Giacomo Leopardi
Paralipomeni
della Batracomiomachia
canto ottavo
CANTO 8
1 La ragion perché i morti ebber sotterra L'albergo lor non m'è del tutto nota. Dei corpi intendo ben, perch'alla terra Riede la spoglia esanime ed immota; Ma lo spirto immortal ch'indi si sferra Non so ben perché al fondo anche percota. Pur s'altre autorità non fosser pronte, Ciò la leggenda attesteria del conte. 2 Attonito a mirar lunga fiata La novità dell'infernal soggiorno Stette il buon Leccafondi, e dell'andata La cagione obbliava ed il ritorno. Ma Dedalo il riscosse, e rigirata Ch'ebbero in parte la montagna intorno, La bocca ritrovàr là dove a torme De' topi estinti concorrean le forme. 3 Ivi dinanzi all'inamabil soglia Dipartirsi convenne ai due viventi, Per non poter, benché n'avesse voglia, Dedalo penetrar fra' topi spenti, Non sol vivendo, ma né men se spoglia Anima andasse fra le morte genti: Che non cape pur mezza in quella porta La figura dell'uom viva né morta. 4 Maggiori inferni e dalla sua statura Ben visitati avea l'uom forte e saggio, E vedutili, fuor nella misura, Conformi esser tra lor, di quel viaggio Predetta aveva al topo ogni avventura, Ch'or gli ridisse, e fecegli coraggio, E messol dentro al sempiterno orrore, Ad ispettarlo si fermò di fuore. 5 Io vidi in Roma su le liete scene Che il nome appresso il volgo han di Fiano In una grotta ove sonar catene S'ode e un lamento pauroso e strano, Discender Cassandrin dalle serene Aure per forza con un lume in mano, Che con tremule note in senso audace Parlando, spegne per tremar la face. 6 Poco altrimenti all'infernal discesa Posesi di Topaia il cavaliere, Salvo che non avea lucerna accesa, Ch'ai topi per veder non è mestiere; Né minacciando gia, che in quella impresa Vedeva il minacciar nulla valere, E pur volendo, credo che a gran pena Bastata a questo gli saria la lena. 7 Tacito discendeva in compagnia Di molte larve i sotterranei fondi. Senza precipitar quivi la via Mena ai più ciechi abissi e più profondi. Can Cerbero latrar non vi s'udia, Sferze fischiar né rettili iracondi, Non si vedevan barche e non paludi, Né spiriti aspettar sull'erba ignudi. 8 Senza custode alcuno era l'entrata Ed aperta la via perpetuamente, Che da persone vive esser tentata La non può mai che malagevolmente, E per l'uso de' morti apparecchiata Fu dal principio suo naturalmente, Onde non è ragion farvisi altrui Ostacolo al calar ne' regni bui. 9 E dell'uscir di là nessun desio Provano i morti, se ben hanno il come; Che spiccato che fu de' topi l'io, Non si rappicca alle corporee some, E ritornando dall'eterno obblio, Sanno ben che rizzar farian le chiome; E fuggiti da ognuno e maledetti Sarian per giunta da' parenti stretti. 10 Premii né pene non trovò nel regno De' morti il conte, ovver di ciò non danno Le sue storie antichissime alcun segno. E maraviglia in questo a me non fanno, Che i morti aver quel ch'alla vita è degno, Piacere eterno ovvero eterno affanno, Tacque, anzi mai non seppe, a dire il vero, Non che il prisco Israele, il dotto Omero. 11 Sapete che se in lui fu lungamente Creduta ritrovar questa dottrina, Avvenne ciò perché l'umana mente, Quei dogmi ond'ella si nutrì bambina Veri non crede sol ma d'ogni gente Natii quantunque antica o pellegrina. Dianzi in Omero errar di ciò la fama Scoprimmo: ed imparar questo si chiama. 