Alessandro Manzoni
Storia della colonna infame
Capitolo V
L'impunità e la tortura avevan
prodotto due storie; e benchè questo bastasse a tal giudici per proferir due condanne,
vedremo ora come lavorassero e riuscissero, per quanto era possibile, a rifonder le due
storie in una sola. Vedremo poi, in ultimo, come mostrassero, col fatto, d'esser persuasi
essi medesimi, anche di questa.
Il senato confermò e estese la decisione
de' suoi delegati. «Sentito ciò che risultava dalla confessione di Giangiacomo Mora,
riscontrate le cose antecedenti, considerato ogni cosa,» meno l'esserci, per un solo
delitto, due autori principali diversi, due diverse cagioni, due diversi ordini di fatti,
«ordinò che il Mora suddetto... fosse di nuovo interrogato diligentissimamente, però
senza tortura, per fargli spiegar meglio le cose confessate, e ricavar da lui gli altri
autori, mandanti, complici del delitto; e che dopo l'esame fosse costituito reo, con la
narrativa del fatto, d'aver composto l'unguento mortifero, e datolo a Guglielmo Piazza; e
gli fosse assegnato il termine di tre giorni per far le sue difese. E in quanto al Piazza,
fosse interrogato se aveva altro da aggiungere alla sua confessione, la quale si trovava
mancante; e, non n'avendo, fosse costituito reo d'avere sparso l'unguento suddetto, e
assegnatogli il medesimo termine per le difese.» Cioè: vedete di cavar dall'uno e
dall'altro quello che si potrà: a ogni modo, sian costituiti rei, ognuno sulla sua
confessione, benchè siano due confessioni contrarie.
Cominciaron dal Piazza, e in quel giorno
medesimo. Da aggiungere, lui non aveva nulla, e non sapeva che n'avevan loro; e forse
accusando un innocente, non aveva preveduto che si creava un accusatore. Gli domandano
perché non ha deposto d'aver dato al barbiere della bava d'appestati, per comporre
l'unguento. Non gli ho dato niente, risponde; come se quelli che gli avevan creduta
la bugia, dovessero credergli anche la verità. Dopo un andirivieni d'altre
interrogazioni, gli protestano che, per non hauer detta la verità intera, come haueua
promesso, non può nè deue godere della impunità che se gli era promessa. Allora
dice subito: Signore, è vero che il suddetto Barbiero mi ricercò a portargli quella
materia, et io glie la portai, per fare il detto ontoa. Sperava, con l'ammetter tutto,
di ripescar la sua impunità. Poi, o per farsi sempre più merito, o per guadagnar tempo,
soggiunse che i danari promessigli dal barbiere dovevan venire da una persona grande,
e che l'aveva saputo dal barbiere medesimo, ma senza potergli mai cavar di bocca chi
fosse. Non aveva avuto tempo d'inventarla.
Ne domandarono al Mora, il giorno dopo; e
probabilmente il poverino l'avrebbe inventata lui, come avrebbe potuto, se fosse stato
messo alla tortura. Ma, come abbiam visto, il senato l'aveva esclusa per quella volta,
affine, si vede, di render meno sfrontatamente estorta la nuova ratificazione che volevano
dalla sua confessione antecedente. Perciò interrogato se lui Constituto fu il primo a
ricercare il detto Commissario... et gli promise quantità de danari; rispose: Signor
no; e doue vole V. S. che pigli mi (io) questa quantità de danari? Potevano
infatti rammentarsi che, nella minutissima visita fattagli in casa quando l'arrestarono,
il tesoro che gli avevan trovato, era un baslotto (una ciotola), con dentro
cinque parpagliole (dodici soldi e mezzo). Domandato della persona grande,
rispose: V. S. non vole già se non la verità, e la verità io l'ho detta quando sono
stato tormentato, et ho detto anche d'auantaggio.
