Giacomo Leopardi

Discorso sopra lo stato presente
dei costumi degl'Italiani

prima parte

         In questo secolo presente, sia per l'incremento dello scambievole commercio e dell'uso de' viaggi, sia per quello della letteratura, e per l'enciclopedico che ora è d'uso, sicchè ciascuna nazione vuol conoscere più a fondo che può le lingue, letterature e costumi degli altri popoli, sia per la scambievole comunione di sventure che è stata fra' popoli civili, sia perché la Francia abbassata dalle sue perdite, e l'altre nazioni parte per le vittorie, parte per l'aumento della coltura e letteratura di ciascheduna sollevandosi, si è introdotta fra le nazioni d'Europa, una specie d'uguaglianza di riputazione sì letteraria e civile che militare, laddove per lo passato da' tempi di Luigi XIV, cioè dall'epoca della diffusa e stabilita civiltà europea, tutte le nazioni avevano spontaneamente ceduto di onore alla Francia che tutte le dispregiava; [01] per qualcuna o per tutte queste cagioni le nazioni civili d'Europa, cioè principalmente la Germania, l’Inghilterra e la Francia stessa hanno deposto (forse anche pel progresso dei lumi e dello spirito filosofico e ragionatore che accresce i lumi e calma le passioni ed introduce uno abito di moderazione; e altresì per l'affievolimento stesso dell'amore e fervor nazionale, e generalmente di tutte le passioni degli uomini), [02] hanno, dico, deposto gran parte degli antichi pregiudizi nazionali sfavorevoli ai forestieri, dell’animosità, dell’avversione verso loro, e soprattutto del disprezzo verso i medesimi e verso le loro letterature, civiltà e costumi, quantunque si voglia differenti dai propri. E cresciuto il gusto di conoscerli insieme colla stima de’ medesimi e colla equità del giudicarli, infiniti sono i volumi pubblicati in ciascuna nazione, per informarla delle cose dell’altre. Fra’ quali sono anche infiniti quelli pubblicati dagli stranieri e che si pubblicano tutto giorno sopra le cose d’Italia fatta oggetto di curiosità universale e di viaggi, molto più che ella non fu in altro tempo, e molto più generalmente, e più ancora che alcun altro paese particolare. Nei quali libri però gli scrittori incorrono senza loro colpa e per natura del soggetto in due inconvenienti, l’uno che spesso errano, essendo impossibile a uno straniero il conoscere perfettamente un’altra nazione, massime dopo non lunga dimora, l’altro che dicendo o il falso, o anche il vero, che sia alcun poco sfavorevole a quelli di cui parlano, benchè il dicano senz’animosità veruna (non essendo più mezzo di farsi grato alla propria nazione il dir male dell’altre, ed odiandosi in tali libri l’animosità, sempre che si scuopre) [03] si concitano (attirano, ndr) l’odio della nazione di cui scrivono. Il qual secondo male è più grave che mai ne’ libri che trattano degli italiani, delicatissimi sopra tutti gli altri sul conto loro: cosa veramente strana, considerando il poco o niuno amor nazionale che vive tra noi, e certo minore che non è negli altri paesi. Cagione di ciò è sicuramente in gran parte che gl’italiani misurando gli altri da se medesimi (i quali camminando sempre addietro degli altri, non sono ancora così lontani da’ pregiudizi e dall’animosità verso gli stranieri, e certo li conoscono e studiano di conoscerli cento volte meno che essi non fanno verso loro) attribuiscono sempre ad odio e malvolenza e invidia ogni parola men che vantaggiosa che sia profferita o scritta da un estero in riguardo loro. Certo è nondimeno che in questi ultimi anni si sono divulgate in Europa dalla Corinna (il romanzo di M.me de Staël, ndr) in poi più opere favorevoli all’Italia, che non sono tutte insieme quelle pubblicate negli altri tempi, e nelle quali si dice di noi più bene che mai non fu detto appena da noi medesimi. Alcune sono veri elogi nostri, scritti i più con entusiasmo di affezione e, in parte, di ammirazione verso le cose nostre. E generalmente parlando si vede nel mondo civile una inclinazione verso noi maggiore assai che fosse in altro tempo e che sia verso alcun altro paese, ed una opinione vantaggiosa di noi, la quale ardisco dire che supera di non poco il nostro merito, ed è in molte cose contraria alla verità. E ben si può dire che oggi, al contrario che nel passato, gli stranieri quando s’ingannano sul nostro conto, più tosto s’ingannano a favor nostro che in disfavore. Contuttociò e la Corinna e tutte le altre siffatte opere sono guardate dagl’italiani con gelosia, e molte cose vere ed utili hanno dette e scritte gli stranieri sui nostri costumi che per questa e per altre cause non ci