè non si
rinnovassero più simili esecrande scene.» E quello che, non toglie il dispiacere, ma lo
muta, è il veder che la persuasione del Muratori non era così risoluta come queste sue
parole. Chè, venendo poi a discorrere (e si vede che è ciò che gli preme davvero) de'
mali orribili che posson nascere dal figurarsi e dal credere tali cose senza fondamento,
dice: «si giunge ad imprigionar delle persone, e per forza di tormenti a cavar loro di
bocca la confession di delitti ch'eglino forse non avranno mai commesso, con far poi di
loro un miserabile scempio sopra i pubblici patiboli.» Non par egli che voglia alludere
ai nostri disgraziati? E quello che lo fa creder di più, è che attacca subito con quelle
parole che abbiam già citate nello scritto antecedente, e che, per esser poche,
trascriviam qui di nuovo: «Ho trovato gente savia in Milano che aveva buone relazioni dai
loro maggiori, e non era molto persuasa che fosse vero il fatto di quegli unti velenosi, i
quali si dissero sparsi per quella città, e fecero tanto strepito nella peste del 1630 (nota 80).» Non si può, dico, fare a meno di non sospettare
che il Muratori credesse piuttosto sciocche favole quelle che chiama «esecrande scene,»
e (ciò che è più grave) innocenti assassinati quelli che chiama «inumani carnefici.»
Sarebbe uno di que' casi tristi e non rari, in cui uomini tutt'altro che inclinati a
mentire, volendo levar la forza a qualche errore pernicioso, e temendo di far peggio col
combatterlo di fronte, hanno creduto bene di dir prima la bugia, per poter poi insinuare
la verità.
Dopo il Muratori, troviamo uno scrittore
più rinomato di lui come storico, e (ciò che in un fattto di questa sorte parrebbe dover
rendere il suo giudizio più degno d'osservazione di qualunque altro) storico
giureconsulto, e, come dice di sè medesimo, «più giureconsulto che politico (nota 81),» Pietro Giannone. Noi però non riferiremo questo
giudizio, perchè è troppo poco che l'abbiam riferito: è quello del Nani, che il lettore
ha veduto poco fa, e che il Giannone ha copiato, parola per parola, citando questa volta
il suo autore a piè di pagina (nota 82).
Dico: questa volta; perchè il copiarlo
che ha fatto senza citarlo, è cosa degna d'esser notata, se, come credo, non lo fu ancora
(nota 83). Il racconto, per esempio, della sollevazione
della Catalogna, e della rivoluzione del Portogallo, nel 1640 è, nella storia del
Giannone, trascritto da quella del Nani, per più di sette pagine in 4.°, con pochissime
omissioni, o aggiunte, o variazioni, la più considerabile delle quali è d'aver diviso in
capitoli e in capoversi un testo che nello scritto originale andava tutto di seguito (nota 84). Ma chi mai s'immaginerebbe che l'avvocato
napoletano, dovendo raccontare altre sollevazioni, non di Barcellona, nè di Lisbona, ma
quella di Palermo, del 1647, e quella di Napoli, contemporanea e più celebre, per la
singolarità e per l'importanza degli avvenimenti, e per Masaniello, non trovasse da far
meglio, nè da far più che di prendere, non i materiali, ma la cosa bell'e fatta,
dall'opera del cavaliere e procurator di san Marco? Chi l'anderebbe a pensare soprattutto
dopo aver lette le parole con le quali il Giannone entra in quel racconto? e son queste:
«Gli avvenimenti infelici di queste rivoluzioni sono stati descritti da più autori:
alcuni gli vollero far credere portentosi, e fuor del corso della natura: altri con troppo
sottili minuzie distraendo i leggitori, non ne fecero rettamente concepire le vere
cagioni, i disegni, il proseguimento, ed il fine: noi per ciò, seguendo gli scrittori
più serj e prudenti, gli ridurremo alla lor giusta e natural positura.» Eppure ognuno
può vedere, facendo il confronto, come, subito dopo queste sue parole, il Giannone metta
mano a quelle del Nani (nota 85), frammischiandoci ogni
tanto, e specialmente sul principio, qualcheduna delle sue, facendo qua e là qualche