Ne' due estratti non è fatto menzione che
abbia ratificata la confessione antecedente; se, come è da credere, glielo fecero fare,
quelle parole erano una protesta, della quale lui forse non conosceva la forza; ma essi la
dovevan conoscere. E del rimanente, da Bartolo, anzi dalla Glossa, fino al Farinacci, era
stata, ed era sempre dottrina comune, e come assioma della giurisprudenza, che «la
confessione fatta ne' tormenti che fossero dati senza indizi legittimi, rimaneva nulla e
invalida, quand'anche fosse poi ratificata mille volte senza tormenti: etiam quod
millies sponte sit ratificata (nota 72).»
Dopo di ciò, fu a lui e al Piazza
pubblicato, come allora si diceva, il processo (cioè comunicati gli atti), e dato il
termine di due giorni a far le loro difese: e non si vede perchè uno di meno di quello
che aveva decretato il senato. Fu all'uno e all'altro assegnato un difensore d'ufizio:
quello assegnato al Mora se ne scusò. Il Verri attribuisce, per congettura, quel rifiuto
a una cagione che pur troppo non è strana in quel complesso di cose. «Il furore,» dice,
«era giunto al segno, che si credeva un'azione cattiva e disonorante il difender questa
disgraziata vittima (nota 73).» Ma nell'estratto
stampato, che il Verri non doveva aver visto, è registrata la cagion vera, forse non meno
strana, e, da una parte, anche più trista. «Lo stesso giorno, due di luglio, il notaio
Mauri, chiamato a difender il detto Mora, disse: io non posso accettare questo carico,
perchè, prima son Notaro criminale, a chi non conuiene accettar patrocinij, et poi anche
perchè non sono nè Procuratore, nè Auocato; anderò bene a parlarli, per darli gusto (per
fargli piacere), ma non accettarò il patrocinio. A un uomo condotto ormai appiè
del supplizio (e di qual supplizio! e in qual maniera!), a un uomo privo d'aderenze, come
di lumi, e che non poteva aver soccorso se non da loro, o per mezzo loro, davano per
difensore uno che mancava delle qualità necessarie a un tal incarico, e n'aveva delle
incompatibili! Con tanta leggerezza procedevano! mettiam pure che non c'entrasse malizia.
E toccava a un subalterno a richiamarli all'osservanza delle regole più note, e più
sacrosante!
Tornato, disse: sono stato dal Mora, il
quale mi ha detto liberamente che non ha fallato, et che quello che ha detto, l'ha detto
per i tormenti; e perchè gli ho detto liberamente che non voleuo nè poteuo sostener
questo carico di diffenderlo, mi ha detto che almeno il Sig. Presidente sij servito (si
degni) di prouederli d'un diffensore, et che non voglia permettere che habbi da morire
indiffeso. Di tali favori, e con tali parole, l'innocenza supplicava l'ingiustizia. Gliene
nominarono infatti un altro.
Quello assegnato al Piazza, «comparve e
chiese a voce che gli fosse fatto vedere il processo del suo cliente; e avutolo, lo
lesse.» Era questo il comodo che davano alle difese? Non sempre, poichè l'avvocato del
Padilla, che divenne, come or ora vedremo, il concreto della persona grande buttata
là in astratto e in aria, ebbe a sua disposizione il processo medesimo, tanto da farne
copiar quella buona parte che è venuta per quel mezzo a nostra notizia.
Sullo spirar del termine, i due sventurati
chiesero una proroga: il senato concesse loro tutto il giorno seguente, e non più: et
non ultra.» Le difese del Padilla furon presentate in tre volte: una parte il 24 di
luglio 1631; la quale «fu ammessa senza pregiudizio della facoltà di presentar più
tardi il rimanente;» l'altra il 13 d'aprile 1632; e l'ultima il 10 di maggio dell'anno
medesimo: era allora arrestato da circa due anni. Lentezza dolorosa davvero, per un
innocente; ma, paragonata alla precipitazione usata col Piazza e col Mora, per i quali non
fu luogo che il supplizio, una tal lentezza è una parzialità mostruosa.
Quella nuova invenzione del Piazza sospese
però il supplizio per alcuni giorni, pieni di bugiarde speranze, ma insieme di nuove
crudeli torture, e di nuove funeste calunnie. L'auditore della Sanità, fu incaricato di
ricevere, in gran segreto, e senza presenza di notaio, una nuova deposizione di costui; e
questa volta fu lui che promosse l'abboccamento, per mezzo del suo difensore, facendo
intendere che aveva qualcosa di più da rivelare intorno alla persona grande.