sono di veruna utilità. Gl’italiani stessi non scrivono nè pensano sui loro costumi, come sopra niun’altra cosa che importi e giovi ad essi o agli altri: eccetto forse il solo Baretti [04], spirito in gran parte altrettanto falso che originale, e stemperato nel dir male, e poco intento e certo poco atto a giovare, e sì per la singolarità del suo modo di pensare e vedere, benchè questa niente affettata, sì per la sua decisa inclinazione a sparlare di tutto [05], e il suo carattere aspro e iracondo verso tutto, il più delle volte alieno dal tutto. Oltre i costumi e lo stato d’Italia sono incredibilmente cangiati dal suo tempo, cioè da prima della rivoluzione, al tempo presente. Allora, massime l’Italia meridionale, era quasi in quello stato di opinioni e di costumi in cui si è trovata fino agli ultimi anni ed ancora in grandissima parte si trova la Spagna. Ora per l’uso e il dominio degli stranieri, massime de’ francesi, l’Italia è, quanto alle opinioni, a livello cogli altri popoli, eccetto una maggior confusione nelle idee, ed una minor diffusione di cognizioni nelle classi popolari. Queste opinioni però operano sullo stato e sulla vita degl’italiani in maniera diversa che presso gli altri, per la diversità somma delle sue circostanze, e quindi ne risulta che con opinioni appresso a poco, e massime in buona parte della nazione, conformi, essa è di costumi notabilmente diversa dagli altri popoli civili. Se io dirò alcune cose circa questi presenti costumi (tenendomi al generale) colla sincerità e libertà con cui ne potrebbe scrivere uno straniero, non dovrò esserne ripreso dagli italiani,, perché non lo potranno imputare a odio o emulazione nazionale, e forse si stimerà che le cose nostre sieno più note a un italiano che non sono e non sarebbero a uno straniero, e finalmente se questi non dee risparmiare il nostro amor proprio con danno della verità, perché dovrò io parlare in cerimonia alla mia propria nazione, cioè quasi alla mia famiglia e a’ miei fratelli?
         Non è da dissimulare che considerando le opinioni e lo stato presente dei popoli, la quasi universale estinzione o indebolimento delle credenze su cui si possano fondare i principii morali, e di tutte quelle opinioni fuor delle quali è impossibile che il giusto e l’onesto paia ragionevole, e l’esercizio della virtù degno d’un savio, e da altra parte l’inutilità della virtù e la utilità decisa del vizio dipendenti dalla politica costituzionale delle presenti repubbliche; la conservazione della società sembra opera piuttosto del caso che d’altra cagione, e riesce veramente maraviglioso che ella possa aver luogo tra individui che continuamente si odiano s’insidiano e cercano in tutti i modi di muoversi gli uni agli altri. Il vincolo e il freno delle leggi e della forza pubblica, che sembra ora essere l’unico che rimanga alla società, è cosa da gran tempo riconosciuta per insufficientissima a ritenere dal male e molto più a stimolare al bene. Tutti sanno con Orazio, che le leggi senza i costumi non bastano, e da altra parte che i costumi dipendono e sono determinati e fondati principalmente e garantiti dalle opinioni. In questa universale dissoluzione dei principii sociali, in questo caos che veramente spaventa il cuor di un filosofo, e lo pone in gran forse circa il futuro destino delle società civili e in grande incertezza del come elle possano durare a sussistere in avvenire, le altre nazioni civili, cioè principalmente la Francia, l’Inghilterra e la Germania, hanno un principio conservatore della morale e quindi della società, che benché paia minimo, e quasi vile rispetto ai grandi principii morali e d’illusione che si sono perduti, pure è d’un grandissimo effetto. Questo principio è la società stessa. Le dette nazioni, oltre la società generalmente presa, cioè il convitto (consorzio, ndr.) degli uomini per provvedere scambievolmente ai propri bisogni, e difendersi dai comuni danni e pericoli, hanno quel genere più particolare di società che suole essere chiamato con questo medesimo nome ridotto a significazione più stretta, e consiste in un commercio (rapporto, ndr) più intimo degl’individui fra loro, e massime di quelli, che dispensati dalla loro condizione dal provvedere coll’opera meccanica delle proprie mani alla loro e all’altrui sussistenza e forniti del necessario alla vita col mezzo delle fatiche altrui, mancando de’ bisogni primi, vengono naturalmente nel secondo bisogno, cioè di trovare qualche altra occupazione che riempia la loro vita, e alleggerisca loro il peso dell’esistenza, sempre grave e intollerabile quando è