Alessandro Manzoni
Storia della colonna infame
Capitolo VI
I due arrotini, sciaguratamente
nominati dal Piazza, e poi dal Mora, erano stati imprigionati fino dal 27 di giugno; ma
non furon mai confrontati, nè con l'uno nè con l'altro, e neppure esaminati, prima
dell'esecuzione della sentenza, che fu il primo d'agosto. L'undici fu esaminato il padre;
il giorno dopo, messo alla tortura, col solito pretesto di contradizioni
d'inverisimiglianze, confessò, cioè inventò una storia, alterando, come il Piazza, un
fatto vero. Fecero l'uno e l'altro come que' ragni che attaccano i capi del loro filo a
qualcosa di solido, e poi lavoran per aria. Gli avevan trovata un'ampolla d'un sonnifero
datogli, anzi composto in casa sua, dal Baruello suo amico; disse ch'era un onto per
fare che moressero la gente; un estratto di rospi e di serpi, con certe poluere che
io non so che poluere siano. Oltre il Baruello, nominò come complice qualche altra
persona di comune conoscenza, e per capo il Padilla. Avrebbero i giudici voluto attaccar
questa storia a quella de' due che avevano assassinati, e far perciò dire a costui, che
aveva ricevuto da loro onto et danari. Se avesse negato semplicemente, avevan la
tortura; ma la prevenne con questa singolare risposta: Signor no, che non è vero; ma
se mi date li tormenti perchè io neghi questa particolarità, sarò forzato a dire che è
vero, benchè non sij. Non potevan più, senza farsi troppo apertamente beffe della
giustizia e dell'umanità, adoprar come esperimento un mezzo del quale eran così
solennemente avvertiti che l'effetto sarebbe certo.
Fu condannato a quel medesimo supplizio;
dopo l'intimazion della sentenza, torturato, accusò un nuovo banchiere, e altri; in
cappella, e sul patibolo, ritrattò ogni cosa.
Se di questo disgraziato, il Piazza e il
Mora avessero detto solamente ch'era un poco di buono, si vede da vari fatti che saltan
fuori nel processo, che non l'avrebbero calunniato. Calunniaron però anche in questo, il
suo figliuolo Gaspare; del quale è bensì riferito un fallo, ma è riferito da lui, e in
tali momenti, e con tale sentimento, che ne risulta come una prova dell'innocenza e della
rettitudine di tutta la sua vita. Ne' tormenti, in faccia alla morte, le sue parole furon
tutte meglio che da uom forte; furon da martire. Non avendo potuto renderlo calunniator di
sè stesso, nè d'altri, lo condannarono (non si vede con quali pretesti) come convinto; e
dopo l'intimazion della sentenza, l'interrogarono, come al solito, se aveva altri delitti,
e chi erano i suoi compagni in quello per cui era stato condannato. Alla prima domanda
rispose: io non ho fatto nè questo, nè altri delitti; et moro perchè una volta diedi
d'un pugno sopra d'un occhio ad uno, mosso dalla collera. Alla seconda: io non ho
alcuni compagni; perchè attendeuo a far li fatti miei; et se non l'ho fatto, non ho
neanche hauuto compagni. Minacciatagli la tortura, disse: V. S. Facci quello che
vole, che non dirò mai quello che non ho fatto, nè mai condannarò l'anima mia; et è
molto meglio che patisca tre o quattro hore de tormenti, che andar nell'inferno a patir
eternamente. Messo alla tortura, esclamò nel primo momento: ah, Signore! Non ho
fatto niente: sono assassinato. Poi soggiunse: questi tormenti forniranno presto;
et al mondo di là bisogna starui sempre. Furono accresciute le torture, di grado in
grado fino all'ultimo, e con le torture, l'istanze di dir la verità. Sempre rispose: l'ho
già detta; voglio saluar l'anima. Dico che non voglio grauar la conscienza mia: non ho
fatto niente.
