Giacomo Leopardi
Operette morali
Narrasi che tutti gli uomini che da
principio popolarono la terra, fossero creati per ogni dove a un medesimo tempo, e tutti
bambini, e fossero nutricati dalle api, dalle capre e dalle colombe nel modo che i poeti
favoleggiarono dell'educazione di Giove. E che la terra fosse molto più piccola che ora
non è, quasi tutti i paesi piani, il cielo senza stelle, non fosse creato il mare, e
apparisse nel mondo molto minore varietà e magnificenza che oggi non vi si scuopre. Ma
nondimeno gli uomini compiacendosi insaziabilmente di riguardare e di considerare il cielo
e la terra, maravigliandosene sopra modo e riputando l'uno e l'altra bellissimi e, non che
vasti, ma infiniti, così di grandezza come di maestà e di leggiadria; pascendosi oltre a
ciò di lietissime speranze, e traendo da ciascun sentimento della loro vita incredibili
diletti, crescevano con molto contento, e con poco meno che opinione di felicità. Così
consumata dolcissimamente la fanciullezza e la prima adolescenza, e venuti in età più
ferma, incominciarono a provare alcuna mutazione. Perciocché le speranze, che eglino fino
a quel tempo erano andati rimettendo di giorno in giorno, non si riducendo ancora ad
effetto, parve loro che meritassero poca fede; e contentarsi di quello che presentemente
godessero, senza promettersi verun accrescimento di bene, non pareva loro di potere,
massimamente che l'aspetto delle cose naturali e ciascuna parte della vita giornaliera, o
per l'assuefazione o per essere diminuita nei loro animi quella prima vivacità, non
riusciva loro di gran lunga così dilettevole e grata come a principio. Andavano per la
terra visitando lontanissime contrade, poiché lo potevano fare agevolmente, per essere i
luoghi piani, e non divisi da mari, né impediti da altre difficoltà; e dopo non molti
anni, i più di loro si avvidero che la terra, ancorché grande, aveva termini certi, e
non così larghi che fossero incomprensibili; e che tutti i luoghi di essa terra e tutti
gli uomini, salvo leggerissime differenze, erano conformi gli uni agli altri. Per le quali
cose cresceva la loro mala contentezza di modo che essi non erano ancora usciti della
gioventù, che un espresso fastidio dell'esser loro gli aveva universalmente occupati. E
di mano in mano nell'età virile, e maggiormente in sul declinare degli anni, convertita
la sazietà in odio, alcuni vennero in sì fatta disperazione, che non sopportando la luce
e lo spirito, che nel primo tempo avevano avuti in tanto amore, spontaneamente, quale in
uno e quale in altro modo, se ne privarono.
Parve orrendo questo caso agli Dei, che da
creature viventi la morte fosse preposta alla vita, e che questa medesima in alcun suo
proprio soggetto, senza forza di necessità e senza altro concorso, fosse a disfarlo. Né
si può facilmente dire quanto si maravigliassero che i loro doni fossero tenuti così
vili ed abbominevoli, che altri dovesse con ogni sua forza spogliarseli e rigettarli;
parendo loro aver posta nel mondo tanta bontà e vaghezza, e tali ordini e condizioni, che
quella stanza avesse ad essere, non che tollerata, ma sommamente amata da qualsivoglia
animale, e dagli uomini massimamente, il qual genere avevano formato con singolare studio
a maravigliosa eccellenza. Ma nel medesimo tempo, oltre all'essere tocchi da non mediocre
pietà di tanta miseria umana quanta manifestavasi dagli effetti, dubitavano eziandio che
rinnovandosi e moltiplicandosi quei tristi esempi, la stirpe umana fra poca età, contro
l'ordine dei fati, venisse a perire, e le cose fossero private di quella perfezione che
risultava loro dal nostro genere, ed essi di quegli onori che ricevevano dagli uomini.
Deliberato per tanto Giove di migliorare,
poiché parea che si richiedesse, lo stato umano, e d'indirizzarlo alla felicità con
maggiori sussidi, intendeva che gli uomini si querelavano principalmente che le cose non
fossero immense di grandezza, né infinite di beltà, di perfezione e di varietà, come
essi da prima avevano giudicato; anzi essere angustissime, tutte imperfette, e pressoché
di una forma; e che dolendosi non solo dell'età provetta, ma della matura, e della
medesima gioventù, e desiderando le dolcezze dei loro primi anni, pregavano ferventemente
di essere tornati nella fanciullezza, e in quella perseverare tutta la loro vita. Della
qual cosa non potea Giove soddisfarli, essendo contraria alle leggi universali della
natura, ed a quegli uffici e quelle utilità che gli uomini dovevano, secondo l'intenzione
e i decreti divini, esercitare e produrre. Né anche poteva comunicare la propria
infinità colle creature mortali, né fare la materia infinita, né infinita la perfezione
e la felicità delle cose e degli uomini. Ben gli parve conveniente di propagare i termini
del creato, e di maggiormente adornarlo e distinguerlo: e preso questo consiglio,
ringrandì la terra d'ogn'intorno, e v'infuse il mare, acciocché, interponendosi ai
luoghi abitati, diversificasse la sembianza delle cose, e impedisse che i confini loro non
potessero facilmente essere conosciuti dagli uomini, interrompendo i cammini, ed anche
rappresentando agli occhi una viva similitudine dell'immensità. Nel qual tempo occuparono
le nuove acque la terra Atlantide, non sola essa, ma insieme altri innumerabili e
distesissimi tratti, benché di quella resti memoria speciale, sopravvissuta alla
moltitudine dei secoli. Molti luoghi depresse, molti ricolmò suscitando i monti e le
colline, cosperse la notte di stelle, rassottigliò e ripurgò la natura dell'aria, ed
accrebbe il giorno di chiarezza e di luce, rinforzò e contemperò più diversamente che
per l'addietro i colori del cielo e delle campagne, confuse le generazioni degli uomini in
guisa che la vecchiezza degli uni concorresse in un medesimo tempo coll'altrui giovanezza
e puerizia. E risolutosi di moltiplicare le apparenze di quell'infinito che gli uomini
sommamente desideravano (dappoi che egli non li poteva compiacere della sostanza), e
volendo favorire e pascere le coloro immaginazioni, dalla virtù delle quali
principalmente comprendeva essere proceduta quella tanta beatitudine della loro
fanciullezza; fra i molti espedienti che pose in opera (siccome fu quello del mare),
creato l'eco, lo nascose nelle valli e nelle spelonche, e mise nelle selve uno strepito
sordo e profondo, con un vasto ondeggiamento delle loro cime. Creò similmente il popolo
de' sogni, e commise loro che ingannando sotto più forme il pensiero degli uomini,
figurassero loro quella pienezza di non intelligibile felicità, che egli non vedeva modo
a ridurre in atto, e quelle immagini perplesse e indeterminate, delle quali esso medesimo,
se bene avrebbe voluto farlo, e gli uomini lo sospiravano ardentemente, non poteva
produrre alcun esempio reale.
