Giacomo Leopardi
Paralipomeni
della Batracomiomachia
canto settimo
CANTO 7
1 D'aggiunger mi scordai nell'altro canto Che il topo ancor l'incognito richiese Del nome e dello stato, e come tanto Fosse ad un topo pellegrin cortese, E da che libri ovver per quale incanto Le soricine voci avesse apprese. Parte l'altro gli disse, e il rimanente Voler dir più con agio il dì seguente. 2 Dedalo egli ebbe nome, e fu per l'arte Simile a quel che fece il laberinto. Che il medesimo fosse antiche carte Mostran la fama aver narrato o finto. Se la ragion de' tempi in due li parte, Non vo d'anacronismo esser convinto. Gli anni non so di Creta o di Minosse: Il Niebuhr li diria se vivo fosse. 3 Antichissima, come è manifesto, Fu del nostro l'età. Però dichiaro, Lettori e leggitrici, anzi protesto Che il Dedalo per fama oggi sì chiaro Forse e probabilmente non fu questo Del quale a ragionarvi io mi preparo; Ma più moderno io non saprei dir quanto: Ed in via senza più torna il mio canto. 4 Quel Dedalo che al topo albergo diede, Fu di ricca e gentil condizione Da quei che il generàr lasciato erede, E noiato non so per qual ragione Degli uomini che pur, chi dritto vede, In general son ottime persone, Ridotto s'era solitario in villa A condur vita libera e tranquilla. 5 Questi adunque, poiché più di quattr'ore Alto il sole ebbe visto, al pellegrino Che dall'alba dormia con gran sapore Recò che molto innanzi era il mattino, E levato il condusse ove in colore Vario splendea tra l'oro il marrocchino, Nello studio cioè, che intorno intorno Era di libri preziosi adorno. 6 Ivi gli fe veder molti volumi D'autori topi antichi e di recenti: I Delirii del gran Fiutaprofumi, La Trappola, tragedia in atti venti, Topaia innanzi l'uso de' salumi, Gli Atti dell'Accademia de' Dormienti, L'Amico de' famelici, ed un cantico Per nascita reale in foglio atlantico. 7 La grammatica inoltre e il dizionario Mostrogli della topica favella, E più d'un altro libro necessario A drittamente esercitarsi in quella, Che con l'uso de' verbi alquanto vario Alle lingue schiavone era sorella. Indi fattol sedere, anch'ei s'assise, Ed in un lungo ragionar si mise. 8 E disse com'ancor presso al confine Di pubertà quel nido avendo eletto, Di fisiche e meccaniche dottrine Preso aveva in quegli ozi un gran diletto, Tal che diverse cose e peregrine Avea per mezzo lor poste ad effetto, E correndo di poi molti paesi, Molti novi trovati aveva appresi. 9 E sommamente divenuto esperto Della storia che detta è naturale, Ben già fin dal principio essendo certo Dello stato civil d'ogni animale, Gl'idiomi di molti avea scoperto Quale ascoltando intentamente e quale Per volumi trovati: ond'esso a quante Bestie per caso gli venian davante, 10 Come a simili suoi, come a consorti, Sempre in ciò che poteva era cortese. Ma dopo aver così di molte sorti E città d'animai le lingue apprese, E quinci de' più frali e de' più forti Le più riposte qualitadi intese, Un desiderio in cor gli era spuntato Che l'avea per molti anni esercitato. 11 Un desiderio di dovere, andando Per tutto l'orbe, a qualche segno esterno, Come il nostro scopriro altri cercando, Degli animali ritrovar l'inferno, Cioè quel loco ove al morir passando Vivesse l'io degli animali eterno. Il qual ch'eterno fosse al par del nostro Dal comun senso gli parea dimostro. 12 Perché, dicea, chiunque gli occhi al sole Chiudere, o rinnegar la coscienza, Ed a se stesso in sé mentir non vuole, Certo esser dee che dalla intelligenza De' bruti a quella dell'umana prole È qual da meno a più la differenza, Non di genere tal che se rigetta La materia un di lor, l'altro l'ammetta. 13 Che certo s'estimar materia frale Dalla retta ragion mi si consente L'io del topo, del can, d'altro mortale, Che senta e pensi manifestamente, Perché non possa il nostro esser cotale Non veggo: e se non pensa in ver né sente lI topo o il can, di dubitar concesso M'è del sentire e del pensar mio stesso. 