Non si può qui far a meno di non pensare
che se gli stessi sentimenti avessero data al Piazza la stessa costanza, il povero Mora
sarebbe rimasto tranquillo nella sua bottega, tra la sua famiglia, e, al pari di lui,
questo giovine, ancor più degno d'ammirazione, che di compassione, e tant'altri innocenti
non avrebbero nemmen potuto immaginarsi che spaventosa sorte sfuggivano. Lui medesimo, chi
sa? Certo per condannarlo, non confesso, e su que' soli indizi, e quando, non essendoci
altre confessioni, il delitto stesso non era che una congettura, bisognava violare più
svelatamente, più arditamente, ogni principio di giustizia, ogni prescrizion di legge. A
ogni modo, non potevano condannarlo a un più mostruoso supplizio; non potevano almeno
farglielo soffrire in compagnia d'uno, guardando il quale dovesse dire ogni momento a sè
stesso: l'ho condotto qui io. Di tanti orrori fu cagione la debolezza... che dico?
l'accanimento, la perfidia di coloro che, riguardando come una calamità, come un
sconfitta, il non trovar colpevoli, tentarono quella debolezza con una promessa illegale e
frodolenta.
Abbiamo citato sopra l'atto solenne con
cui una promessa simile fu fatta al Baruello, e l'abbiamo anche accennato di voler far
vedere il conto diverso che i giudici ne facevano. Per ciò principalmente racconterem qui
in succinto la storia anche di questo meschino. Accusato in aria, come s'è visto, prima
dal Piazza d'essere un compagno del Mora, poi dal Mora d'essere un compagno del Piazza;
poi dall'uno e dall'altro d'aver ricevuto danari per isparger l'unguento composto dal Mora
con certe porcherie e peggio (e prima avevan protestato di non saper questo); poi dal
Migliavacca d'averne composto uno lui con altre peggio che porcherie; costituito reo di
tutte queste cose, come se ne facessero una, negò e sostenne bravamente i tormenti.
Mentre pendeva la sua causa, un prete (che fu un altro de' testimoni fatti citar dal
Padilla), pregato da un parente di questo Baruello, lo raccomandò a un fiscale del
senato; il quale venne poi a dirgli che il suo raccomandato era sentenziato a morte, con
tutta quell'aggiunta di carneficine; ma insieme, che «il senato s'accontentaua di
proccurarli da S. E. l'impunità». E incaricò il prete che andasse a trovarlo, e vedesse
di persuaderlo a dire la verità: «poichè il Senato vol sapere il fondamento di questo
negocio, e pensa di saperlo da lui.» Dopo averlo condannato! e dopo quelle esecuzioni!
Il Baruello, sentita la crudele notizia, e
la proposizione, disse: «faranno poi di me come hanno fatto del Commissario?» Avendogli
il prete detto che la promessa gli pareva sincera, cominciò una storia: che un tale (il
quale era morto) l'aveva condotto dal barbiere; e questo, alzato un telo del parato della
stanza, che nascondeva un uscio, l'aveva introdotto in una gran sala, dov'eran molte
persone a sedere, tra le quali il Padilla. Al prete, che non aveva l'impegno di trovar de'
rei, parvero cose strane; siccè l'interruppe, avvertendolo che badasse di non perdere il
corpo e l'anima insieme; e se n'andò. Il Baruello accettò l'impunità, corresse la
storia; e comparso l'undici di settembre davanti ai giudici, raccontò loro che un maestro
di scherma (vivo pur troppo) gli aveva detto esserci una buona occasione di diventar
ricchi, facendo un servizio al Padilla; e l'aveva poi condotto sulla piazza del castello,
dov'era arrivato il Padilla medesimo con altri, e l'aveva subito invitato ad essere uno di
quelli che ungevano sotto i suoi ordini, per vendicar gl'insulti fatti a don Gonzalo de
Cordova, nella sua partenza da Milano; e gli aveva dato danari, e un vasetto di quell'unto
micidiale. Dire che in questa storia, della quale qui accenniam soltanto il principio, ci
fossero delle cose inverisimili, non sarebbe parlar propriamente: era tutto un monte di
stravaganze, come il lettore ha potuto vedere da questo solo saggio.