Fu per questi provvedimenti di Giove
ricreato ed eretto l'animo degli uomini, e rintegrata in ciascuno di loro la grazia e la
carità della vita, non altrimenti che l'opinione, il diletto e lo stupore della bellezza
e dell'immensità delle cose terrene. E durò questo buono stato più lungamente che il
primo, massime per la differenza del tempo introdotta da Giove nei nascimenti, sicché gli
animi freddi e stanchi per l'esperienza delle cose, erano confortati vedendo il calore e
le speranze dell'età verde. Ma in progresso di tempo tornata a mancare affatto la
novità, e risorto e riconfermato il tedio e la disistima della vita, si ridussero gli
uomini in tale abbattimento, che nacque allora, come si crede, il costume riferito nelle
storie come praticato da alcuni popoli antichi che lo serbarono (n.1),
che nascendo alcuno, si congregavano i parenti e loro amici a piangerlo; e morendo, era
celebrato quel giorno con feste e ragionamenti che si facevano congratulandosi
coll'estinto. All'ultimo tutti i mortali si volsero all'empietà, o che paresse loro di
non essere ascoltati da Giove, o essendo propria natura delle miserie indurare e
corrompere gli animi eziandio più bennati, e disamorarli dell'onesto e del retto.
Perciocché s'ingannano a ogni modo coloro i quali stimano essere nata primieramente
l'infelicità umana dall'iniquità e dalle cose commesse contro agli Dei; ma per lo
contrario non d'altronde ebbe principio la malvagità degli uomini che dalle loro
calamità.
Ora poiché fu punita dagli Dei col
diluvio di Deucalione la protervia dei mortali e presa vendetta delle ingiurie, i due soli
scampati dal naufragio universale del nostro genere, Deucalione e Pirra, affermando seco
medesimi niuna cosa potere maggiormente giovare alla stirpe umana che di essere al tutto
spenta, sedevano in cima a una rupe chiamando la morte con efficacissimo desiderio, non
che temessero né deplorassero il fato comune. Non per tanto, ammoniti da Giove di
riparare alla solitudine della terra; e non sostenendo, come erano sconfortati e
disdegnosi della vita, di dare opera alla generazione; tolto delle pietre della montagna,
secondo che dagli Dei fu mostrato loro, e gittatosele dopo le spalle, restaurarono la
specie umana. Ma Giove fatto accorto, per le cose passate, della propria natura degli
uomini, e che non può loro bastare, come agli altri animali, vivere ed essere liberi da
ogni dolore e molestia del corpo; anzi, che bramando sempre e in qualunque stato
l'impossibile, tanto più si travagliano con questo desiderio da se medesimi, quanto meno
sono afflitti dagli altri mali; deliberò valersi di nuove arti a conservare questo misero
genere: le quali furono principalmente due. L'una mescere la loro vita di mali veri;
l'altra implicarla in mille negozi e fatiche, ad effetto d'intrattenere gli uomini, e
divertirli quanto più si potesse dal conversare col proprio animo, o almeno col desiderio
di quella loro incognita e vana felicità.
Quindi primieramente diffuse tra loro una
varia moltitudine di morbi e un infinito genere di altre sventure: parte volendo, col
variare le condizioni e le fortune della vita mortale, ovviare alla sazietà e crescere
colla opposizione dei mali il pregio de' beni; parte acciocché il difetto dei godimenti
riuscisse agli spiriti esercitati in cose peggiori, molto più comportabile che non aveva
fatto per lo passato; e parte eziandio con intendimento di rompere e mansuefare la ferocia
degli uomini, ammaestrarli a piegare il collo e cedere alla necessità, ridurli a potersi
più facilmente appagare della propria sorte, e rintuzzare negli animi affievoliti non
meno dalle infermità del corpo che dai travagli propri, l'acume e la veemenza del
desiderio. Oltre di questo, conosceva dovere avvenire che gli uomini oppressi dai morbi e
dalle calamità, fossero meno pronti che per l'addietro a volgere le mani contra se
stessi, perocché sarebbero incodarditi e prostrati di cuore, come interviene per l'uso
dei patimenti. I quali sogliono anche, lasciando luogo alle speranze migliori, allacciare
gli animi alla vita: imperciocché gl'infelici hanno ferma opinione che eglino sarebbero
felicissimi quando si riavessero dei propri mali; la qual cosa, come è la natura
dell'uomo, non mancano mai di sperare che debba loro succedere in qualche modo. Appresso
creò le tempeste dei venti e dei nembi, si armò del tuono e del fulmine, diede a Nettuno
il tridente, spinse le comete in giro e ordinò le eclissi; colle quali cose e con altri
segni ed effetti terribili, instituì di spaventare i mortali di tempo in tempo: sapendo
che il timore e i presenti pericoli riconcilierebbero alla vita, almeno per breve ora, non
tanto gl'infelici, ma quelli eziandio che l'avessero in maggiore abbominio, e che fossero
più disposti a fuggirla.
E per escludere la passata oziosità,
indusse nel genere umano il bisogno e l'appetito di nuovi cibi e di nuove bevande, le
quali cose non senza molta e grave fatica si potessero provvedere, laddove insino al
diluvio gli uomini, dissetandosi delle sole acque, si erano pasciuti delle erbe e delle
frutta che la terra e gli arbori somministravano loro spontaneamente, e di altre nutriture
vili e facili a procacciare, siccome usano di sostentarsi anche oggidì alcuni popoli, e
particolarmente quelli di California. Assegnò ai diversi luoghi diverse qualità celesti,
e similmente alle parti dell'anno, il quale insino a quel tempo era stato sempre e in
tutta la terra benigno e piacevole in modo, che gli uomini non avevano avuto uso di
vestimenti; ma di questi per l'innanzi furono costretti a fornirsi, e con molte industrie
riparare alle mutazioni e inclemenze del cielo. Impose a Mercurio che fondasse le prime
città, e distinguesse il genere umano in popoli, nazioni e lingue, ponendo gara e
discordia tra loro; e che mostrasse agli uomini il canto e quelle altre arti, che sì per
la natura e sì per l'origine, furono chiamate, e ancora si chiamano, divine. Esso
medesimo diede leggi, stati e ordini civili alle nuove genti; e in ultimo volendo con un
incomparabile dono beneficarle, mandò tra loro alcuni fantasmi di sembianze
eccellentissime e soprumane, ai quali permise in grandissima parte il governo e la
potestà di esse genti: e furono chiamati Giustizia, Virtù, Gloria, Amor patrio e con
altri sì fatti nomi. Tra i quali fantasmi fu medesimamente uno chiamato Amore, che in
quel tempo primieramente, siccome anco gli altri, venne in terra: perciocché innanzi
all'uso dei vestimenti, non amore, ma impeto di cupidità, non dissimile negli uomini di
allora da quello che fu di ogni tempo nei bruti, spingeva l'uno sesso verso l'altro, nella
guisa che è tratto ciascuno ai cibi e a simili oggetti, i quali non si amano veramente,
ma si appetiscono.
Fu cosa mirabile quanto frutto
partorissero questi divini consigli alla vita mortale, e quanto la nuova condizione degli
uomini, non ostante le fatiche, gli spaventi e i dolori, cose per l'addietro ignorate dal
nostro genere, superasse di comodità e di dolcezza quelle che erano state innanzi al
diluvio. E questo effetto provenne in gran parte da quelle maravigliose larve; le quali
dagli uomini furono riputate ora geni ora iddii, e seguite e culte con ardore inestimabile
e con vaste e portentose fatiche per lunghissima età; infiammandoli a questo dal canto
loro con infinito sforzo i poeti e i nobili artefici; tanto che un grandissimo numero di
mortali non dubitarono chi all'uno e chi all'altro di quei fantasmi donare e sacrificare
il sangue e la vita propria. La qual cosa, non che fosse discara a Giove, anzi piacevagli
sopra modo, così per altri rispetti, come che egli giudicava dovere essere gli uomini
tanto meno facili a gittare volontariamente la vita, quanto più fossero pronti a
spenderla per cagioni belle e gloriose. Anche di durata questi buoni ordini eccedettero
grandemente i superiori; poiché quantunque venuti dopo molti secoli in manifesto
abbassamento, nondimeno eziandio declinando e poscia precipitando, valsero in guisa, che
fino all'entrare di un'età non molto rimota dalla presente, la vita umana, la quale per
virtù di quegli ordini era stata già, massime in alcun tempo, quasi gioconda, si
mantenne per beneficio loro mediocremente facile e tollerabile.