14 Così dicea. Ma che l'uman cervello Ciò che d'aver per fermo ha stabilito Creda talmente che dal creder quello Nol rimova ragion forza o partito, Due cose, parmi, che accoppiare è bello, Mostran quant'altra mai quasi scolpito: L'una, che poi che senza dubbio alcuno Di Copernico il dogma approva ognuno, 15 Non però fermi e persuasi manco Sono i popoli tutti e son le scole Che l'uomo, in somma, senza uguali al fianco Segga signor della creata mole, Né con modo men lepido o men franco Si ripeton ancor le antiche fole, Che fan dell'esser nostro e de' costumi Per nostro amor partecipare i numi. 16 L'altra, che quei che dell'umana mente L'arcana essenza a ricercar procede, La question delle bestie interamente Lasciar da banda per lo più si vede Quasi aliena alla sua con impudente Dissimulazione e mala fede, E conchiuder la sua per modo tale Ch'all'altra assurdo sia, nulla gli cale. 17 Ma lasciam gli altri a cui per dritto senso I topi anche moderni io pongo avanti. A Dedalo torniamo ed all'intenso Desio che il mosse a ricercar per quanti Climi ha la terra e l'oceano immenso, Come fer poscia i cavalieri erranti Delle amate lor donne, in qual dimora Le bestie morte fosser vive ancora. 18 Trovollo alfin veracemente e molte Vide con gli occhi propri alme di bruti Ignude, io dico da quei corpi sciolte Che quassù per velami aveano avuti, Se bene in quelli ancor pareano involte, Come, non saprei dir, ma chi veduti Spiriti ed alme ignude ha di presenza, Sa che sempre di corpi hanno apparenza. 19 Dunque menarlo all'immortal soggiorno De' topi estinti offerse al peregrino Dedalo, acciò che consultarli intorno A Topaia potesse ed al destino: Perché sappiam che chiusi gli occhi al giorno Diventa ogni mortal quasi indovino, E qual che fosse pria, dotto e prudente Si rende sì che avanza ogni vivente. 20 Strana questa in principio e fera impresa Al conte e piena di terror parea. Non avean fatta simile discesa Orfeo, Teseo, la Psiche, Ercole, Enea, Che vantàr poscia, e forse l'arte appresa Da topi o talpe alcun di loro avea. Dedalo l'ammonì che denno i forti Poco temere i vivi e nulla i morti. 21 E inanimito ed all'impresa indotto Avendol facilmente, e confortato D'alcun de' cibi di che il topo è ghiotto, D'alucce armogli l'uno e l'altro lato. Più non so dir, l'istoria non fa motto Di quello onde l'ordigno era formato, Non degl'ingegni e non dell'artifizio Per la virtù del qual facea l'uffizio. 22 Palesemente dimostrò l'effetto Che queste d'ali inusitate some Di quell'altre non ebbero il difetto Ond'Icaro volando al mar diè nome: Di quelle, sia per incidenza detto, Che venner men dal caldo io non so come, Poiché nell'alta region del cielo Non suole il caldo soverchiar ma il gelo. 23 Dedalo, io dico il nostro, ale si pose Accomodate alla statura umana. Dubitar non convien di queste cose Perocché sien di specie alquanto strana. Udiam fra molte che l'età nascose La macchina vantar del padre Lana, E il globo aerostatico ottien fede Non per udir ma perocché si vede. 24 Così d'ali ambedue vestito il dosso, Su pe' terrazzi del romito ostello Il novo carco in pria tentato e scosso, Preser le vie che proprie ebbe l'uccello. Parea Dedalo appunto un uccel grosso, L'altro al suo lato appunto un pipistrello; Volàr per tratto immenso ed infiniti Vider gioghi dall'alto e mari e liti. 25 Vider città di cui non pur l'aspetto, Ma la memoria ancor copron le zolle, E vider campo o fitta selva o letto D'acque palustri limaccioso e molle Ove ad altre città fu luogo eletto Di poi, ch'anco fioriro, anco atterrolle Il tempo, ed or del loro stato avanza Peritura del par la rinomanza. 26 Non era Troia allor, non eran quelle Ch'al terren l'adeguaro Argo e Micene, Non le rivali due, d'onor sorelle, Di fortuna non già, Sparta e Messene; Né quell'altra era ancor che poi le stelle Dovea stancar con la sua fama Atene, Vòto era il porto, e dove or peregrina La gente al tronco Partenon s'inchina. 