disoccupata. Questa tal società che è principalmente fra questi tali uomini, ha per fine il diletto e il riempire il vuoto della vita cagionato dalla mancanza de’ bisogni primi, e per causa ha i detti bisogni secondi, come quell’altro più largo e più comun genere di società ha per origine i primi bisogni e la naturale necessità. Per mezzo di quella società più stretta, le città e le nazioni intiere, e in questi ultimi tempi massimamente, l’aggregato eziandio di più nazioni civili, divengono quasi una famiglia, riunita insieme per trovare nelle relazioni più strette e più frequenti che nascono da tale quasi domestica unione, una occupazione, un pascolo, un trattenimento alla vita di quelli, che senza ciò menerebbero il tempo affatto vuoto, e tali sono, rigorosamente parlando, tutti gli uomini, salvo gli agricoltori e quelli che ci procurano il vestito di prima necessità. Coll’uso scambievole gli uomini naturalmente e immancabilmente prendono stima gli uni degli altri: cioè non già buona opinione, anzi questa è tanto minore in ciascuno verso gli altri generalmente, quanto il detto uso e quindi la cognizione degli uomini è maggiore; ma la stretta società fa che ciascuno fa conto degli uomini e desidera di farsene stimare (questa è propriamente la stima che si concepisce di loro) e li considera per necessarii alla propria felicità, sì quanto ad altri rispetti, sì quanto a questa soddisfazione del suo amor proprio che ciascuno in particolare attende desidera e cerca da essi, da’ quali dipende, e non si può ricever d’altronde. Questo desiderio è quello che si chiama ambizione, vincolo e sostegno potentissimo della società che non d’altronde nasce che da essa società ridotta a forma stretta, poiché fuor di essa l’ambizione non ha luogo alcuno nell’uomo, e l’amor proprio naturale non prenderebbe mai questo aspetto, che pur sembra totalmente suo proprio ed essenziale e sommamente immediato. L’ambizione può aver varie forme e vari fini. Una volta ella era desiderio di gloria, passione che fu comunissima. Ma ora questa è cosa troppo grande, troppo nobile, troppo forte e viva perch’ella possa aver luogo nella piccolezza delle idee e delle passioni moderne, ristrette e ridotte in angustissimi termini e in bassissimo grado dalla ragione geometrica (pensiero razionale, ndr.) e dallo stato politico della società; perch’ella possa compatire (accordarsi, ndr.) collo stato di freddezza e mortificazione che risulta universalmente nella vita civile dalle dette cause; e la gloria è un’illusione troppo splendida e un nome troppo alto perché possa durare dopo la strage delle illusioni, e la conoscenza della verità e realtà delle cose, e del loro peso e valore. L’amore della gloria è incompatibile colla natura de’ tempi presenti, è cosa obsoleta come le usanze e le voci antiquate, non sussiste più, o è così raro, e dove anche sussiste è così debole e inefficace che non può esser principio di grandi beni alla società e molto meno servirle di vincolo, quale egli era in gran parte una volta. A’ nostri tempi, presso quelle nazioni che hanno l’uso di quella società intima definita di sopra, l’ambizione produce un altro sentimento tutto moderno, e di natura sua, siccome di fatto e di nascita posteriore alle grandi illusioni dell’antichità. Questo sentimento è quello che si chiama onore. È un’illusione esso stesso, perché consiste nella stima che gl’individui fanno della opinione altrui verso loro, opinione che rigorosamente parlando, è cosa di niun conto [06]; ma egli è un’illusione tanto poco alta e viva e luminosa, che facilmente nasconde anche agli occhi esercitati dalla cognizione del vero, la sua vanità, e può compatire collo stato presente e colla distruzione di quasi tutte l’altre illusioni, alla quale ella non ripugna se non mediocremente, atteso (considerata, ndr.) la sua natura, per così dire, fredda e rimessa. Questa illusione però è potentissima nelle nazioni e nelle classi che hanno l’uso di quella intima società da cui solo ella può nascere. E particolarmente in Francia, molti sono stati filosofi di opinione fino all’ultimo grado, e conoscitori intimi del vero in tutta la sua estensione, e il danno eziandio non piccolo in varie cose. Ma nel fatto e nella vita è certissimo che nessuno di questi, non che degli altri francesi, dal tempo della origine della società francese fino al presente, ha mai potuto impetrar da se stesso, non solo di non curar veramente l’opinione pubblica, ma neppure di non metterla quanto all’effetto e quanto al fondo del suo animo, nella cima de’ suoi pensieri e de’ suoi fini, e di non volgere