Le cagioni e i modi del loro alterarsi
furono i molti ingegni trovati dagli uomini per provvedere agevolmente e con poco tempo ai
propri bisogni; lo smisurato accrescimento della disparità di condizioni e di uffici
constituita da Giove tra gli uomini quando fondò e dispose le prime repubbliche;
l'oziosità e la vanità che per queste cagioni, di nuovo, dopo antichissimo esilio,
occuparono la vita; l'essere, non solo per la sostanza delle cose, ma ancora da altra
parte per l'estimazione degli uomini, venuta a scemarsi in essa vita la grazia della
varietà, come sempre suole per la lunga consuetudine; e finalmente le altre cose più
gravi, le quali per essere già descritte e dichiarate da molti, non accade ora
distinguere. Certo negli uomini si rinnovellò quel fastidio delle cose loro che gli aveva
travagliati avanti il diluvio, e rinfrescossi quell'amaro desiderio di felicità ignota ed
aliena dalla natura dell'universo.
Ma il totale rivolgimento della loro
fortuna e l'ultimo esito di quello stato che oggi siamo soliti di chiamare antico, venne
principalmente da una cagione diversa dalle predette: e fu questa. Era tra quelle larve,
tanto apprezzate dagli antichi, una chiamata nelle costoro lingue Sapienza; la quale
onorata universalmente come tutte le sue compagne, e seguita in particolare da molti,
aveva altresì al pari di quelle conferito per la sua parte alla prosperità dei secoli
scorsi. Questa più e più volte, anzi quotidianamente, aveva promesso e giurato ai
seguaci suoi di voler loro mostrare la Verità, la quale diceva ella essere un genio
grandissimo, e sua propria signora, né mai venuta in sulla terra, ma sedere cogli Dei nel
cielo; donde essa prometteva che coll'autorità e grazia propria intendeva di trarla, e di
ridurla per qualche spazio di tempo a peregrinare tra gli uomini: per l'uso e per la
familiarità della quale, dovere il genere umano venire in sì fatti termini, che di
altezza di conoscimento, eccellenza d'instituti e di costumi, e felicità di vita, per
poco fosse comparabile al divino. Ma come poteva una pura ombra ed una sembianza vota
mandare ad effetto le sue promesse, non che menare in terra la Verità? Sicché gli
uomini, dopo lunghissimo credere e confidare, avvedutisi della vanità di quelle
profferte; e nel medesimo tempo famelici di cose nuove, massime per l'ozio in cui
vivevano; e stimolati parte dall'ambizione di pareggiarsi agli Dei, parte dal desiderio di
quella beatitudine che per le parole del fantasma si riputavano, conversando colla Verità
essere per conseguire; si volsero con instantissime e presuntuose voci dimandando a Giove
che per alcun tempo concedesse alla terra quel nobilissimo genio, rimproverandogli che
egli invidiasse alle sue creature l'utilità infinita che dalla presenza di quello
riporterebbero; e insieme si rammaricavano con lui della sorte umana, rinnovando le
antiche e odiose querele della piccolezza e della povertà delle cose loro. E perché
quelle speciosissime larve, principio di tanti beni alle età passate, ora si tenevano
dalla maggior parte in poca stima; non che già fossero note per quelle che veramente
erano, ma la comune viltà dei pensieri e l'ignavia dei costumi facevano che quasi niuno
oggimai le seguiva; perciò gli uomini bestemmiando scelleratamente il maggior dono che
gli eterni avessero fatto e potuto fare ai mortali, gridavano che la terra non era degnata
se non dei minori geni; ed ai maggiori, ai quali la stirpe umana più condecentemente
s'inchinerebbe, non essere degno né lecito di porre il piede in questa infima parte
dell'universo.
Molte cose avevano già da gran tempo
alienata novamente dagli uomini la volontà di Giove; e tra le altre gl'incomparabili vizi
e misfatti, i quali per numero e per tristezza si avevano di lunghissimo intervallo
lasciate addietro le malvagità vendicate dal diluvio. Stomacavalo del tutto, dopo tante
esperienze prese, l'inquieta, insaziabile, immoderata natura umana; alla tranquillità
della quale, non che alla felicità, vedeva oramai per certo, niun provvedimento condurre,
niuno stato convenire, niun luogo essere bastante; perché quando bene egli avesse voluto
in mille doppi aumentare gli spazi e i diletti della terra, e l'università delle cose,
quella e queste agli uomini, parimente incapaci e cupidi dell'infinito, fra breve tempo
erano per parere strette, disamene e di poco pregio. Ma in ultimo quelle stolte e superbe
domande commossero talmente l'ira del dio, che egli si risolse, posta da parte ogni
pietà, di punire in perpetuo la specie umana, condannandola per tutte le età future a
miseria molto più grave che le passate. Per la qual cosa deliberò non solo mandare la
Verità fra gli uomini a stare, come essi chiedevano, per alquanto di tempo, ma dandole
eterno domicilio tra loro, ed esclusi di quaggiù quei vaghi fantasmi che egli vi avea
collocati, farla perpetua moderatrice e signora della gente umana.
E maravigliandosi gli altri Dei di questo
consiglio, come quelli ai quali pareva che egli avesse a ridondare in troppo innalzamento
dello stato nostro e in pregiudizio della loro maggioranza, Giove li rimosse da questo
concetto mostrando loro, oltre che non tutti i geni, eziandio grandi, sono di proprietà
benefici, non essere tale l'ingegno della Verità, che ella dovesse fare gli stessi
effetti negli uomini che negli Dei. Perocché laddove agl'immortali ella dimostrava la
loro beatitudine, discoprirebbe agli uomini interamente e proporrebbe ai medesimi del
continuo dinanzi agli occhi la loro infelicità; rappresentandola oltre a questo, non come
opera solamente della fortuna, ma come tale che per niuno accidente e niuno rimedio non la
possano campare, né mai, vivendo, interrompere. Ed avendo la più parte dei loro mali
questa natura, che in tanto sieno mali in quanto sono creduti essere da chi li sostiene, e
più o meno gravi secondo che esso gli stima; si può giudicare di quanto grandissimo
nocumento sia per essere agli uomini la presenza di questo genio. Ai quali niuna cosa
apparirà maggiormente vera che la falsità di tutti i beni mortali; e niuna solida, se
non la vanità di ogni cosa fuorché dei propri dolori. Per queste cagioni saranno
eziandio privati della speranza; colla quale dal principio insino al presente, più che
con altro diletto o conforto alcuno, sostentarono la vita. E nulla sperando, né veggendo
alle imprese e fatiche loro alcun degno fine, verranno in tale negligenza ed abborrimento
da ogni opera industriosa, non che magnanima, che la comune usanza dei vivi sarà poco
dissomigliante da quella dei sepolti. Ma in questa disperazione e lentezza non potranno
fuggire che il desiderio di un'immensa felicità, congenito agli animi loro, non li punga
e cruci tanto più che in addietro, quanto sarà meno ingombro e distratto dalla varietà
delle cure e dall'impeto delle azioni. E nel medesimo tempo si troveranno essere
destituiti della naturale virtù immaginativa, che sola poteva per alcuna parte
soddisfarli di questa felicità non possibile e non intesa, né da me, né da loro stessi
che la sospirano. E tutte quelle somiglianze dell'infinito che io studiosamente aveva
poste nel mondo, per ingannarli e pascerli, conforme alla loro inclinazione, di pensieri
vasti e indeterminati, riusciranno insufficienti a quest'effetto per la dottrina e per gli
abiti che eglino apprenderanno dalla Verità. Di maniera che la terra e le altre parti
dell'universo, se per addietro parvero loro piccole, parranno da ora innanzi menome:
perché essi saranno instrutti e chiariti degli arcani della natura; e perché quelle,
contro la presente aspettazione degli uomini, appaiono tanto più strette a ciascuno,
quanto egli ne ha più notizia. Finalmente, perciocché saranno stati ritolti alla terra i
suoi fantasmi, e per gl'insegnamenti della Verità, per li quali gli uomini avranno piena
contezza dell'essere di quelli, mancherà dalla vita umana ogni valore, ogni rettitudine,
così di pensieri come di fatti; e non pure lo studio e la carità, ma il nome stesso
delle nazioni e delle patrie sarà spento per ogni dove; recandosi tutti gli uomini,
secondo che essi saranno usati di dire, in una sola nazione e patria, come fu da
principio, e facendo professione di amore universale verso tutta la loro specie; ma
veramente dissipandosi la stirpe umana in tanti popoli quanti saranno uomini. Perciocché
non si proponendo né patria da dovere particolarmente amare, né strani da odiare;
ciascheduno odierà tutti gli altri, amando solo, di tutto il suo genere, se medesimo.