cambiamento, alle volte per necessità, e nella stessa maniera che uno, il qual compri
biancheria usata, leva il segno dell'antico padrone, e ci mette il suo. Così, dove il
veneziano dice: «in quel regno,» il napoletano sostituisce: «in questo regno;» dove il
contemporaneo dice che vi «restano le fazioni quasi che intiere,» il postero, che vi
«restavano ancora le reliquie dell'antiche fazioni.» È vero che, oltre queste piccole
aggiunte o variazioni, si trovano anche in quel lunghissimo squarcio, come pezzi messi a
rimendo, alcuni brani più estesi, che non son del Nani. Ma, cosa veramente da non
credersi, son presi da un altro quasi tutti, e quasi parola per parola: è roba di
Domenico Parrino (nota 86), scrittore (alla rovescia di
molt'altri) oscuro, ma letto molto, e fors'anche più di quello che sperava lui medesimo,
se, in Italia e fuori, è letta quanto lodata la «Storia civile del regno di Napoli,»
che porta il nome di Pietro Giannone. Chè, senza allontanarci da que' due periodi di
storia de' quali s'è fatto qui menzione, se, dopo le sollevazioni catalana e portoghese,
il Giannone, trascrive dal Nani la caduta del favorito Olivares, trascrive poi dal Parrino
il richiamo del duca di Medina vicerè di Napoli, che ne fu la conseguenza, e i ritrovati
di questo per cedere il più tardi che fosse possibile il posto al successore Enriquez de
Cabrera. Dal Parrino ugualmente, in gran parte, il governo di questo; e poi dall'uno e
dall'altro, a intarsiatura, il governo del duca d'Arcos, per tutto quel tempo che
precedette le sollevazioni di Palermo e di Napoli, e come abbiam detto, il progresso e la
fine di queste, sotto il governo di D. Giovanni d'Austria, e del conte d'Oñatte. Poi dal
Parrino solo, sempre a lunghi pezzi, o a pezzettini frequenti, la spedizione di quel
vicerè contro Piombino e Portolongone; poi il tentativo del duca di Guisa contro Napoli;
poi la peste del 1656. Poi dal Nani la pace de' Pirenei, e dal Parrino una piccola
appendice dove sono accennati gli effetti di essa nel regno di Napoli (nota 87) .
Voltaire, parlando, nel «Secolo di Luigi
XIV,» de' tribunali istituiti da quel re, in Metz e in Brisac, dopo la pace di Nimega,
per decidere delle sue proprie pretensioni sopra territori di stati vicini, nomina in una
nota, il Giannone con gran lode, com'era da aspettarsi, ma per fargli una critica. Ecco la
traduzione di quella nota: «Giannone, così celebre per la sua utile storia di Napoli,
dice che questi tribunali erano stabiliti a Tournai. Sbaglia frequentemente negli affari
che non son del suo paese. Dice, per esempio, che, a Nimega, Luigi XIV fece la pace con la
Svezia; e in vece questa era sua alleata (nota 88)» Ma
lasciando da parte la lode, la critica, in questo caso, non è dovuta al Giannone, il
quale, come in tant'altri casi, non fece nemmen la fatica di sbagliare. È vero che nel
libro dell'uomo «così celebre,» si leggono queste parole: «Seguì poscia la pace fra
la Francia, la Svezia, l'Imperio e l'Imperadore;» (nelle quali, del rimanente, non saprei
se non ci sia ambiguità, piuttosto che errore); e quest'altre: «Aprirono poscia,» i
francesi, «due tribunali, l'uno a Tournay, e l'altro a Metz; ed arrogandosi una
giurisdizione non mai udita nel mondo sopra i principi lor vicini, fecero non solamente
aggiudicare alla Francia, con titolo di dipendenze, tutto il paese che saltò loro in
capriccio ne' confini della Fiandra e dell'Imperio, ma se ne posero in via di fatto in
possessione, costringendo gli abitanti a riconoscere il re Cristianissimo per sovrano,
prescrivendo termini, ed esercitando tutti quegli atti di signoria che sono soliti i
principi di praticare co' sudditi.» Ma son parole di quel povero ignorato Parrino (nota 89), e non già stralciate da quel suo pezzo di storia,
ma portate via insieme con esso: chè spesso il Giannone, in vece di star lì a cogliere
un frutto qua e uno là, leva l'albero addirittura, e lo trapianta nel suo giardino.