a quella il più delle sue azioni e delle sue omissioni. Questa stima della opinione pubblica, così piccola cosa come ella è, è pur da tanto che quasi basta nelle dette nazioni (ciascuna delle quali ne partecipa a proporzione delle sue circostanze sociali) a rimpiazzare i principii morali ugualmente perduti appresso di loro, massime nelle classi non laboriose, e gli altri vincoli della società, gli altri freni del male e stimoli del bene, in luogo de’ quali resta si può dire esso solo, ed è pur sufficiente a servire alla società di legame. Piccolissima e freddissima cosa ella è, come ho detto, non v’ha dubbio. Gli uomini politi (dotati di un grado elevato di educazione, ndr) di quelle nazioni si vergognano di fare il male come di comparire in una conversazione con una macchia sul vestito o con un panno logoro o lacero; si muovono a fare il bene per la stessa causa e con niente maggiore impulso e sentimento che a studiar esattamente ed eseguir le mode, a cercar di brillare cogli abbigliamenti, cogli equipaggi, coi mobili, cogli apparati: il lusso e la virtù o la giustizia hanno tra loro lo stesso principio, non solo rimotamente parlando, il che è da per tutto e fu quasi sempre, ma parlando immediatamente e particolarmente. Qual cosa è più frivola in sé che il far conto di una buona azione né più né manco che di un buon motto o di un bell’abito, esser sollecito della propria probità per la sola ragione per cui si ha cura di acquistare e conservare la bella maniera, evitare una mala azione come una brutta riverenza, e il vizio come il cattivo tuono? Ma bisogna pur confessare (che giova il parlar sempre dissimulatamente, e col linguaggio antico nelle cose affatto nuove?) che effettivamente lo stato delle opinioni e delle nazioni quanto alla morale è ridotto in questa precisa miseria che il buon tuono è, non solo il più forte, ma l’unico fondamento che resti a’ buoni costumi, e che i buoni costumi non sono esercitati per altro, generalmente parlando e delle classi civili, che per le ragioni per cui si esercita il buon tuono, e che dove il buon tuono della società non v’è o non si cura, quivi la morale manca d’ogni fondamento e la società d’ogni vincolo, fuor della forza,, la quale non potrà mai né produrre i buoni costumi né bandire o tener lontani i cattivi. Così nelle dette nazioni la società stessa producendo il buon tuono produce la maggiore anzi unica garanzia de’ costumi sì pubblici che privati che si possa ora avere, e quindi è causa immediata della conservazione di sé medesima [07].
         Gl’italiani dal tempo della rivoluzione in poi, sono, quanto alla morale, così filosofi, cioè ragionevoli e geometri, quanto i francesi e quanto qualunque altra nazione, anzi il popolo, il che è degno di osservarsi, lo è forse più che non è quello d’altra nazione alcuna. Voglio dire che quanto alla cognizione del nudo vero circa i principii morali, quanto alle credenze che a questi appartengono, quanto all’abbandono delle credenze antiche, la nazione italiana presa insieme e paragonando classe a classe conforme e corrispondente tra lei e l’altre nazioni, è appresso a poco a livello con qualunque altra più civile e più istruita d’Europa o d’America. Per conseguenza da questa parte ella è priva come l’altre d’ogni fondamento di morale, e d’ogni vero vincolo e principio conservatore della società. Ma oltre di questo, a differenza delle dette nazioni, ella è priva ancora di quel genere di stretta società definito di sopra. Molte ragioni concorrono a privarnela, che ora non voglio cercare. Il clima che gl’inclina a vivere gran parte del dì allo scoperto, e quindi a’ passeggi e cose tali, la vivacità del carattere italiano che fa loro preferire i piaceri degli spettacoli e gli altri diletti de’ sensi a quelli più particolarmente propri dello spirito, e che gli spinge all’assoluto divertimento scompagnato da ogni fatica dell’animo e alla negligenza e pigrizia; queste cose non sono che le menome e le più facili a vincere tra le ragioni che producono il sopraddetto effetto. Certo è che il passeggio, gli spettacoli, e le Chiese sono le principali occasioni di società che hanno gl’italiani, e in essi consiste, si può dir, tutta la loro società (parlando indipendentemente da quella che spetta ai bisogni di prima necessità), perché gl’italiani non amano la vita domestica, né gustano la conversazione o certo non l’hanno. Essi dunque passeggiano, vanno agli spettacoli e divertimenti, alla messa e alla predica, alle feste sacre e profane. Ecco tutta la vita e le occupazioni di tutte le classi non bisognose in Italia.