Dalla qual cosa quanti e quali incomodi sieno per nascere, sarebbe infinito a raccontare.
Né per tanta e sì disperata infelicità si ardiranno i mortali di abbandonare la luce
spontaneamente: perocché l'imperio di questo genio li farà non meno vili che miseri; ed
aggiungendo oltremodo alle acerbità della loro vita, li priverà del valore di
rifiutarla.
Per queste parole di Giove parve agli Dei
che la nostra sorte fosse per essere troppo più fiera e terribile che alla divina pietà
non si convenisse di consentire. Ma Giove seguitò dicendo. Avranno tuttavia qualche
mediocre conforto da quel fantasma che essi chiamano Amore; il quale io sono disposto,
rimovendo tutti gli altri, lasciare nel consorzio umano. E non sarà dato alla Verità,
quantunque potentissima e combattendolo di continuo, né sterminarlo mai dalla terra, né
vincerlo se non di rado. Sicché la vita degli uomini, parimente occupata nel culto di
quel fantasma e di questo genio, sarà divisa in due parti; e l'uno e l'altro di quelli
avranno nelle cose e negli animi dei mortali comune imperio. Tutti gli altri studi,
eccetto che alcuni pochi e di picciolo conto, verranno meno nella maggior parte degli
uomini. Alle età gravi il difetto delle consolazioni di Amore sarà compensato dal
beneficio della loro naturale proprietà di essere quasi contenti della stessa vita, come
accade negli altri generi di animali, e di curarla diligentemente per sua cagione propria,
non per diletto né per comodo che ne ritraggano.
Così rimossi dalla terra i beati
fantasmi, salvo solamente Amore, il manco nobile di tutti, Giove mandò tra gli uomini la
Verità, e diedele appo loro perpetua stanza e signoria. Di che seguitarono tutti quei
luttuosi effetti che egli avea preveduto. E intervenne cosa di gran maraviglia; che ove
quel genio prima della sua discesa, quando egli non avea potere né ragione alcuna negli
uomini, era stato da essi onorato con un grandissimo numero di templi e di sacrifici; ora
venuto in sulla terra con autorità di principe, e cominciato a conoscere di presenza, al
contrario di tutti gli altri immortali, che più chiaramente manifestandosi, appaiono più
venerandi, contristò di modo le menti degli uomini e percossele di così fatto orrore,
che eglino, se bene sforzati di ubbidirlo, ricusarono di adorarlo. E in vece che quelle
larve in qualunque animo avessero maggiormente usata la loro forza, solevano essere da
quello più riverite ed amate; esso genio riportò più fiere maledizioni e più grave
odio da coloro in che egli ottenne maggiore imperio. Ma non potendo perciò né sottrarsi,
né ripugnare alla sua tirannide, vivevano i mortali in quella suprema miseria che eglino
sostengono insino ad ora, e sempre sosterranno.
Se non che la pietà, la quale negli animi
dei celesti non è mai spenta, commosse, non e gran tempo, la volontà di Giove sopra
tanta infelicità; e massime sopra quella di alcuni uomini singolari per finezza
d'intelletto, congiunta a nobiltà di costumi e integrità di vita; i quali egli vedeva
essere comunemente oppressi ed afflitti più che alcun altro, dalla potenza e dalla dura
dominazione di quel genio. Avevano usato gli Dei negli antichi tempi, quando Giustizia,
Virtù e gli altri fantasmi governavano le cose umane, visitare alcuna volta le proprie
fatture, scendendo ora l'uno ora l'altro in terra, e qui significando la loro presenza in
diversi modi: la quale era stata sempre con grandissimo beneficio o di tutti i mortali o
di alcuno in particolare. Ma corrotta di nuovo la vita, e sommersa in ogni scelleratezza,
sdegnarono quelli per lunghissimo tempo la conversazione umana. Ora Giove compassionando
alla nostra somma infelicità, propose agl'immortali se alcuno di loro fosse per indurre
l'animo a visitare, come avevano usato in antico, e racconsolare in tanto travaglio questa
loro progenie, e particolarmente quelli che dimostravano essere, quanto a sé, indegni
della sciagura universale. Al che tacendo tutti gli altri, Amore, figliuolo di Venere
Celeste, conforme di nome al fantasma così chiamato, ma di natura, di virtù e di opere
diversissimo; si offerse (come è singolare fra tutti i numi la sua pietà) di fare esso
l'ufficio proposto da Giove, e scendere dal cielo; donde egli mai per l'avanti non si era
tolto; non sofferendo il concilio degl'immortali, per averlo indicibilmente caro, che egli
si partisse, anco per piccolo tempo, dal loro commercio. Se bene di tratto in tratto molti
antichi uomini, ingannati da trasformazioni e da diverse frodi del fantasma chiamato collo
stesso nome, si pensarono avere non dubbi segni della presenza di questo massimo iddio. Ma
esso non prima si volse a visitare i mortali, che eglino fossero sottoposti all'imperio
della Verità. Dopo il qual tempo, non suole anco scendere se non di rado, e poco si
ferma; così per la generale indegnità della gente umana, come che gli Dei sopportano
molestissimamente la sua lontananza. Quando viene in sulla terra, sceglie i cuori più
teneri e più gentili delle persone più generose e magnanime; e quivi siede per breve
spazio; diffondendovi sì pellegrina e mirabile soavità, ed empiendoli di affetti sì
nobili, e di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa al tutto nuova nel
genere umano, piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine. Rarissimamente
congiunge due cuori insieme, abbracciando l'uno e l'altro a un medesimo tempo, e inducendo
scambievole ardore e desiderio in ambedue; benché pregatone con grandissima instanza da
tutti coloro che egli occupa: ma Giove non gli consente di compiacerli, trattone alcuni
pochi; perché la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve intervallo
superata dalla divina. A ogni modo, l'essere pieni del suo nume vince per sé qualunque
più fortunata condizione fosse in alcun uomo ai migliori tempi. Dove egli si posa,
dintorno a quello si aggirano, invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già
segregate dalla consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per questo effetto in
sulla terra, permettendolo Giove, né potendo essere vietato dalla Verità, quantunque
inimicissima a quei fantasmi, e nell'animo grandemente offesa del loro ritorno: ma non è
dato alla natura dei geni di contrastare agli Dei. E siccome i fati lo dotarono di
fanciullezza eterna, quindi esso, convenientemente a questa sua natura, adempie per
qualche modo quel primo voto degli uomini, che fu di essere tornati alla condizione della
puerizia. Perciocché negli animi che egli si elegge ad abitare, suscita e rinverdisce per
tutto il tempo che egli vi siede, l'infinita speranza e le belle e care immaginazioni
degli anni teneri. Molti mortali, inesperti e incapaci de' suoi diletti, lo scherniscono e
mordono tutto giorno, sì lontano come presente, con isfrenatissima audacia: ma esso non
ode i costoro obbrobri; e quando gli udisse, niun supplizio ne prenderebbe; tanto è da
natura magnanimo e mansueto. Oltre che gl'immortali, contenti della vendetta che prendono
di tutta la stirpe, e dell'insanabile miseria che la gastiga, non curano le singolari
offese degli uomini; né d'altro in particolare sono puniti i frodolenti e gl'ingiusti e i
dispregiatori degli Dei, che di essere alieni anche per proprio nome dalla grazia di
quelli.