Pensò probabilmente che, se gli riusciva di tirare in quella rete, così chiusa alla
fuga, così larga all'entrata, un pesce grosso; questo per uscirne, ci farebbe un tal
rotto, che ne potrebbero scappar fuori anche i piccoli. E siccome, tra le molte e varie
congetture ch'eran girate per le bocche della gente, intorno agli autori di quel funesto
imbrattamento del 18 di maggio (chè la violenza del giudizio fu dovuta in gran parte
all'irritazione, allo spavento, alla persuasione prodotta da quello: e quanto i veri
autori di esso furon più colpevoli di quello che conoscessero loro medesimi!), s'era
anche detto che fossero ufiziali spagnoli, così lo sciagurato inventore trovò anche qui
qualcosa da attaccarsi. L'esser poi il Padilla figliuolo del comandante del castello, e
l'aver quindi un protettore naturale, che, per aiutarlo, avrebbe potuto disturbare il
processo, fu probabilmente ciò che mosse il Piazza a nominar lui piuttosto che un altro:
se pure non era il solo ufiziale spagnolo che conoscesse, anche di nome. Dopo
l'abboccamento, fu chiamato a confermar giudizialmente la sua nuova deposizione.
Nell'altra aveva detto che il barbiere non gli aveva voluto nominar la persona grande.
Ora veniva a sostenere il contrario; e per diminuire, in qualche maniera, la
contradizione, disse che non gliel'aveva nominata subito. Finalmente mi disse doppo il
spatio di quattro o cinque giorni, che questo capo grosso era un tale di Padiglia, il cui
nome non mi ricordo, benchè me lo disse; so bene, et mi raccordo precisamente che disse
esser figliolo del Sig. Castellano nel Castello di Milano. Danari, però, non solo non
disse d'averne ricevuti dal barbiere, ma protestò di non saper nemmeno se questo n'avesse
avuti dal Padilla.
Fu fatta sottoscrivere al Piazza questa
deposizione, e spedito subito l'auditore della Sanità a comunicarla al governatore, come
riferisce il processo; e sicuramente a domandargli se consentirebbe, occorrendo, a
consegnare all'autorità civile il Padilla, ch'era capitano di cavalleria, e si trovava
allora all'esercito nel Monferrato. Tornato l'auditore, e fatta subito confermar di nuovo
la deposizione al Piazza, s'andò di nuovo addosso all'infelice Mora. Il quale,
all'istanze per fargli dire che lui aveva promesso danari al commissario, e confidatogli
che aveva una persona grande, e dettogli finalmente chi fosse, rispose: non si
trouarà mai in eterno: se io lo sapessi, lo direi, in conscienza mia. Si viene a un
nuovo confronto, e si domanda al Piazza, se è vero che il Mora gli ha promesso danari, dichiarando
che tutto ciò faceua d'ordine et commissione del Padiglia, figliolo del signor Castellano
di Milano. Il difensor del Padilla osserva, con gran ragione, che, «sotto pretesto di
confronto,» fecero così conoscere al Mora «quello che si desideraua dicesse.» Infatti,
senza questo, o altro simil mezzo non sarebbero certamente riusciti a fargli buttar fuori
quel personaggio. La tortura poteva bensì renderlo bugiardo, ma non indovino.
Il Piazza sostenne quel che aveva deposto.
E voi volete dir questo? Esclamò il Mora. Sì che lo voglio dire, che è la
verità, replicò lo sventurato impudente: et sono a questo mal termine per voi, et
sapete bene che mi diceste questo sopra l'uschio della vostra bottega. Il Mora, che
aveva forse sperato di poter, con l'aiuto del difensore, mettere in chiaro la sua
innocenza, e ora prevedeva che nuove torture gli avrebbero estorta una nuova confessione,
non ebbe nemmeno la forza d'opporre un'altra volta la verità alla bugia. Disse soltanto: patientia!
per amor di voi morirò.