27 Presso al Gange ed all'Indo eccelse mura E popoli appariano a mano a mano. Pagodi nella Cina, ed alla pura Luce del Sol da presso e da lontano Canali rifulgean, sopra misura Vari di corso per lo verde piano, Che di città lietissimo e di gente, Di commerci e di danze era frequente. 28 La torre di Babel di sterminata Ombra stampava la deserta landa; E la terra premean dall'acque nata Le piramidi in questa o in quella banda. Poco Italia a quel tempo era abitata, Italia ch'al finir dell'ammiranda Antichità per anni ultima viene, E primi per virtù gli onori ottiene. 29 Sparsa era tutta di vulcani ardenti, E incenerita in questo lato e in quello. Fumavan gli Apennini allor frequenti Come or fuman Vesuvio e Mongibello, E di liquide pietre ignei torrenti Al mar tosco ed all'Adria eran flagello; Fumavan l'Alpi, e la nevosa schiena Solcavan fiamme ed infocata arena. 30 Non era ai due volanti peregrini Possibile drizzar tant'alto i vanni, Che non ceneri pur ma sassolini Non percotesser lor le membra e i panni: Tali in sembianza di smodati pini Sorgean diluvi inver gli eterni scanni Da eccelsissimi gioghi, alto d'intorno A terra e mare intenebrando il giorno. 31 Tonare i monti e rintronar s'udiva Or l'illirica spiaggia ed or la sarda. Né già, come al presente, era festiva La veneta pianura e la lombarda, Né tanti laghi allor né con sua riva Il Lario l'abbellia né quel di Garda, Nuda era e senza amenità nessuna E per lave indurate orrida e bruna. 32 Sovra i colli ove Roma oggi dimora Solitario pascea qualche destriero, Errando al Sol tersissimo che indora Quel loco al mondo sopra tutti altero. Non conduceva ancor l'ardita prora Per le fauci scillee smorto nocchiero, Che di Calabria per terrestre via Nel suol trinacrio il passegger venia. 33 Dall'altra parte aggiunto al gaditano Era il lido ove poi Cartago nacque: E già si discoprian di mano in mano Fenicii legni qua e là per l'acque. Anche apparia di fuor su l'oceano Quella che poi sommersa entro vi giacque, Atlantide chiamata, immensa terra Di cui leggera fama or parla ed erra. 34 Per lei più facil varco aveasi allora Ai lidi là di quell'altro emisfero Che per l'artiche nevi e per l'aurora Polar che avvampa in ciel maligno e nero, Né di perigli pien così com'ora Dritto fendendo l'oceano intero. Di lei fra gli altri ragionò Platone, E il viaggio del topo è testimone. 35 Per ogni dove andar bestie giganti O posar si vedean su la verdura, Maggiori assai degl'indici elefanti, E di qual bestia enorme è di statura. Parean dall'alto collinette erranti O sorgenti di mezzo alla pianura. Di sì fatti animai son le semente, Come sapete, da gran tempo spente. 36 Reliquie lor le scole ed i musei Soglion l'ossa serbar disotterrate. Riconosciuta ancor da' nostri augei L'umile roccia fu che la cittate Copria de' topi, e quattro volte e sei L'esule volator pien di pietate La rimirò dall'alto e sospirando Si volse indietro e si lagnò del bando. 37 Alfin dopo volare e veder tanto Che con lingua seguir non si potria, Scoprì la coppia della quale io canto Un mar che senza termini apparia. Forse fu quel cui della pace il vanto Alcun che poi solcollo attribuia, Detto da molti ancor meridiano, Sopra tutti latissimo oceano. 38 Nel mezzo della lucida pianura Videro un segno d'una macchia bruna, Qual pare a riguardar, ma meno oscura Questa o quell'ombra in su l'argentea luna. E là drizzando il vol nell'aria pura Che percotea del mar l'ampia laguna, Videro immota e, come dir, confitta Una nebbia stagnar putrida e fitta. 39 Qual di passeri un groppo o di pernici Che s'atterri a beccar su qualche villa Pare al pastor che su per le pendici Pasce le capre al Sol quando più brilla, Cotal dall'alto ai due volanti amici Parve quella ch'eterna ivi distilla Nebbia anzi notte, nella quale involta Un'isola o piuttosto era sepolta. 