Ercole. Padre Atlante, Giove mi manda, e vuole che io ti saluti da sua parte, e
in caso che tu fossi stracco di cotesto peso, che io me lo addossi per qualche ora, come
feci non mi ricordo quanti secoli sono, tanto che tu pigli fiato e ti riposi un poco.
Atlante. Ti ringrazio, caro Ercolino, e mi chiamo anche obbligato alla maestà di
Giove. Ma il mondo (n.2) è fatto così leggero, che questo
mantello che porto per custodirmi dalla neve, mi pesa più; e se non fosse che la volontà
di Giove mi sforza di stare qui fermo, e tenere questa pallottola sulla schiena, io me la
porrei sotto l'ascella o in tasca, o me l'attaccherei ciondolone a un pelo della barba, e
me n'andrei per le mie faccende.
Ercole. Come può stare che sia tanto alleggerita? Mi accorgo bene che ha mutato
figura, e che è diventata a uso delle pagnotte, e non è più tonda, come era al tempo
che io studiai la cosmografia per fare quella grandissima navigazione cogli Argonauti: ma
con tutto questo non trovo come abbia a pesare meno di prima.
Atlante. Della causa non so. Ma della leggerezza ch'io dico te ne puoi certificare
adesso adesso, solo che tu voglia torre questa sulla mano per un momento, e provare il
peso.
Ercole. In fe' d'Ercole, se io non avessi provato, io non poteva mai credere. Ma
che è quest'altra novità che vi scuopro? L'altra volta che io la portai, mi batteva
forte sul dosso, come fa il cuore degli animali; e metteva un certo rombo continuo, che
pareva un vespaio. Ma ora quanto al battere, si rassomiglia a un oriuolo che abbia rotta
la molla; e quanto al ronzare, io non vi odo un zitto.
Atlante. Anche di questo non ti so dire altro, se non ch'egli è già gran tempo,
che il mondo finì di fare ogni moto e ogni romore sensibile: e io per me stetti con
grandissimo sospetto che fosse morto, aspettandomi di giorno in giorno che m'infettasse
col puzzo; e pensava come e in che luogo lo potessi seppellire, e l'epitaffio che gli
dovessi porre. Ma poi veduto che non marciva, mi risolsi che di animale che prima era, si
fosse convertito in pianta, come Dafne e tanti altri; e che da questo nascesse che non si
moveva e non fiatava: e ancora dubito che fra poco non mi gitti le radici per le spalle, e
non vi si abbarbichi.
Ercole. Io piuttosto credo che dorma, e che questo sonno sia della qualità di
quello di Epimenide (n.3), che durò un mezzo secolo e più;
o come si dice di Ermotimo (n.4), che l'anima gli usciva del
corpo ogni volta che voleva, e stava fuori molti anni, andando a diporto per diversi
paesi, e poi tornava, finché gli amici per finire questa canzona, abbruciarono il corpo;
e così lo spirito ritornato per entrare, trovò che la casa gli era disfatta, e che se
voleva alloggiare al coperto, gliene conveniva pigliare un'altra a pigione, o andare
all'osteria. Ma per fare che il mondo non dorma in eterno, e che qualche amico o
benefattore, pensando che egli sia morto, non gli dia fuoco, io voglio che noi proviamo
qualche modo di risvegliarlo.
Atlante. Bene, ma che modo?
Ercole. Io gli farei toccare una buona picchiata di questa clava: ma dubito che lo
finirei di schiacciare, e che io non ne facessi una cialda; o che la crosta, atteso che
riesce così leggero, non gli sia tanto assottigliata, che egli mi scricchioli sotto il
colpo come un uovo. E anche non mi assicuro che gli uomini, che al tempo mio combattevano
a corpo a corpo coi leoni e adesso colle pulci, non tramortiscano dalla percossa tutti in
un tratto. Il meglio sarà ch'io posi la clava e tu il pastrano, e facciamo insieme alla
palla con questa sferuzza. Mi dispiace ch'io non ho recato i bracciali o le racchette che
adoperiamo Mercurio ed io per giocare in casa di Giove o nell'orto: ma le pugna
basteranno.
Atlante. Appunto; acciocché tuo padre, veduto il nostro giuoco e venutogli voglia
di entrare in terzo, colla sua palla infocata ci precipiti tutti e due non so dove, come
Fetonte nel Po.
Ercole. Vero, se io fossi, come era Fetonte, figliuolo di un poeta, e non suo
figliuolo proprio; e non fossi anche tale, che se i poeti popolarono le città col suono
della lira, a me basta l'animo di spopolare il cielo e la terra a suono di clava. E la sua
palla, con un calcio che le tirassi, io la farei schizzare di qui fino all'ultima soffitta
del cielo empireo. Ma sta sicuro che quando anche mi venisse fantasia di sconficcare
cinque o sei stelle per fare alle castelline, o di trarre al bersaglio con una cometa,
come con una fromba, pigliandola per la coda, o pure di servirmi proprio del sole per fare
il giuoco del disco, mio padre farebbe le viste di non vedere. Oltre che la nostra
intenzione con questo giuoco e di far bene al mondo, e non come quella di Fetonte, che fu
di mostrarsi leggero della persona alle Ore, che gli tennero il montatoio quando salì sul
carro; e di acquistare opinione di buon cocchiere con Andromeda e Callisto e colle altre
belle costellazioni, alle quali è voce che nel passare venisse gittando mazzolini di
raggi e pallottoline di luce confettate; e di fare una bella mostra di sé tra gli Dei del
cielo nel passeggio di quel giorno, che era di festa. In somma, della collera di mio padre
non te ne dare altro pensiero, che io m'obbligo, in ogni caso, a rifarti i danni; e senza
più cavati il cappotto e manda la palla.