12 Né mai selvaggio alcun di premii o pene Destinate agli spenti ebbe sentore, Né già dopo il morir delle terrene Membra l'alme credè viver di fuore, Ma palpitare ancor le fredde vene, E in somma non morir colui che more, Perch'un rozzo del tutto e quasi infante La morte a concepir non è bastante. 13 Però questa caduca e corporale Vita, non altra, e il breve uman viaggio In modi e luoghi incogniti immortale Dopo il fato durar crede il selvaggio E lo stato i sepolti anco aver tale, Qual ebber quei di sopra al lor passaggio, Tali i bisogni e non in parte alcuna Gli esercizi mutati o la fortuna. 14 Ond'ei sotterra con l'esangue spoglia Ripon cibi e ricchezze e vestimenti, Chiude le donne e i servi acciò non toglia Il sepolcro al defunto i suoi contenti, Cani, frecce ed arnesi a qualsivoglia Arte ch'egli adoprasse appartenenti, Massime se il destin gli avea prescritto Che con la man si procacciasse il vitto. 15 E questo è quello universal consenso Che in testimon della futura vita Con eloquenza e con sapere immenso Da dottori gravissimi si cita, D'ogni popol più rozzo e più milenso, D'ogni mente infingarda e inerudita: Il non poter nell'orba fantasia La morte immaginar che cosa sia. 16 Son laggiù nel profondo immense file Di seggi ove non può lima o scarpello, Seggono i morti in ciaschedun sedile Con le mani appoggiate a un bastoncello, Confusi insiem l'ignobile e il gentile Come di mano in man gli ebbe l'avello. Poi ch'una fila è piena, immantinente Da più novi occupata è la seguente. 17 Nessun guarda il vicino o gli fa motto. Se visto avete mai qualche pittura Di quelle usate farsi innanzi a Giotto, O statua antica in qualche sepoltura Gotica, come dice il volgo indotto, Di quelle che a mirar fanno paura, Con le facce allungate e sonnolenti E l'altre membra pendule e cadenti, 18 Pensate che tal forma han per l'appunto L'anime colaggiù nell'altro mondo, E tali le trovò poi che fu giunto Il topo nostro eroe nel più profondo. Tremato sempre avea fino a quel punto Per la discesa, il ver non vi nascondo, Ma come vide quel funereo coro Per poco non restò morto con loro. 19 Forse con tal, non già con tanto orrore Visto avete in sua carne ed in suoi panni Federico secondo imperatore In Palermo giacer da secent'anni Senza naso né labbra, e di colore Quale il tempo può far con lunghi danni, Ma col brando alla cinta e incoronato, E con l'imago della terra allato. 20 Poscia che dal terror con gran fatica A poco a poco ritornato il conte Oso fu di mirar la schiera antica Negli occhi mezzo chiusi e nella fronte, Cercando se fra lor persona amica Riconoscesse alle fattezze conte, Gran tempo andò con le pupille errando Di cotanti nessun raffigurando. 21 Sì mutato d'ognuno era il sembiante, E sì tra lor conformi apparian tutti, Che a gran pena gli venne in sul davante Riconosciuto in fin Mangiaprosciutti, Rubatocchi e poche altre anime sante Di cari amici suoi testè distrutti: A cui principalmente il sermon volto Narrò perché a cercarli avesse tolto. 22 Ma gli convenne incominciar dal primo Assalto che dai granchi ebbero i suoi, Novo agli scesi anzi quel tempo all'imo Essendo quel che occorso era da poi. Ben ciascun giorno dal terrestre limo Discendon topi al mondo degli eroi, Ma non fan motto, che alla gente morta Questa vita di qua niente importa. 23 Narrato ch'ebbe alla distesa il tutto, La tregua, il novo prence e lo statuto, lI brutto inganno dei nemici, e il brutto Galoppar dell'esercito barbuto, Addimandò se la vergogna e il lutto Ove il popol de' topi era caduto Sgombro sarebbe per la man de' molti Collegati da lui testè raccolti. 