         Conseguenza necessaria di questo è che gl’italiani non temono e non curano per conto alcuno di essere o parer diversi l’uno dall’altro, e ciascuno dal pubblico, in nessuna cosa e in nessun senso. Lascio stare che la nazione non avendo centro, non havvi veramente un pubblico italiano; lascio stare la mancanza di teatro nazionale, e quella della letteratura veramente nazionale moderna, la quale presso l’altre nazioni, massime in questi ultimi tempi è un grandissimo mezzo e fonte di conformità di opinioni, gusti, costumi, maniere, caratteri individuali, non solo dentro i limiti della nazione stessa, ma tra più nazioni eziandio rispettivamente. Queste seconde mancanze sono conseguenze necessarie di quella prima, cioè della mancanza di un centro, e di altre molte cagioni. Ma lasciando tutte queste e quelle, e restringendoci alla sola mancanza di società, questa opera naturalmente che in Italia non havvi una maniera, un tuono italiano determinato. Quindi non havvi assolutamente buon tuono, o egli è cosa così vaga, larga e indefinita che lascia quasi interamente in arbitrio di ciascuno il suo modo di procedere in ogni cosa. Ciascuna città italiana non solo, ma ciascuno italiano fa tuono e maniera da sé.
         Non avendovi buon tuono, non possono avervi convenienza di società (bienséances). Mancando queste, e mancando la società stessa, non può avervi gran cura del proprio onore, o l’idea dell’onore e delle particolarità che l’offendono o lo mantengono e vi si conformano, è vaga e niente stringente. Ciascuno italiano è presso a poco ugualmente onorato e disonorato. Voglio dir che non è né l’uno né l’altro, perché non v’ha onore dove non v’ha società stretta, essendo esso totalmente una idea prodotta da questa, e che in questa e per questa sola può sussistere ed essere determinata.
         Benché gl’italiani, come ho detto, sieno incirca a livello delle altre nazioni nella conoscenza generale della realtà delle cose relativamente ai fondamenti dei principii morali, per quanto almen basta a influire e dar norma alla condotta pubblica e privata di ciascheduno; tuttavia è ben certo e da tutti gli stranieri, non meno che da noi, conosciuto e consentito che l’Italia in fatto di scienza filosofica e di cognizione matura e profonda dell’uomo e del mondo è incomparabilmente inferiore alla Francia, all’Inghilterra, alla Germania considerando queste e quella generalmente. Ma contuttociò è anche certissimo, benché parrà un paradosso, che se le dette nazioni son più filosofe degl’italiani nell’intelletto, gl’italiani nella pratica sono mille volte più filosofi del maggior filosofo che si trovi in qualunque delle dette nazioni.
         Primieramente dell’opinione pubblica gl’italiani in generale, e parlando massimamente a proporzion degli altri popoli, non ne fanno alcun conto. Corrono e si ripetono tutto giorno cento proverbi in Italia che affermano che non s’ha da por mente a quello che il mondo dice o dirà di te, che s’ha da procedere a modo suo non curandosi del giudizio degli altri, e cose tali. Lungi che gl’italiani considerino, come i francesi, per la massima delle sventure la perdita o l’alterazione dell’opinion pubblica verso loro, e sieno pronti, come i francesi ben educati, a soffrire e sacrificar qualunque cosa piuttosto che incorrere anche a torto in questo inconveniente; essi non si consolano di cosa alcuna più di leggieri che della perdita eziandio totale (giusta o ingiusta che sia) dell’opinione pubblica, e stimano ben dappoco chi pospone a questo fantasma i suoi interessi e i suoi vantaggi reali (o quelli che così si chiamano nel linguaggio della vita), e chi non si cura d’incorrere per amor di quello in danni o privazioni vere, d’astenersi da piaceri, ancorché minimi, e cose tali. Insomma niuna cosa, ancorché menomissima, è disposto un italiano di mondo a sacrificare all’opinion pubblica, e questi italiani di mondo che così pensano ed operano, sono la più gran parte, anzi tutti quelli che partecipano di quella poca vita che in Italia si trova. Non si può negare che filosoficamente e geometricamente parlando, essi non abbiano assai più ragione dei francesi e degli altri che pensano e operano diversamente, e che per conseguenza in questa parte essi non sieno, quanto alla pratica, assai più filosofi. Al che li porta lo stato delle cose loro, nel quale in realtà l’opinione pubblica, per la mancanza di società stretta, pochissimo giova favorevole e pochissimo nuoce contraria, e la gente per quanta ragione abbia di dir male o bene di uno, di pensarne bene o male, prestissimo si stanca dell’uno e dell’altro; si dimentica affatto delle ragioni che aveva di far questo o quello, benché certissime e grandissime, e torna a parlare e pensare di quella tal persona con perfetta indifferenza, e come d’una dell’altre.