Atlante. O per grado o per forza, mi converrà fare a tuo modo; perché tu sei
gagliardo e coll'arme, e io disarmato e vecchio. Ma guarda almeno di non lasciarla cadere,
che non se le aggiungessero altri bernoccoli, o qualche parte se le ammaccasse, o
crepasse, come quando la Sicilia si schiantò dall'Italia e l'Affrica dalla Spagna; o non
ne saltasse via qualche scheggia, come a dire una provincia o un regno, tanto che ne
nascesse una guerra.
Ercole. Per la parte mia non dubitare.
Atlante. A te la palla. Vedi che ella zoppica, perché l'è guasta la figura.
Ercole. Via dàlle un po' più sodo, ché le tue non arrivano.
Atlante. Qui la botta non vale, perché ci tira garbino al solito, e la palla
piglia vento, perch'è leggera.
Ercole. Cotesta è sua pecca vecchia, di andare a caccia del vento.
Atlante. In verità non saria mal fatto che ne la gonfiassimo, che veggo che ella
non balza d'in sul pugno più che un popone.
Ercole. Cotesto è difetto nuovo, che anticamente ella balzava e saltava come un
capriolo.
Atlante. Corri presto in là; presto ti dico; guarda per Dio, ch'ella cade: mal
abbia il momento che tu ci sei venuto.
Ercole. Così falsa e terra terra me l'hai rimessa, che io non poteva essere a
tempo se m'avessi voluto fiaccare il collo. Oimè, poverina, come stai? ti senti male a
nessuna parte? Non s'ode un fiato e non si vede muovere un'anima e mostra che tutti
dormano come prima.
Atlante. Lasciamela per tutte le corna dello Stige, che io me la raccomodi sulle
spalle; e tu ripiglia la clava, e torna subito in cielo a scusarmi con Giove di questo
caso, ch'è seguito per tua cagione.
Ercole. Così farò. È molti secoli che sta in casa di mio padre un certo poeta,
di nome Orazio, ammessoci come poeta di corte ad instanza di Augusto, che era stato
deificato da Giove per considerazioni che si dovettero avere alla potenza dei Romani.
Questo poeta va canticchiando certe sue canzonette, e fra l'altre una dove dice che l'uomo
giusto non si muove se ben cade il mondo. Crederò che oggi tutti gli uomini sieno giusti,
perché il mondo è caduto, e niuno s'è mosso.
Atlante. Chi dubita della giustizia degli uomini? Ma tu non istare a perder più
tempo, e corri su presto a scolparmi con tuo padre, ché io m'aspetto di momento in
momento un fulmine che mi trasformi di Atlante in Etna.
DIALOGO DELLA MODA E DELLA MORTE
Moda. Madama Morte, madama Morte.
Morte. Aspetta che sia l'ora, e verrò senza che tu mi chiami.
Moda. Madama Morte.
Morte. Vattene col diavolo. Verrò quando tu non vorrai.
Moda. Come se io non fossi immortale.
Morte. Immortale? Passato è già più che 'lmillesim'anno che sono finiti i tempi
degl'immortali.
Moda. Anche Madama petrarcheggia come fosse un lirico italiano del cinque o
dell'ottocento?
Morte. Ho care le rime del Petrarca, perché vi trovo il mio Trionfo, e perché
parlano di me quasi da per tutto. Ma in somma levamiti d'attorno.
Moda. Via, per l'amore che tu porti ai sette vizi capitali, fermati tanto o quanto,
e guardami.
Morte. Ti guardo.
Moda. Non mi conosci?
Morte. Dovresti sapere che ho mala vista, e che non posso usare occhiali, perché
gl'Inglesi non ne fanno che mi valgano, e quando ne facessero, io non avrei dove me
gl'incavalcassi.
Moda. Io sono la Moda, tua sorella.
Morte. Mia sorella?
Moda. Sì: non ti ricordi che tutte e due siamo nate dalla Caducità?
Morte. Che m'ho a ricordare io che sono nemica capitale della memoria.
Moda. Ma io me ne ricordo bene; e so che l'una e l'altra tiriamo parimente a
disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù, benché tu vadi a questo effetto per
una strada e io per un'altra.
Morte. In caso che tu non parli col tuo pensiero o con persona che tu abbi dentro
alla strozza, alza più la voce e scolpisci meglio le parole; che se mi vai borbottando
tra' denti con quella vocina da ragnatelo, io t'intenderò domani, perché l'udito, se non
sai, non mi serve meglio che la vista.
Moda. Benché sia contrario alla costumatezza, e in Francia non si usi di parlare
per essere uditi, pure perché siamo sorelle, e tra noi possiamo fare senza troppi
rispetti, parlerò come tu vuoi. Dico che la nostra natura e usanza comune è di rinnovare
continuamente il mondo, ma tu fino da principio ti gittasti alle persone e al sangue; io
mi contento per lo più delle barbe, dei capelli, degli abiti, delle masserizie, dei
palazzi e di cose tali. Ben è vero che io non sono però mancata e non manco di fare
parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia sforacchiare quando orecchi,
quando labbra e nasi, e stracciarli colle bazzecole che io v'appicco per li fori;
abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi che io fo che essi v'improntino
per bellezza; sformare le teste dei bambini con fasciature e altri ingegni, mettendo per
costume che tutti gli uomini del paese abbiano a portare il capo di una figura, come ho
fatto in America e in Asia (n.5); storpiare la gente colle
calzature snelle; chiuderle il fiato e fare che gli occhi le scoppino dalla strettura dei
bustini; e cento altre cose di questo andare. Anzi generalmente parlando, io persuado e
costringo tutti gli uomini gentili a sopportare ogni giorno mille fatiche e mille disagi,
e spesso dolori e strazi, e qualcuno a morire gloriosamente, per l'amore che mi portano.
Io non vo' dire nulla dei mali di capo, delle infreddature, delle flussioni di ogni sorta,
delle febbri quotidiane, terzane, quartane, che gli uomini si guadagnano per ubbidirmi,
consentendo di tremare dal freddo o affogare dal caldo secondo che io voglio, difendersi
le spalle coi panni lani e il petto con quei di tela, e fare di ogni cosa a mio modo
ancorché sia con loro danno.
Morte. In conclusione io ti credo che mi sii sorella e, se tu vuoi, l'ho per più
certo della morte, senza che tu me ne cavi la fede del parrocchiano.' Ma stando così
ferma, io svengo; e però, se ti dà l'animo di corrermi allato, fa di non vi crepare,
perch'io fuggo assai, e correndo mi potrai dire il tuo bisogno; se no, a contemplazione
della parentela, ti prometto, quando io muoia, di lasciarti tutta la mia roba, e rimanti
col buon anno.
Moda. Se noi avessimo a correre insieme il palio, non so chi delle due si vincesse
la prova, perché se tu corri, io vo meglio che di galoppo; e a stare in un luogo, se tu
ne svieni, io me ne struggo. Sicché ripigliamo a correre, e correndo, come tu dici,
parleremo dei casi nostri.
Morte. Sia con buon'ora. Dunque poiché tu sei nata dal corpo di mia madre, saria
conveniente che tu mi giovassi in qualche modo a fare le mie faccende.
Moda. Io l'ho fatto già per l'addietro più che non pensi. Primieramente io che
annullo o stravolgo per lo continuo tutte le altre usanze, non ho mai lasciato smettere in
nessun luogo la pratica di morire, e per questo vedi che ella dura universalmente insino a
oggi dal principio del mondo.
Morte. Gran miracolo, che tu non abbi fatto quello che non hai potuto!
Moda. Come non ho potuto? Tu mostri di non conoscere la potenza della moda.