40 Altissima in sul mar da tutti i lati Quest'isola sorgea con tali sponde, E scogli intorno a lor sì dirupati, E voragini tante e sì profonde Ove con tal furor, con tai latrati Davano e sparse rimbalzavan l'onde, Che di pure appressarsi a quella stanza Mai notator né legno ebbe speranza. 41 Sola potea la region del vento Dare al sordido lido alcuna via. Ma gli augelli scacciava uno spavento Ed un fetor che dalla nebbia uscia. Pure ai nostri non fur d'impedimento Queste cose, il cui volo ivi finia, Che quel funereo padiglione eterno Copria de' bruti il generale inferno. 42 Colà rompendo la selvaggia notte Gli stanchi volatori abbassàr l'ale E quella terra calpestàr che inghiotte Puro e semplice l'io d'ogni animale, E posersi a seder su le dirotte Ripe ove il piè non porse altro mortale, Levando gli occhi alla feral montagna Che il mezzo empiea dell'arida campagna. 43 D'un metallo immortal massiccio e grave Quel monte il dosso nuvoloso ergea, Nero assai più che per versate lave Non par da presso a montagna etnea, Tornito e liscio e fra quell'ombre cave Un monumento sepolcral parea: Tali alcun sogno a noi per avventura Spettacoli creò fuor di natura. 44 Girava il monte più di cento miglia E per tutto il suo giro alle radici Eran bocche diverse a maraviglia Di grandezza tra lor ma non d'uffici. Degli estinti animali ogni famiglia Dalle balene ai piccioli lombrici, Alle pulci, agl'insetti onde ogni umore Han pieno altri animai dentro e di fuore, 45 Microscopici o in tutto anche nascosti All'occhio uman quanto si voglia armato Ha quivi la sua bocca. E son disposti Quei fori sì che de' maggiori allato I minori per ordine son posti. Della maggior balena e smisurato È il primo, e digradando a mano a mano L'occhio s'aguzza in su gli estremi invano. 46 Porte son questi d'altrettanti inferni Che ad altrettanti generi di bruti Son ricetti durabili ed eterni Dell'anime che i corpi hanno perduti. Quivi però da tutti i lidi esterni Venian radendo l'aria intenti e muti Spirti d'ogni maniera, e quella bocca Prendea ciascun ch'alla sua specie tocca. 47 Cervi, bufali, scimmie, orsi e cavalli, Ostriche, seppie, muggini ed ombrine, Oche, struzzi, pavoni e pappagalli, Vipere e bacherozzi e chioccioline, Forme affollate per gli aerei calli Empiean del tetro loco ogni confine, Volando, perché il volo anche è virtude Propria dell'alme di lor membra ignude. 48 Ben quivi discernean Dedalo e il conte Queste forme che al Sol non avean viste, Bench'alle spalle ai fianchi ed alla fronte Sempre al lor volo assai ne fur commiste, Che d'ogni valle, o poggio, o selva, o fonte Van per l'alto ad ogni ora anime triste, Verso quel loco che l'eterna sorte Lor seggio destinò dopo la morte. 49 Ma come solamente all'aure oscure Del suo foco la lucciola si tinge, E spariscono al Sol quelle figure Che la lanterna magica dipinge, Così le menti assottigliate e pure Di quel vel che vivendo le costringe Sparir naturalmente al troppo lume, Né parer che nell'ombra han per costume. 50 E di qui forse avvien che le sepolte Genti di notte comparir son use, E che dal giorno, fuor che rade volte, Soglion le visioni essere escluse. Vuole alcun che le umane alme disciolte In un di questi inferni anco sien chiuse, Posto là come gli altri in quella sede Che la grandezza in ordine richiede. 51 E che Virgilio e tutti quei che diero All'uman seme un eremo in disparte Favoleggiasser seguitando Omero, E lo stil proprio de' poeti e l'arte, Essendo del mortal genere in vero Più feconda che l'uom la maggior parte. Io di questo per me non mi frammetto: Però l'istoria a seguitar m'affretto. |
8 16 24 32 40 48 56 64 72 80 88 96 104 112 120 128 136 144 152 160 168 176 184 192 200 208 216 224 232 240 248 256 264 272 280 288 296 304 312 320 328 336 344 352 360 368 376 384 392 400 408 |
© aprile 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 01 May 1998