Infatti, rimandato subito il Piazza,
intimano a lui, che dica hormai la verità; e appena ha risposto: Signore, la
verità l'ho detta; gli minacciano la tortura: il che si farà sempre senza
pregiuditio di quello che è conuitto, et confesso, et non altrimenti. Era una formola
solita; ma l'averla adoprata in questo caso fa vedere fino a che segno la smania di
condannare gli avesse privati della facoltà di riflettere. Come mai la confessione
d'avere indotto il Piazza al delitto con la promessa de' danari che si avrebbero dal
Padilla, poteva non far pregiudizio alla confessione d'essersi lasciato indurre al delitto
dal Piazza, per la speranza di guadagnar col preservativo?
Messo alla tortura, confermò subito
tutto quello che aveva detto il commissario; ma non bastando questo ai giudici, disse che
infatti il Padilla gli aveva proposto di fare un ontione da ongere le Porte et
Cadenazzi, promessigli danari quanti ne volesse, datigliene quanti n'aveva voluti.
Noi altri, che non abbiamo, nè timor
d'unzioni, nè furore contro untori, nè altri furiosi da soddisfare, vediamo chiaramente,
e senza fatica, come sia venuta, e da che sia stata mossa una tal confessione. Ma, se ce
ne fosse bisogno n'abbiamo anche la dichiarazione di chi l'aveva fatta. Tra le molte
testimonianze che il difensor del Padilla potè raccogliere, c'è quella d'un capitano
Sebastiano Gorini, che si trovava in quel tempo (non si sa per qual cagione) nelle stesse
carceri, e che parlava spesso con un servitore dell'auditor della Sanità, stato messo per
guardia a quell'infelice. Depone così: «mi detto seruitore, sendo se non (appena)
all'hora stato detto Barbiere rimenato dall'esame: V. S. non sa che il Barbiere m'ha detto
adesso adesso, che nell'esame che ha fatto, ha dato fuori (buttato fuori) il Sig.
Don Gioanni figliolo del Sig. Castellano? Et io, ciò sentendo, restai stupito, et li
dissi: è vero questo? Et esso seruitore mi replicò che era vero; ma che era anche vero
che lui protestaua di non raccordarsi di non hauer forsi mai parlato con alcuno spagnuolo,
et che se li hauessero mostrato detto Sig. Don Gioanni, non l'hauerebbe nè anche
conosciuto. Et soggiongendo, esso seruitore, disse: io li dissi perché dunque lo haueua
dato fuori? et lui disse che l'haueua dato fuori per hauerlo sentito nominare là, et che
perciò rispondeua a tutto quello che sentiua, o che li veniua così in bocca.» Questo
valse (e ne sia ringraziato il cielo) a favor del Padilla; ma vogliam noi credere che i
giudici i quali avevan messo, o lasciato per guardia al Mora un servitore di quell'auditor
così attivo, così investigatore, non risapessero, se non tanto tempo dopo, e
accidentalmente da un testimonio, quelle parole così verisimili, dette senza speranza, un
momento dopo quelle così strane che gli aveva estorte il dolore?
E perchè, tra tante cose dell'altro
mondo, parve strana anche ai giudici quella relazione tra il barbier milanese e il
cavaliere spagnolo; e domandarono chi c'era stato di mezzo, alla prima disse ch'era stato uno
de' suoi, fatto e vestito così e così. Ma incalzato a nominarlo, disse Don Pietro
di Saragoza. Questo almeno era un personaggio immaginario.
Ne furon poi fatte (dopo il supplizio del
Mora, s'intende) le più minute e ostinate ricerche. S'interrogarono soldati e ufiziali,
compreso il comandante stesso del castello, don Francesco de Vargas, succeduto allora al
padre del Padilla: nessuno l'aveva mai sentito nominare. Se non che si trovò finalmente,
nelle carceri del podestà, un Pietro Verdeno, nativo di Saragozza, accusato di furto.
Costui, esaminato, disse che in quel tempo era a Napoli; messo alla tortura, sostenne il
suo detto; e non si parlò di Don Pietro di Saragozza.