Dell'inverisimiglianze però ce ne trovarono anche i giudici, e, per di più, delle
contradizioni: per ciò, dopo varie interrogazioni, seguite da risposte che imbrogliavan
la cosa sempre più, gli dissero, che si esplichi meglio, perchè si possa cauar cosa
accertata da quello che dice. Allora, o fosse un suo ritrovato per uscir d'impiccio in
qualunque maniera, o fosse un vero accesso di frenesia, che ce n'era abbastanza cagioni,
si mise a tremare, a storcersi, a gridare: aiuto! a voltolarsi per terra, a volersi
nascondere sotto una tavola. Fu esorcizzato, acquietato, stimolato a dire; e cominciò
un'altra storia, nella quale fece entrare incantatori e circoli e parole magiche e il
diavolo, ch'egli aveva riconosciuto per padrone. Per noi basta l'osservare ch'eran cose
nuove; e che, tra l'altre, ritrattò quello che aveva detto del vendicar l'ingiuria fatta
a don Gonzalo e asserì in vece che il fine del Padilla era di farsi padrone di Milano; e
a lui prometteva di farlo uno de' primi. Dopo varie interrogazioni, fu chiuso l'esame, se
pure merita un tal nome; e dopo quello, n'ebbe tre altri; ne' quali, essendogli detto che
il tal suo asserto non era verisimile, che il tal altro non era credibile, o rispose che
infatti, la prima volta, non aveva detta la verità, o diede una spiegazione qualunque; e
venendogli almen cinque volte buttata in faccia la deposizione del Migliavacca, in cui era
accusato d'aver dato unguento da spargere ad altrettante persone delle quali, nella sua,
non aveva parlato, rispose sempre che non era vero; e sempre i giudici passarono ad altro.
Il lettore che si rammenta come, alla prima inverisimiglianza che credettero bene di
trovar nella deposizione del Piazza, lo minacciarono di levargli l'impunità; come alla
prima aggiunta che fece a quella deposizione, al primo fatto allegato dal Mora contro di
lui, e da lui negato, gliela levarono in effetto, per non hauer detta la verità
intera, come haueua promesso; vedrà ancor più, se ce n'è bisogno, quanto servisse a
coloro l'aver voluto piuttosto fare una giunteria al governatore, che chiedergli una
facoltà, l'aver fatta una promessa in parole e di parole a quel Piazza, che doveva esser
le primizie del sacrifizio offerto al furor popolare, e al loro. Vogliam dir forse che
sarebbe stata cosa giusta il mantener quell'impunità? Dio liberi! sarebbe come dire che
colui aveva deposto un fatto vero.
Vogliam dir soltanto che fu violentemente
ritirata, com'era stata illegalmente promessa; e che questo fu il mezzo di quello. Del
resto, non possiamo se non ripetere che non potevan far nulla di giusto nella strada che
avevan presa, fuorchè tornare indietro, fin ch'erano a tempo. Quell'impunità (lasciando
da parte la mancanza de' poteri) non avevano avuto il diritto di venderla al Piazza, come
il ladro ha il diritto di dar la vita al viandante: ha il dovere di lasciargliela. Era un
ingiusto supplimento a un'ingiusta tortura: l'una e l'altra volute, pensate, studiate dai
giudici, piuttosto che far quello ch'era prescritto, non dico dalla ragione, dalla
giustizia, dalla carità, ma dalla legge: verificare il fatto, facendolo spiegare alle due
accusatrici, se pur la loro era accusa e non piuttosto congettura; lasciandolo spiegare
all'imputato, se pur si poteva dire imputato; mettendo questo a confronto con quelle.
L'esito dell'impunità promessa al
Baruello non si potè vedere, perchè costui morì di peste il 18 di settembre, cioè il
giorno dopo un confronto sostenuto impudentemente contro quel maestro di scherma, Carlo
Vedano. Ma quando sentì avvicinarsi la sua fine, disse a un carcerato che l'assisteva, e
che fu un altro de' testimoni fatti citar dal Padilla: «fatemi a piacere di dire al Sig.
Podestà, che tutti quelli che ho incolpati gli ho incolpati al torto; et non è vero
ch'io habbi chiapato danari dal figliolo del Sig. Castellano... io ho da morire di
quest'infermità: prego quelli che ho incolpati al torto mi perdonino; et di gratia ditelo
al Sig. Podestà, se io ho d'andar saluo. Et io subito,» soggiunge il testimonio, «andai
a riferire al Sig. Podestà quello che il Baruello m'haueua detto.»