Morte. Ben bene: di cotesto saremo a tempo a discorrere quando sarà venuta
l'usanza che non si muoia. Ma in questo mezzo io vorrei che tu da buona sorella,
m'aiutassi a ottenere il contrario più facilmente e più presto che non ho fatto finora.
Moda. Già ti ho raccontate alcune delle opere mie che ti fanno molto profitto. Ma
elle sono baie per comparazione a queste che io ti vo' dire. A poco per volta, ma il più
in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le fatiche
e gli esercizi che giovano al ben essere corporale, e introdottone o recato in pregio
innumerabili che abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho
messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del
corpo come dell'animo, e più morta che viva; tanto che questo secolo si può dire con
verità che sia proprio il secolo della morte. E quando che anticamente tu non avevi altri
poderi che fosse e caverne, dove tu seminavi ossami e polverumi al buio, che sono semenze
che non fruttano; adesso hai terreni al sole; e genti che si muovono e che vanno attorno
co' loro piedi, sono roba, si può dire, di tua ragione libera, ancorché tu non le abbi
mietute, anzi subito che elle nascono. Di più, dove per l'addietro solevi essere odiata e
vituperata, oggi per opera mia le cose sono ridotte in termine che chiunque ha intelletto
ti pregia e loda, anteponendoti alla vita, e ti vuol tanto bene che sempre ti chiama e ti
volge gli occhi come alla sua maggiore speranza. Finalmente perch'io vedeva che molti si
erano vantati di volersi fare immortali, cioè non morire interi, perché una buona parte
di sé non ti sarebbe capitata sotto le mani, io quantunque sapessi che queste erano
ciance, e che quando costoro o altri vivessero nella memoria degli uomini, vivevano, come
dire, da burla, e non godevano della loro fama più che si patissero dell'umidità della
sepoltura; a ogni modo intendendo che questo negozio degl'immortali ti scottava, perché
parea che ti scemasse l'onore e la riputazione, ho levata via quest'usanza di cercare
l'immortalità, ed anche di concederla in caso che pure alcuno la meritasse. Di modo che
al presente, chiunque si muoia, sta sicura che non ne resta un briciolo che non sia morto,
e che gli conviene andare subito sotterra tutto quanto, come un pesciolino che sia
trangugiato in un boccone con tutta la testa e le lische. Queste cose, che non sono poche
né piccole, io mi trovo aver fatte finora per amor tuo, volendo accrescere il tuo stato
nella terra, com'è seguito. E per quest'effetto sono disposta a far ogni giorno
altrettanto e più; colla quale intenzione ti sono andata cercando; e mi pare a proposito
che noi per l'avanti non ci partiamo dal fianco l'una dell'altra, perché stando sempre in
compagnia, potremo consultare insieme secondo i casi, e prendere migliori partiti che
altrimenti, come anche mandarli meglio ad esecuzione.
Morte. Tu dici il vero, e così voglio che facciamo.
PROPOSTA DI PREMI
FATTA DALL'ACCADEMIA DEI SILLOGRAFI
L'Accademia dei Sillografi attendendo di continuo, secondo il suo principale instituto, a procurare con ogni suo sforzo l'utilità comune, e stimando niuna cosa essere più conforme a questo proposito che aiutare e promuovere gli andamenti e le inclinazioni
Del fortunato secolo in cui siamo,
come dice un poeta illustre; ha tolto a considerare diligentemente le qualità e
l'indole del nostro tempo, e dopo lungo e maturo esame si è risoluta di poterlo chiamare
l'età delle macchine, non solo perché gli uomini di oggidì procedono e vivono forse
più meccanicamente di tutti i passati, ma eziandio per rispetto al grandissimo numero
delle macchine inventate di fresco ed accomodate o che si vanno tutto giorno trovando ed
accomodando a tanti e così vari esercizi, che oramai non gli uomini ma le macchine, si
può dire, trattano le cose umane e fanno le opere della vita. Del che la detta Accademia
prende sommo piacere, non tanto per le comodità manifeste che ne risultano, quanto per
due considerazioni che ella giudica essere importantissime, quantunque comunemente non
avvertite. L'una si è che ella confida dovere in successo di tempo gli uffici e gli usi
delle macchine venire a comprendere oltre le cose materiali, anche le spirituali; onde
nella guisa che per virtù di esse macchine siamo già liberi e sicuri dalle offese dei
fulmini e delle grandini, e da molti simili mali e spaventi, così di mano in mano si
abbiano a ritrovare, per modo di esempio (e facciasi grazia alla novità dei nomi),
qualche parainvidia, qualche paracalunnie o paraperfidia o parafrodi, qualche filo di
salute o altro ingegno che ci scampi dall'egoismo, dal predominio della mediocrità, dalla
prospera fortuna degl'insensati, de' ribaldi e de' vili, dall'universale noncuranza e
dalla miseria de' saggi, de' costumati e de' magnanimi, e dagli altri sì fatti incomodi,
i quali da parecchi secoli in qua sono meno possibili a distornare che già non furono gli
effetti dei fulmini e delle grandini. L'altra cagione e la principale si è che disperando
la miglior parte dei filosofi di potersi mai curare i difetti del genere umano, i quali,
come si crede, sono assai maggiori e in più numero che le virtù; e tenendosi per certo
che sia piuttosto possibile di rifarlo del tutto in una nuova stampa, o di sostituire in
suo luogo un altro, che di emendarlo; perciò l'Accademia dei Sillografi reputa essere
espedientissimo che gli uomini si rimuovano dai negozi della vita il più che si possa, e
che a poco a poco dieno luogo, sottentrando le macchine in loro scambio. E deliberata di
concorrere con ogni suo potere al progresso di questo nuovo ordine delle cose, propone per
ora tre premi a quelli che troveranno le tre macchine infrascritte.
L'intento della prima sarà di fare le
parti e la persona di un amico, il quale non biasimi e non motteggi l'amico assente; non
lasci di sostenerlo quando l'oda riprendere o porre in giuoco; non anteponga la fama di
acuto e di mordace, e l'ottenere il riso degli uomini, al debito dell'amicizia; non
divulghi, o per altro effetto o per aver materia da favellare o da ostentarsi, il segreto
commessogli; non si prevalga della familiarità e della confidenza dell'amico a
soppiantarlo e soprammontarlo più facilmente; non porti invidia ai vantaggi di quello;
abbia cura del suo bene e di ovviare o di riparare a' suoi danni, e sia pronto alle sue
domande e a' suoi bisogni, altrimenti che in parole. Circa le altre cose nel comporre
questo automato si avrà l'occhio ai trattati di Cicerone e della Marchesa di Lambert
sopra l'amicizia. L'Accademia pensa che l'invenzione di questa così fatta macchina non
debba essere giudicata né impossibile, né anche oltre modo difficile, atteso che,
lasciando da parte gli automati del Regiomontano, del Vaucanson e di altri, e quello che
in Londra disegnava figure e ritratti, e scriveva quanto gli era dettato da chiunque si
fosse; più d'una macchina si e veduta che giocava agli scacchi per sé medesima. Ora a
giudizio di molti savi, la vita umana è un giuoco, ed alcuni affermano che ella è cosa
ancora più lieve, e che tra le altre, la forma del giuoco degli scacchi è più secondo
ragione, e i casi più prudentemente ordinati che non sono quelli di essa vita. La quale
oltre a ciò, per detto di Pindaro, non essendo cosa di più sostanza che un sogno di
un'ombra, ben debbe esserne capace la veglia di un automato. Quanto alla favella, pare che
non si possa volgere in dubbio che gli uomini abbiano facoltà di comunicarla alle
macchine che essi formano, conoscendosi questa cosa da vari esempi, e in particolare da
ciò che si legge della statua di Mennone e della testa fabbricata da Alberto magno, la
quale era sì loquace, che perciò san Tommaso di Aquino, venutagli in odio, la ruppe. E
se il pappagallo di Nevers (n.6), con tutto che fosse una
bestiolina, sapeva rispondere e favellare a proposito, quanto maggiormente è da credere
che possa fare questi medesimi effetti una macchina immaginata dalla mente dell'uomo e
construtta dalle sue mani; la quale già non debbe essere così linguacciuta come il
pappagallo di Nevers ed altri simili che si veggono e odono tutto giorno, né come la
testa fatta da Alberto Magno, non le convenendo infastidire l'amico e muoverlo a
fracassarla. L'inventore di questa macchina riporterà in premio una medaglia d'oro di
quattrocento zecchini di peso, la quale da una banda rappresenterà le immagini di Pilade
e di Oreste, dall'altra il nome del premiato col titolo: PRIMO VERIFICATORE
DELLE FAVOLE ANTICHE.