         Secondariamente, e questa è cosa molto osservabile, come l’opinion pubblica, così la vita non ha in Italia non solo sostanza e verità alcuna, che questa non l’ha neppure altrove, ma né anche apparenza, per cui ella possa essere considerata come importante. Lascio la totale mancanza d’industria, e d’ogni sorta di attività, e quella di carriere politiche e militari, quella d’ogni altro istituto di vita e di professione per cui l’uomo miri a uno scopo, e coll’aspettativa, coi disegni, colle speranza dell’avvenire, rilevi il pregio dell’esistenza, la quale sempre che manca di prospettiva d’un futuro migliore, sempre ch’è ristretta al solo presente, non può non parer cosa vilissima e di niun momento, perché nel presente, cioè in quello che è sottoposto agli occhi, non hanno luogo le illusioni, fuor delle quali non esiste l’importanza della vita. Or la vita degl’italiani è appunto tale, senza prospettiva di miglior sorte futura, senza occupazione, senza scopo, e ristretta al solo presente. Ma lasciando questo e restringendoci alla sola mancanza di società, certo è che uno de’ grandissimi e principali mezzi che restano oggi agli uomini per non avvedersi affatto della nullità delle cose loro, o per non sentirla, benché conoscendola, per non essere nella pratica persuasi della total frivolezza delle loro occupazioni qualunque e della totale indegnità della vita ad esser con fatiche e con sollecitudini coltivata, studiata ed esercitata, uno, dico, de’ principali mezzi e forse il principale assolutamente, è la società. L’uomo è animale imitativo e d’esempio. Questa è cosa provata. Tale egli è sempre, anche dopo emancipato (se egli arriva mai ad esserlo) dal giogo delle credenze e del modo di pensare e di vedere altrui; anche filosofo: egli lo è men degli altri, ma pure in gran parte. Questa sua imitazione è volta principalmente a’ suoi simili, questo esempio ch’ei ne prende, da loro principalmente lo piglia. Una parte maggiore o minore, ma sempre una qualche parte, non solo della sua condotta, non solo del suo carattere, de’ suoi costumi, non solo del suo animo generalmente, ma del suo stesso intelletto, e del suo modo di pensare, dipende, imita, si regola, è modificata dall’esempio altrui, cioè precisamente e massimamente di quella parte de’ suoi simili colla quale ei convive, sia che ei conviva per mezzo della lettura, sia specialmente colla persona, sia come si voglia [08]. Or dunque nella società stretta l’essere continuamente testimonio delle cure che gli altri si danno (perciocché essa le richiede, e ne impone una necessità, non paragonabile alle naturali, ma pur molto imperiosa ed efficace), del peso che essi annettono, o che nell’estrinseco necessariamente e per legge molto naturale di essa società, mostrano continuamente e totalmente di annettere alle bagattelle della società medesima e di tutta la vita, fa che ciascuno dal canto suo, non possa a meno, quanto alla pratica ed anche a una certa parte del suo intelletto, di non fare una tal quale stima della vita e delle cose umane, e di contarle per qualche che.