Questa ritrattazione potè valere per il
Padilla; ma il Vedano, il quale non era fin allora stato nominato che dal solo Baruello,
fu atrocemente tormentato, quel giorno medesimo. Seppe resistere; e fu lasciato stare (in
prigione, s'intende) fino alla metà di gennaio dell'anno seguente. Era, tra que' meschini
il solo che conoscesse davvero il Padilla, per aver tirato due volte di spada con lui, in
castello; e si vede che questa circostanza fu quella che suggerì al Baruello di dargli
una parte nella sua favola. Non l'aveva però accusato d'aver composto, nè sparso, nè
distribuito unguenti mortiferi; ma solamente d'essere stato di mezzo tra lui e il Padilla.
Non potevan quindi i giudici condannar come convinto un tale imputato, senza pregiudicar
la causa di quel signore; e questo fu probabilmente quello che lo salvò. Non fu
interrogato di nuovo, se non dopo il primo esame del Padilla; e l'assoluzion di questo
tirò dietro la sua.
Il Padilla dal castello di Pizzighettone,
dov'era stato trasferito, fu condotto a Milano il 10 di gennaio del 1631, e messo nelle
carceri del capitano di giustizia. Fu esaminato quel giorno medesimo; e se ci fosse
bisogno d'una prova di fatto per esser certi che anche que' giudici potevano interrogar
senza frodi, senza menzogne, senza violenze, non trovare inverisimiglianze dove non ce
n'era, contentarsi di risposte ragionevoli, ammettere, anche in una causa d'unzioni
venefiche, che un accusato potesse dir la verità, anche dicendo di no, si vedrebbe da
quest'esame, e dagli altri due che furon fatti al Padilla.
I soli che avevano deposto d'essersi
abboccati con lui, il Mora e il Baruello, avevano anche indicati i tempi; il primo
all'incirca, il secondo più precisamente. Domandarono dunque i giudici al Padilla, quando
fosse andato al campo: indicò il giorno; di dove fosse partito per andarci: da Milano; se
a Milano fosse mai tornato in quell'intervallo: una volta sola, e c'era rimasto un giorno
solo, che specificò ugualmente. Non concordava con nessuna dell'epoche inventate dai due
disgraziati. Allora gli dicono senza minacce, con buona maniera, che si metta a memoria
se non si trovò in Milano nel tal tempo, nel tal altro: risponde ogni volta di no,
rapportandosi sempre alla sua prima risposta. Vengono alle persone, e ai luoghi. Se aveva
conosciuto un Fontana bombardiere: era il suocero del Vedano, e il Baruello l'aveva
nominato come uno di quelli che s'eran trovati al primo abboccamento. Risponde di sì. Se
conosceva il Vedano: di sì ugualmente. Se sa dove sia la Vetra de' Cittadini e l'osteria
de' sei ladri: era lì che il Mora aveva detto esser venuto il Padilla, condotto da don
Pietro di Saragozza, a fargli la proposta d'avvelenar Milano. Rispose che non conosceva
nè la strada, nè l'osteria neppur di nome. Gli domandarono di don Pietro di Saragozza:
questo non solo non lo conosceva, ma era impossibile che lo conoscesse. Gli domandano di
certi, due vestiti alla francese; d'un cert'altro, vestito da prete, gente che il Baruello
aveva detto esser venuti col Padilla all'abboccamento sulla piazza del castello. Non sa di
chi gli si parli.
Nel secondo esame, che fu l'ultimo di
gennaio, gli domandan del Mora, del Migliavacca, del Baruello, d'abboccamenti avuti con
loro, di danari dati, di promesse fatte; ma senza parlargli ancora della trama a cui tutto
questo si riferiva. Risponde che non ha mai avuto che far con costoro, che non gli ha mai
nemmen sentiti nominare; replica che non era a Milano in que' diversi tempi.