Tutta, si può dire, la relazione della pace di Nimega è presa dal Parrino; come in gran
parte, e con molte omissioni, ma con poche aggiunte, il viceregno in Napoli del marchese
de los Veles, nel tempo del quale quella pace fu conclusa, e col quale il Parrino chiude
la sua opera, e il Giannone il penultimo libro della sua. E probabilmente (stavo per dir
di certo), chi si divertisse a farne il confronto intero, per tutto il periodo antecedente
della dominazione spagnola in Napoli, con la quale comincia il lavoro del Parrino,
troverebbe per tutto, quello che noi abbiam trovato in varie parti, e, se non m'inganno,
senza veder mai citato il nome di quel tanto saccheggiato scrittore (nota 90). Così dal Sarpi, senza citarlo punto, prende il
Giannone molti brani, e tutta l'orditura d'una sua digressione (nota 91); come mi fu fatto osservare da una dotta e gentile
persona. E chi sa quali altri furti non osservati di costui potrebbe scoprire chi ne
facesse ricerca; ma quel tanto che abbiam veduto d'un tal prendere da altri scrittori, non
dico la scelta e l'ordine de' fatti, non dico i giudizi, l'osservazioni, lo spirito, ma le
pagine, i capitoli, i libri, è sicuramente, in un autor famoso e lodato, quel che si dice
un fenomeno. Sia stata, o sterilità, o pigrizia di mente, fu certamente rara, come fu
raro il coraggio; ma unica la felicità di restare, anche con tutto ciò (fin che resta),
un grand'uomo. E questa circostanza, insieme con l'occasione che ce ne dava l'argomento,
ci faccia perdonare dal benigno lettore una digressione, lunga, per dir la verità, in una
parte accessoria d'un piccolo scritto.
Chi non conosce il frammento del Parini
sulla colonna infame? Ma chi non si maraviglierebbe di non vederne fatta menzione in
questo luogo? Ecco dunque i pochi versi di quel frammento, ne' quali il celebre poeta fa
pur troppo eco alla moltitudine e all'iscrizione:
Quando, tra vili case e in mezzo a poche Rovine, i' vidi ignobil piazza aprirsi. Quivi romita una colonna sorge In fra l'erbe infeconde e i sassi e il lezzo, Ov'uom mai non penetra, però ch'indi Genio propizio all'insubre cittade Ognun rimove, alto gridando: lungi, O buoni cittadin, lungi, che il suolo Miserabile infame non v'infetti (nota 92). |
Era questa veramente l'opinion del Parini?
Non si sa; e l'averla espressa, così affermativamente bensì, ma in versi, non ne sarebbe
un argomento; perchè allora era massima ricevuta che i poeti avessero il privilegio di
profittar di tutte le credenze, o vere, o false, le quali fossero atte a produrre
un'impressione, o forte, o piacevole. Il privilegio! Mantenere e riscaldar gli uomini
nell'errore, un privilegio! Ma a questo si rispondeva che un tal inconveniente non poteva
nascere, perchè i poeti, nessuno credeva che dicessero davvero. Non c'è da replicare:
solo può parere strano che i poeti fossero contenti del permesso e del motivo.
Venne finalmente Pietro Verri, il primo, dopo
cento quarantasett'anni, che vide e disse chi erano stati i veri carnefici, il primo che
richiese per degl'innocenti così barbaramente trucidati, e così stolidamente aborriti,
una compassione, tanto più dovuta, quanto più tarda. Ma che? le sue «Osservazioni,»
scritte nel 1777, non furon pubblicate che nel 1804, con altre sue opere, edite e inedite,
nella raccolta degli «Scrittori classici italiani d'economia politica.» E l'editore
rende ragione di questo ritardo, nelle «Notizie» premesse all'opere suddette. «Si
credette,» dice, «che l'estimazione del senato potesse restar macchiata dall'antica
infamia.» Effetto comunissimo, a que' tempi, dello spirito di corpo, per il quale,
ognuno, piuttosto che concedere che i suoi predecessori avessero fallato, faceva suoi
anche gli spropositi che non aveva fatti. Ora un tale spirito non troverebbe l'occasione
d'estendersi tanto nel passato, giacchè, in pochi, meno uno soprattutto, il quale, non
essendo stato istituito dagli uomini, non può essere nè abolito, nè surrogato. Oltre di
ciò, questo spirito è combattuto e indebolito più che mai dallo spirito
d'individualità: l'io si crede troppo ricco per accattar dal noi. E in
questa parte, è un rimedio; Dio ci liberi di dire: in tutto.
A ogni modo, Pietro Verri non era uomo da
sacrificare a un riguardo di quella sorte la manifestazione d'una verità resa importante
dal credito in cui era l'errore, e più ancora dal fine a cui intendeva di farla servire;
ma c'era una circostanza per cui il riguardo diveniva giusto. Il padre dell'illustre
scrittore era presidente del senato. Così è avvenuto più volte, che anche le buone
ragioni abbian dato aiuto alle cattive, e che, per la forza dell'une e dell'altre, una
verità, dopo aver tardato un bel pezzo a nascere, abbia dovuto rimanere per un altro
pezzo nascosta.
© 1997 - prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998