         La perpetua e piena dissimulazione della vanità delle cose, dissimulazione che tutti fanno verso ciascuno nelle parole e nei fatti in una società stretta, e che ciascuno è obbligato nello stesso modo a fare continuamente con tutti gli altri, inganna in qualche guisa il pensiero, e mantiene come che sia e per quanto è possibile l’illusione dell’esistenza. In una società stretta anche l’uomo più intimamente persuaso per raziocinio, ed anche per sentimento, della vanità di se stesso, della frivolezza altrui, della inutilità della vita e delle fatiche, della niuna importanza d’essa società, anche il più perfetto filosofo in ispeculazione, non può mai fare, non solo di non contenersi in atto come se il mondo valesse pur qualche cosa, ma nemmeno che una parte del suo intelletto non combatta coll’altra, affermando che le cose umane meritano pur qualche cura, e combattendo non vinca il più del tempo, e non persuada confusamente alla persona la detta cosa in dispetto, per dir così, della sua stessa persuasione. Se non altro l’immaginativa che per natura ci porta a conceder qualche valore alla vita, ha pure un pascolo nella società stretta, e facoltà di conservar qualche parte della sua azione ed influenza sull’uomo [09]. Tutto ciò non ha luogo nella solitudine, ma meno ancora in una dissipazione giornaliera e continua senza società. Nella solitudine anche dell’uomo il più sapiente esperimentato e disingannato, la lontananza degli oggetti giova infinitamente a ingrandirli, apre il campo all’immaginazione per l’assenza del vero e della realtà e della pratica, risveglia e risuscita sovente le illusioni in luogo di sopirle o finir di distruggerle, l’animo dell’uomo torna a creare e a formarsi il mondo a suo modo; e finalmente la mancanza di occupazioni o distrazioni vive, e il continuo e non diviso né divagato pensiero che necessariamente si pone nelle cose presenti, e l’attenzione totale dell’animo che nasce dalla mancanza di sensazioni che la trasportino qua e là, fanno che all’ultimo si dà peso a menomissimi oggetti, e molto più che non si dava e che gli altri non danno nel mondo a oggetti molto maggiori (o così detti), e vi si pone tanta cura che finalmente essi riempiono tutto il tempo, ed occupano la vita, e alcune volte eziandio d’avanzo. L’esperienza lo prova a quelli che hanno potuto farla in se o in altri [10]. Ma la detta dissipazione continua, senza società, quella che forma la vita degl’italiani non bisognosi, è priva degli aiuti della lontananza, priva delle risorse interne dell’immaginazione e dell’animo, per esser dissipazione e per aver sempre la realtà sotto gli occhi; e priva da altra parte de’ soccorsi esterni della immaginazione, e di cose al di fuori che mantengano o rialzino le illusioni, perché come trovarle fuor della società? [11]  Per queste cagioni gl’italiani di mondo, privi come sono di società, sentono più o meno ciascuno, ma tutti generalmente parlando, più degli stranieri, la vanità reale delle cose umane e della vita, e ne sono pienamente, più efficacemente e più praticamente persuasi, benché per ragione la conoscano, in generale, molto meno. Ed ecco che gl’italiani sono dunque nella pratica, e in parte eziandio nell’intelletto, molto più filosofi di qualunque filosofo straniero, poiché essi sono tanto più addomesticati, e per dir così convivono e sono immedesimati con quella opinione e cognizione che è la somma di tutta la filosofia, cioè la cognizione della vanità d’ogni cosa, e secondo questa cognizione, che in essi è piuttosto opinione o sentimento, sono al tutto e praticamente disposti assai più dell’altre nazioni.
         Or da ciò nasce ai costumi il maggior danno che mai si possa pensare. Come la disperazione, così né più né meno il disprezzo e l’intimo sentimento della vanità della vita sono i maggiori nemici del bene operare, e autori del male e della immoralità. Nasce da quelle disposizioni la indifferenza profonda, radicata ed efficacissima verso se stessi e verso gli altri, che è la maggior peste de’ costumi, de’ caratteri, e della morale. Non si può negare; la disposizione più ragionevole e più naturale che possa contrarre un uomo disingannato e ben istruito della realtà delle cose e degli uomini, senza però esser disperato né inclinato alle risoluzioni feroci, ma quieto e pacifico nel suo disinganno e nella sua cognizione, come son la più parte degli uomini ridotti in queste due ultime condizioni; la disposizione, dico, la più ragionevole e quella d’un pieno e continuo cinismo d’animo, di pensiero, di carattere, di costumi, d’opinione, di parole e d’azioni. Conosciuta ben a fondo e continuamente sentendo la vanità e la miseria della vita e la mala natura degli uomini, non volendo o non sapendo o non avendo coraggio, o anche col coraggio, non avendo forza di disperarsene, e di venire agli estremi contro la