Dopo più di tre mesi, consumati in
ricerche dalle quali, come doveva essere, non si cavò il minimo costrutto, il senato
decretò che il Padilla fosse costituito reo con la narrativa del fatto, pubblicatogli il
processo, e datogli un termine alle difese. In esecuzione di quest'ordine, fu chiamato ad
un nuovo ed ultimo esame, il 22 di maggio. Dopo varie domande espresse, su tutti i capi
d'accusa, alle quali rispose sempre un no, e per lo più asciutto, vennero alla narrativa
del fatto, cioè gli spiattellarono quella pazza novella, anzi quelle due. La prima, che
lui costituto aveva detto al barbiere Mora, vicino all'hostaria detta delli sei ladri,
che facesse un ontione... et che douesse prender la detta ontione, et andar a bordegare
(impiastrare); e che, in ricompensa, gli aveva dato molte doppie; e don Pietro di
Saragozza, per suo ordine, aveva poi mandato il detto barbiere a riscotere altri danari
dai tali e tali banchieri. Ma questa è ragionevole in paragon dell'altra: che esso
Sig.r Constituto aveva fatto chiamar sulla piazza del castello Stefano Baruello, gli
aveva detto: buon giorno, Sig.r Baruello; è molto tempo che desiderauo parlar con voi;
e, dopo qualche altro complimento, gli aveva dato venticinque ducatoni veneziani, e un
vaso d'unguento, dicendogli ch'era di quello che si faceva in Milano, ma che non era
perfetto, e bisognava prendere delli ghezzi et zatti (de' ramarri e de' rospi) et
del vino bianco, e metter tutto in una pentola, et farla bollire a concio (adagino
adagino) acciò questi animali possino morire arrabbiati. Che un prete, qual
viene nominato per Francese dal detto Baruello, e era venuto in compagnia del
costituto, aveva fatto comparire uno in forma d'huomo, in habito di Pantalone, e
fattolo al Baruello riconoscere per suo signore; e, scomparso che fu, il Baruello aveva
domandato al costituto chi era colui, e quello gli aveva risposto ch'era il diavolo; e
che, un'altra volta, lui costituto aveva dati al Baruello degli altri danari, e
promessogli di farlo tenente della sua compagnia, se l'avesse servito bene.
A questo punto, il Verri (tanto un intento
sistematico può far travedere anche i più nobili ingegni, e anche dopo che hanno veduto)
conclude così: «Tale è la serie del fatto deposto contro il figlio del castellano, la
quale, sebbene smentita da tutte le altre persone esaminate (trattine i tre disgraziati
Mora, Piazza e Baruello, che alla violenza della tortura sacrificarono ogni verità),
servì di base a un vergognosissimo reato (nota 76).»
Ora, il lettore sa, e il Verri medesimo racconta che, di questi tre, due furon mossi a
mentire dalle lusinghe dell'impunità, non dalla violenza della tortura.
Sentita quell'indegnissima filastrocca, il
Padilla disse: di tutti questi huomini che V. S. mi ha nominato, io non conosco altro
che il Fontana et il Tegnone (era un soprannome del Vedano); et tutto quello che V.
S. che si legge in Processo per bocca di costoro, è la maggior falsità et mentita che si
trouasse mai al mondo; nè è da credere che un Cauagliero par mio hauesse, nè trattato,
nè pensato attione tanto infame come è questa; et prego Dio et sua Santa Madre, se
queste cose sono vere, che mi confondano adesso; et spero in Dio che farò conoscere la
falsità di questi huomini, et che sarà palese al mondo tutto.
Gli replicarono, per formalità e senza
insistenza, che si risolvesse di dir la verità; e gl'intimarono il decreto del senato che
lo costituiva reo d'aver composto e distribuito unguento venefico, e assoldato de'
complici. Io mi merauiglio molto, riprese, che il Senato sij venuto a
resoluttione così grande, vedendosi et trouandosi che questa è una mera impostura et
falsità, fatta non solo a me, ma alla Giustitia istessa. Come un huomo di mia qualità,
che ho speso la vita in servitio di Sua Maestà, in difesa di questo stato, nato da
huomini che hanno fatto l'istesso, haueua io da fare, nè da pensar cosa che a loro, nè a
me portasse tanta nota et infamia? et torno a dire che questo è falso, et è la più
grande impostura che ad huomo sij mai stata fatta.
Fa piacere il sentir l'innocenza sdegnata
parlare un tal linguaggio; ma fa orrore il rammentarsi l'innocenza, davanti a quegli
uomini stessi, spaventata, confusa, disperata, bugiarda, calunniatrice; l'innocenza
imperterrita, costante, veridica, e condannata ugualmente.