Sempre incalzato da nuove domande, il Mora
aggiunse che lui aveva poi fatto la proposta al commissario, il quale aveva anche lui
avuto danari per questo, da non so chi. E certo non lo sapeva; ma vollero saperlo i
giudici. Lo sventurato, rimesso alla tortura, nominò pur troppo una persona reale, un
Giulio Sanguinetti, banchiere: «il primo venuto in mente all'uomo che inventava per lo
spasimo (nota 74).»
Il Piazza che aveva sempre detto di non
aver ricevuto danari, interrogato di nuovo, disse subito di sì. Il lettore si
rammenterà, forse meglio de' giudici, che, quando visitaron la casa di costui, danari
gliene trovaron meno che al Mora, cioè punto). Disse dunque d'averne avuti da un
banchiere, e non avendogli i giudici nominato il Sanguinetti, ne nominò lui un altro:
Girolamo Turcone. E questo e quello e vari loro agenti furono arrestati, esaminati, messi
alla tortura; ma, stando fermi a negare, furon finalmente rilasciati.
Il 21 di luglio, furono al Piazza e al
Mora comunicati gli atti posteriori alla ripresa del processo, e dato un nuovo termine di
due giorni a far le loro difese. L'uno e l'altro scelsero questa volta un difensore, col
consiglio probabilmente di quelli ch'erano stati assegnati d'ufizio. Il 23 dello stesso
mese, fu arrestato il Padilla; cioè, come è attestato nelle sue difese, gli fu detto dal
commissario generale della cavalleria, che, per ordine dello Spinola, dovesse andare a
costituirsi prigioniero nel castello di Pomate; come fece. Il padre, e si rileva dalle
difese medesime, fece istanza, per mezzo del suo luogotenente, e del suo segretario,
perchè si sospendesse l'esecuzione della sentenza contro il Piazza e il Mora, fin che
fossero stati confrontati con don Giovanni. Gli fu fatto rispondere «che non si poteua
sospendere, perchè il popolo esclamaua...» eccolo nominato una volta quel civium
ardor prava jubentium; la sola volta che si poteva senza confessare una vergognosa e
atroce deferenza, giacchè si trattava dell'esecuzion d'un giudizio, non del giudizio
medesimo. Ma cominciava allora soltanto a esclamare, il popolo? o allora soltanto
cominciavano i giudici a far conto delle sue grida?... «ma che in ogni caso il signor Don
Francesco non si pigliasse fastidio, perchè gente infame, com'erano questi duoi, non
poteuano col suo detto pregiudicare alla reputazione del Signor Don Giovanni.» E il detto
d'ognuno di que' due infami valse contro l'altro! E i giudici l'avevan tante volte
chiamato verità! E nella sentenza medesima decretarono che, dopo l'intimazion di
essa, fossero l'uno e l'altro tormentati di nuovo su ciò che riguardava i complici! E le
loro deposizioni promossero torture, e quindi confessioni, e quindi supplizi; e se non
basta, anche supplizi senza confessioni!
«Et così,» conclude la deposizione del
segretario suddetto, «tornassimo dal signor Castellano, et li facessimo la relatione di
quant'era passato; et lui non disse altro, ma restò mortificato; la qual mortificatione
fu tale, che fra pochi giorni se ne morse.»
Quell'infernale sentenza portava che,
messi sur un carro, fossero condotti al luogo del supplizio; tanagliati con ferro rovente,
per la strada; tagliata loro la mano destra, davanti alla bottega del Mora; spezzate
l'ossa con la rota, e in quella intrecciati vivi, e alzati da terra; dopo sei ore,
scannati (nota 75); bruciati i cadaveri, e le ceneri
buttate nel fiume; demolita la casa del Mora; sullo spazio di quella, eretta una colonna
che su chiamasse infame; proibito in perpetuo di rifabbricare in quel luogo. E se qualcosa
potesse accrescer l'orrore, lo sdegno, la compassione, sarebbe di veder que' disgraziati,
dopo l'intimazione d'una tal sentenza, confermare, anzi allargare le loro confessioni, e
per la forza delle cagioni medesime che gliele avevano estorte. La speranza non ancora
estinta di sfuggir la morte, e una tal morte, la violenza di tormenti, che quella
mostruosa sentenza farebbe quasi chiamar leggeri, ma presenti e evitabili, li fecero, e
ripeter le menzogne di prima, e nominar nuove persone. Così, con la loro impunità, e con
la loro fortuna, riuscivan que' giudici, non solo a far atrocemente morir degl'innocenti,
ma, per quanto dipendeva da loro, a farli morire colpevoli.