24 Non è l'estinto un animal risivo, Anzi negata gli è per legge eterna La virtù per la quale è dato al vivo Che una sciocchezza insolita discerna, Sfogar con un sonoro e convulsivo Atto un prurito della parte interna. Però, del conte la dimanda udita Non risero i passati all'altra vita. 25 Ma primamente allor su per la notte Perpetua si diffuse un suon giocondo, Che di secolo in secolo alle grotte Più remote pervenne insino al fondo. I destini tremàr non forse rotte Fosser le leggi imposte all'altro mondo, E non potente l'accigliato Eliso, Udito il conte, a ritenere il riso. 26 Il conte, ancor che la paura avesse De' suoi pensieri il principal governo, Visto poco mancar che non ridesse Di sé l'antico tempo ed il moderno, E tutto per tener le non concesse Risa sudando travagliar l'inferno, Arrossito saria, se col rossore Mostrasse il topo il vergognar, di fuore. 27 E confuso e di cor tutto smarrito, Con voce il più che si poteva umile, E in atto ancor dimesso e sbigottito, Mutando al dimandar figura e stile, Interrogò gli spirti a qual partito Appigliar si dovesse un cor gentile Per far dell'ignominia ov'era involta La sua stirpe de' topi andar disciolta. 28 Come un liuto rugginoso e duro Che sia molti anni già muto rimaso, Risponde con un suon fioco ed oscuro A chi lo tenta o lo percota a caso, Tal con un profferir torbo ed impuro Che fean mezzo le labbra e mezzo il naso, Rompendo del tacer l'abito antico Risposer l'ombre a quel del mondo aprico. 29 E gli ordinàr che riveduto il sole Di penetrar fra' suoi trovasse via, Che poi ch'entrar della terrestre mole Potea nel cupo, anche colà potria. Ivi in pensieri, in opre ed in parole Seguisse quel che mostro gli saria Per lavar di sua gente il disonore Dal general di nome Assaggiatore. 30 Era questi un guerrier canuto e prode Che per senno e virtù pregiato e culto D'un vano perigliar la vana lode Fuggia, vivendo a più potere occulto, Trattar le ciance come cose sode A genti di cervel non bene adulto Lasciando, e sotto non superbo tetto Schifando del servaggio il grave aspetto. 31 Infermo egli a giacer s'era trovato Quando il granchio alle spalle ebbero i suoi, Ed a congiure sceniche invitato Chiusi sempre gli orecchi avea di poi, Onde cattivo cittadin chiamato Era talor dai fuggitivi eroi, Ed ei, tranquillo in sua virtù, la poco Saggia natura altrui prendeva in gioco. 32 Tale oracolo avuto alle superne Contrade i passi ritorceva il conte, Scritto portando delle valli inferne Lo spavento negli atti e nella fronte. Qual di Trofonio già nelle caverne Agli arcani di Stige e d'Acheronte Ammesso il volgo, in su l'aperta riva Pallido e trasformato indi reddiva. 33 Presso alla soglia dell'avaro speco Dedalo ritrovò che l'attendeva, E poi ch'alquanto ragionando seco Di quel che dentro là veduto aveva, Riposato si fu sotto quel cieco Vel di nebbia che mai non si solleva, Rassettatesi l'ali in su la schiena Con lui di novo abbandonò l'arena. 34 Riviver parve al semivivo, uscito Che fu del buio a riveder le stelle. Era notte e splendean per l'infinito Ocean le volubili facelle, Leggermente quel mar che non ha lito Sferzavan l'aure fuggitive e snelle, E s'andava a quel suono accompagnando Il rombo che color facean volando. 35 Rapido sì che non cedeva al vento Ver Topaia drizzàr subito il volo, Portando l'occhio per seguire intento I due lumi ch'ha sempre il nostro polo. D'isole sparso il liquido elemento Scoprian passando, e su l'oscuro suolo Volare allocchi, e più d'un pipistrello Che al topo s'accostò come fratello. 