Il Padilla fu assolto, non si sa quando
per l'appunto, ma sicuramente più d'un anno dopo, poichè l'ultime sue difese furono
presentate nel maggio del 1632. E, certo, l'assolverlo non fu grazia, ma i giudici
s'avvidero che, con questo, dichiaravano essi medesimi ingiuste tutte le loro condanne?
giacchè non crederei che ce ne siano state altre, dopo quell'assoluzione. Riconoscendo
che il Padilla non aveva punto dato danari per pagar le sognate unzioni, si rammentaron
degli uomini che avevan condannati per aver ricevuto danari da lui, per questo motivo? Si
rammentarono d'aver detto al Mora che una tal cagione ha più del verisimile... che non
è per hauer occasione di vendere, lui Constituto il suo elettuario, et il Commissario
d'hauer modo di più lauorare? Si rammentarono che, nell'esame seguente, persistendo
lui a negarla, gli avevan detto che si troua pure essere la verità? Che avendola
negata ancora, nel confronto col Piazza, gli avevan data la tortura, perchè la
confessasse, e un'altra tortura, perchè la confessione estorta dalla prima diventasse
valida? Che, d'allora in poi, tutto il processo era camminato su quella supposizione?
Ch'era stata espressa, sottintesa in tutte le loro interrogazioni, confermata in tutte le
risposte, come la cagione finalmente scoperta e riconosciuta, come la vera, l'unica cagion
del delitto del Piazza, del Mora, e poi degli altri condannati? Che la grida pubblicata,
pochi giorni dopo il supplizio di que' due primi, dal gran cancelliere, col parer del
senato, li diceva «arriuati a stato tale d'empietà, di tradir par danari la propria
Patria?» E vedendo finalmente svanir quella cagione (giacchè nel processo non s'era mai
fatto menzione d'altri danari che di quelli del Padilla), pensaron che del delitto non
rimanevano altri argomenti che confessioni, ottenute nella maniera che loro sapevano, e
ritrattate tra i sacramenti e la morte? confessioni, prima in contradizion tra loro, e
ormai scoperte in contradizion col fatto? Assolvendo insomma, come innocente, il capo,
conobbero che avevan condannati, come complici degl'innocenti?
Tutt'altro, almeno per quel che comparve
in pubblico: il monumento e la sentenza rimasero; i padri di famiglia che la sentenza
aveva condannati, rimasero infami, i figli che aveva resi così atrocemente orfani,
rimasero legalmente spogliati. E in quanto a quello che sia passato nel cuor de' giudici,
chi può sapere a quali nuovi argomenti sia capace di resistere un inganno volontario, e
già agguerrito contro l'evidenza? E dico un inganno divenuto più caro e prezioso che
mai; giacchè, se prima il riconoscer gl'innocenti era per que' giudici un perder
l'occasione di condannare, ormai sarebbe stato un trovarsi terribilmente colpevoli; e le
frodi, le violazioni della legge, che sapevano d'aver commesso, ma che volevano creder
giustificate dalla scoperta di così empi e funesti malfattori, non solo sarebbero
ricomparse nel loro nudo e laido aspetto di frodi e di violazioni della legge, ma
sarebbero comparse come produttrici d'un orrendo assassinio. Un inganno finalmente,
mantenuto e fortificato da un'autorità sempre potente, benchè spesso fallace, e in quel
caso stranamente illusoria, poichè in gran parte non era fondata che su quella de'
giudici medesimi: voglio dire l'autorità del pubblico, che li proclamava sapienti,
zelanti, forti, vendicatori e difensori della patria.
La colonna infame fu atterrata nel 1778;
nel 1803, fu sullo spazio rifabbricata una casa; e in quell'occasione fu anche demolito il
cavalcavia, di dove Caterina Rosa
L'infernal dea che alla veletta stava (nota 77), |
intonò il grido della carneficina: sicchè non c'è più nulla che rammenti, nè lo
spaventoso effetto, nè la miserabile causa. Allo sbocco di via della Vetra sul corso di
porta Ticinese, la casa che fa cantonata, a sinistra di chi guarda dal corso medesimo,
occupa lo spazio dov'era quella del povero Mora.
Vediamo ora, se il lettore ha la bontà di
seguirci in quest'ultima ricerca, come un giudizio temerario di colei, dopo aver tanto
potuto sui tribunali, abbia, per loro mezzo, regnato anche ne' libri.
© 1997 - prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998