Nelle difese del Padilla, si trovano, ed
è un sollievo, le proteste che fecero della loro e dell'altrui innocenza, appena furono
affatto certi di dover morire, e di non dover più rispondere. Quel capitano citato poco
fa, depose che, trovandosi vicino alla cappella dov'era stato messo il Piazza, lo sentì
che «strepitaua, et diceua che moriua al torto, et che era stato assassinato sotto
promessa,» e rifiutava il ministero di due cappuccini venuti per disporlo a morir
cristianamente. «Et in quanto a me,» soggiunge, «m'accorgei che lui haueua speranza che
si douesse retrattare la sua causa... et andai dal detto Commissario, pensando di far atto
di carità col persuaderlo a disporsi a ben morire in gratia di Dio; come in effetto posso
dire che mi riuscì; poichè li Padri non toccorono il punto che toccai io, qual fu che
l'accertai di non hauer mai visto, nè sentito dire che il Senato retrattasse cause
simili, dopo seguita la condanna... Finalmente tanto dissi, che s'acquietò... et doppo
che fu acquietato, diede alcuni sospiri, et poi disse come haueua dato fuori indebitamente
molti innocenti.» Tanto lui, quanto il Mora, fecero poi stendere dai religiosi che li
assistevano una ritrattazion formale di tutte l'accuse che la speranza o il dolore gli
avevano estorte. L'uno e l'atro sopportarono quel lungo supplizio, quella serie e varietà
di supplizi con una forza che, in uomini vinti tante volte dal timor della morte e dal
dolore; in uomini i quali morivan vittime, non di qualche gran causa, ma d'un miserabile
accidente, d'un errore sciocco, di facili e basse frodi; in uomini che, diventando infami,
rimanevano oscuri, e all'esecrazion pubblica non avevan da opporre altro che il sentimento
d'un'innocenza volgare, non creduta, rinnegata tante volte da loro medesimi; in uomini (fa
male il pensarci, ma si può egli non pensarci?) che avevano una famiglia, moglie,
figliuoli, non si saprebbe intendere, se non si sapesse che fu rassegnazione; quel dono
che, nell'ingiustizia degli uomini, fa vedere la giustizia di Dio, e nelle pene, qualunque
siano, la caparra, non solo del perdono, ma del premio. L'uno e l'altro non cessaron di
dire, fino all'ultimo, fin sulla rota, che accettavan la morte in pena de' peccati che
avevan commessi davvero. Accettar quella che non si potrebbe rifiutare! parole che possono
parer prive di senso a chi nelle cose guardi soltanto l'effetto materiale; ma parole d'un
senso chiaro e profondo per chi considera, o senza considerare intende, che ciò che in
una deliberazione può esser più difficile, ed è più importante, la persuasion della
mente, e il piegarsi della volontà, è ugualmente difficile, ugualmente importante, sia
che l'effetto dipenda da esso, o no; nel consenso, come nella scelta.
Quelle proteste potevano atterrire la
coscienza de' giudici; potevano irritarla. Essi riusciron pur troppo a farle smentire in
parte, nel modo che sarebbe stato il più decisivo, se non fosse stato il più illusorio;
cioè col far che accusassero sè medesimi, molti che da quelle proteste erano stati così
autorevolmente scolpati. Di quest'altri processi toccheremo soltanto, come abbiamo detto,
qualcosa, e soltanto d'alcuni, per venire a quello del Padilla; cioè a quello che, come
per l'importanza del reato è il principale, così, per la forma e per l'esito, è la
pietra del paragone per tutti gli altri.
© 1997 - prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998