necessità e contro se stesso, e contro gli altri che sarebbero sempre ugualmente incorreggibili; volendo o dovendo pur vivere e rassegnarsi e cedere alla natura delle cose; - continuare in una vita che si disprezza, convivere e conversar con uomini che si conoscono per tristi e da nulla – il più savio partito è quello di ridere indistintamente e abitualmente d’ogni cosa e d’ognuno, incominciando da se medesimo. – Questo è certamente il più naturale e il più ragionevole. Or gl’italiani generalmente parlando, e con quella diversità di proporzioni che bisogna presupporre nelle diverse classi e individui, trattandosi di una nazione intiera, si sono onninamente appigliati a questo partito. Gl’italiani ridono della vita: ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun’altra nazione. Questo è ben naturale, perché la vita per loro val meno assai che per gli altri, e perché egli è certo che i caratteri più vivaci e caldi di natura, come è quello degl’Italiani, diventano i più freddi e apatici quando sono combattuti da circostanze superiori alle loro forze. Così negl’individui, così è nelle nazioni. Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico di tutti i popolacci. Quelli che credono superiore a tutte per cinismo la nazione francese, s’ingannano. Niuna vince né uguaglia in ciò l’italiana. Essa unisce la vivacità naturale (maggiore assai di quella de’ francesi) all’indifferenza acquisita verso ogni cosa e al poco riguardo verso gli altri cagionato dalla mancanza di società, che non li fa curar gran fatto della stima e de’ riguardi altrui: laddove la società francese influisce tanto, com’è noto, anche nel popolo, ch’esso è pieno di riguardi sì verso i propri individui, sì verso l’altre classi, quanto comporta la sua natura. Se gli stranieri non conoscono bene il modo di trattare degl’italiani, massime tra loro, questo viene appunto dalla mancanza di società in Italia, onde è difficile a un estero il farsi una precisa idea delle nostre maniere sociali ordinarie, mancandogli l’occasione d’esserne facilmente e sovente testimonio, perocchè d’altronde non siamo soliti a risparmiare i forestieri. Ma nel nostro proprio commercio, per le dette ragioni, il cinismo è tale che supera di gran lunga quello di tutti gli altri popoli, parlando proporzionatamente di ciascuna classe. Per tutto si ride, e questa è la principale occupazione delle conversazioni, ma gli altri popoli altrettanto e più filosofi di noi, ma con più vita, e d’altronde con più società, ridono piuttosto delle cose che degli uomini, piuttosto degli assenti che dei presenti, perché una società stretta non può durare tra uomini continuamente occupati a deridersi in faccia gli uni e gli altri, e darsi continui segni di scambievole disprezzo. In Italia il più del riso è sopra gli uomini e i presenti. La raillerie (canzonatura, ndr.) il persifflage (punzecchiatura, ndr.), cose sì poco proprie della buona conversazione altrove, occupano e formano tutto quel poco di vera conversazione che v’ha in Italia. Quest’è l’unico modo, l’unica arte di conversare che vi si conosca. Chi si distingue in essa è fra noi l’uomo di più mondo, e considerato per superiore agli altri nelle maniere e nella conversazione, quando altrove sarebbe considerato per il più insopportabile e il più alieno dal modo di conversare. Gl’Italiani posseggono l’arte di perseguitarsi scambievolmente e di se pousser à bout (spingersi al limite, ndr.) colle parole, più che alcun’altra nazione. Il persifflage degli altri è certamente molto più fino, il nostro ha spesso e per lo più del grossolano, ed è una specie di polissonnerie (licenza, ndr.), ma con tutto questo io compiangerei quello straniero che venisse a competenza e battaglia con un italiano in genere di raillerie. I colpi di questo, benché poco artificiosi, sono sicurissimi di sconcertare senza rimedio chiunque non è esercitato e avvezzo al nostro modo di combattere, e non sa combattere alla stessa guisa. Così un uomo perito della scherma è sovente sconcertato da un imperito, o uno schermitore riposato da un furioso e in istato di trasporto. Gl’Italiani non bisognosi passano il loro tempo a deridersi scambievolmente, a pungersi fino al sangue. Come altrove è il maggior pregio il rispettar gli altri, il risparmiare il loro amor proprio, senza di che non vi può aver società, il lusingarlo senza bassezza, il procurar che gli altri sieno contenti di voi, così in Italia la principale e la più necessaria dote di chi vuole conversare, è il mostrar colle parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso altrui, l’offendere quanto più si possa il loro amor proprio, il lasciarli più che sia possibile mal soddisfatti di se stessi e per conseguenza di voi.

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© aprile 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 14 luglio 1998