36 Valiche l'acque, valicàr gran tratto Di terra ferma ed altro mar di poi, E così come prima avevan fatto La parte rivarcàr che abitiam noi. Già di rincontro a lor nasceva e ratto Si spandeva il mattin sui monti eoi, Quando là di Topaia accanto al sasso Chinàr Dedalo e il conte i vanni al basso. 37 Quivi non visti rintegràr le dome Forze con bacche e con silvestri ghiande. Poscia Dedalo, avuta io non so come Una pelle di granchio in quelle bande, L'altro coprì delle nemiche some Tal che parve di poi tra le nefande Bestie un granchio più ver che appresso i Franchi Non paion delle donne i petti e i fianchi. 38 Alfin del conte alle onorate imprese Fausto evento pregando e fortunato L'ospite e duce e consiglier cortese, Partendosi, da lui prese commiato. Piangeva il topo, e con le braccia stese Cor gli giurava eternamente grato. Quei l'abbracciò come poteva, e solo Poi verso il nido suo riprese il volo. 39 L'esule a rientrar nella dolente Città non fe dimora, e poi che l'ebbe Con gli occhi intorno affettuosamente Ricorsa, e con gli orecchi avido bebbe Le patrie voci, a quel che alla sua agente Udito avea che lume esser potrebbe, Senza punto indugiarsi andò diritto, Dico al guerrier di cui più sopra è scritto. 40 A conoscer si diede, e qual desire Il movesse a venir fece palese. Quegli onorollo assai, ma nulla udire Volle di trame o di civili imprese. Cercollo il conte orando ammorbidire, Ma tacque il volo e l'infernal paese, Perché temé da quel guerrier canuto Per visionario e sciocco esser tenuto. 41 Più volte l'instancabile oratore Or solo ed or con altra compagnia Tornato era agli assalti, ed a quel core Aperta non s'aveva alcuna via. Ultimamente un dì che Assaggiatore Con più giovani allato egli assalia, Quei ragionò tra lor nella maniera Che di qui recitar creduto io m'era. 42 Perché, se ben le antiche pergamene Dietro le quali ho fino a qui condotta La storia mia qui mancano, e se bene Per tal modo la via m'era interrotta, La leggenda che in quella si contiene Altrove in qual si fosse lingua dotta Sperai compiuta ritrovar: ma vòto Ritornommi il pensiero e contro il voto. 43 Questa in lingua sanscrita e tibetana, Indostanica, pahli e giapponese, Arabica, rabbinica, persiana, Etiopica, tartara e cinese, Siriaca, caldaica, egiziana, Mesogotica, sassone e gallese, Finnica, serviana e dalmatina, Valacca, provenzal, greca e latina, 44 Celata in molte biblioteche e molte Di levante si trova e di ponente, Che vidi io stesso o che per me rivolte Fur da più d'un amico intelligente. Ma di tali scritture ivi sepolte Nessuna al caso mio valse niente, Che non v'ha testo alcun della leggenda Ove più che nel nostro ella si stenda. 45 Però con gran dolor son qui costretto Troncando abbandonar l'istoria mia, Tutti mancando in fin, siccome ho detto, I testi, qual che la cagion si sia: Come viaggiator, cui per difetto Di cavalli o di rote all'osteria Restar sia forza, o qual nocchiero intento Al corso suo, cui venga meno il vento. 46 Voi, leggitori miei, l'involontario Mancamento imputar non mi dovete. Se mai perfetto in qualche leggendario Troverò quel che in parte inteso avete, Al narrato dinanzi un corollario Aggiungerò, se ancor legger vorrete. Paghi del buon desio restate intanto, E finiscasi qui l'ottavo canto. |
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© aprile 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 04 May 1998