La seconda macchina vuol essere un uomo
artificiale a vapore, atto e ordinato a fare opere virtuose e magnanime. L'Accademia
reputa che i vapori, poiché altro mezzo non pare che vi si trovi, debbano essere di
profitto a infervorare un semovente e indirizzarlo agli esercizi della virtù e della
gloria. Quegli che intraprenderà di fare questa macchina, vegga i poemi e i romanzi,
secondo i quali si dovrà governare circa le qualità e le operazioni che si richieggono a
questo automato. Il premio sarà una medaglia d'oro di quattrocento cinquanta zecchini di
peso, stampatavi in sul ritto qualche immaginazione significativa della età d'oro e in
sul rovescio il nome dell'inventore della macchina con questo titolo ricavato dalla quarta
egloga di Virgilio, QVO FERREA PRIMVM DESINET AC TOTO SVRGET GENS AVREA
MVNDO.
La terza macchina debbe essere disposta a
fare gli uffici di una donna conforme a quella immaginata, parte dal conte Baldassar
Castiglione, il quale descrisse il suo concetto nel libro del Cortegiano, parte da altri,
i quali ne ragionarono in vari scritti che si troveranno senza fatica, e si avranno a
consultare e seguire, come eziandio quello del Conte. Né anche l'invenzione di questa
macchina dovrà parere impossibile agli uomini dei nostri tempi, quando pensino che
Pigmalione in tempi antichissimi ed alieni dalle scienze si poté fabbricare la sposa
colle proprie mani, la quale si tiene che fosse la miglior donna che sia stata insino al
presente. Assegnasi all'autore di questa macchina una medaglia d'oro in peso di
cinquecento zecchini, in sulla quale sarà figurata da una faccia l'araba fenice del
Metastasio posata sopra una pianta di specie europea, dall'altra parte sarà scritto il
nome del premiato col titolo: INVENTORE DELLE DONNE FEDELI E DELLA
FELICITÀ CONIUGALE.
L'Accademia ha decretato che alle spese
che occorreranno per questi premi, suppliscasi con quanto fu ritrovato nella sacchetta di
Diogene, stato segretario di essa Accademia, o con uno dei tre asini d'oro che furono di
tre Accademici sillografi, cioè a dire di Apuleio, del Firenzuola e del Macchiavelli;
tutte le quali robe pervennero ai Sillografi per testamento dei suddetti, come si legge
nella storia dell'Accademia.
DIALOGO DI UN FOLLETTO E DI UNO GNOMO
Folletto. Oh sei tu qua, figliuolo di Sabazio? Dove si va?
Gnomo. Mio padre m'ha spedito a raccapezzare che diamine si vadano macchinando
questi furfanti degli uomini; perché ne sta con gran sospetto, a causa che da un pezzo in
qua non ci danno briga, e in tutto il suo regno non se ne vede uno. Dubita che non gli
apparecchino qualche gran cosa contro, se però non fosse tornato in uso il vendere e
comperare a pecore, non a oro e argento; o se i popoli civili non si contentassero di
polizzine per moneta, come hanno fatto più volte, o di paternostri di vetro, come fanno i
barbari; o se pure non fossero state ravvalorate le leggi di Licurgo, che gli pare il meno
credibile.
Folletto. Voi gli aspettate invan: son tutti morti, diceva la chiusa di una
tragedia dove morivano tutti i personaggi.
Gnomo. Che vuoi tu inferire?
Folletto. Voglio inferire che gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta.
Gnomo. Oh cotesto è caso da gazzette. Ma pure fin qui non s'è veduto che ne
ragionino.
Folletto. Sciocco, non pensi che, morti gli uomini, non si stampano più gazzette?
Gnomo. Tu dici il vero. Or come faremo a sapere le nuove del mondo?
Folletto. Che nuove? che il sole si è levato o coricato, che fa caldo o freddo,
che qua o là è piovuto o nevicato o ha tirato vento? Perché, mancati gli uomini, la
fortuna si ha cavato via la benda, e messosi gli occhiali e appiccato la ruota a un
arpione, se ne sta colle braccia in croce a sedere, guardando le cose del mondo senza più
mettervi le mani; non si trova più regni né imperi che vadano gonfiando e scoppiando
come le bolle, perché sono tutti sfumati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si
assomigliano l'uno all'altro come uovo a uovo.
Gnomo. Né anche si potrà sapere a quanti siamo del mese, perché non si
stamperanno più lunari.
Folletto. Non sarà gran male, che la luna per questo non fallirà la strada.
Gnomo. E i giorni della settimana non avranno più nome.
Folletto. Che, hai paura che se tu non li chiami per nome, che non vengano? o forse
ti pensi, poiché sono passati, di farli tornare indietro se tu li chiami?
Gnomo. E non si potrà tenere il conto degli anni.
Folletto. Così ci spacceremo per giovani anche dopo il tempo; e non misurando
l'età passata, ce ne daremo meno affanno, e quando saremo vecchissimi non istaremo
aspettando la morte di giorno in giorno.
Gnomo. Ma come sono andati a mancare quei monelli?
Folletto. Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l'un
l'altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell'ozio, parte
stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in
fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male.
Gnomo. A ogni modo, io non mi so dare ad intendere che tutta una specie di animali
si possa perdere di pianta, come tu dici.
Folletto. Tu che sei maestro in geologia, dovresti sapere che il caso non è nuovo,
e che varie qualità di bestie si trovarono anticamente che oggi non si trovano, salvo
pochi ossami impietriti. E certo che quelle povere creature non adoperarono niuno di tanti
artifizi che, come io ti diceva, hanno usato gli uomini per andare in perdizione.
Gnomo. Sia come tu dici. Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia
risuscitassero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia
dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che
tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli.
Folletto. E non volevano intendere che egli è fatto e mantenuto per li folletti.
Gnomo. Tu folleggi veramente, se parli sul sodo.
Folletto. Perché? io parlo bene sul sodo.
Gnomo. Eh, buffoncello, va via. Chi non sa che il mondo e fatto per gli gnomi?
Folletto. Per gli gnomi, che stanno sempre sotterra? Oh questa e la più bella che
si possa udire. Che fanno agli gnomi il sole, la luna, l'aria, il mare, le campagne?
Gnomo. Che fanno ai folletti le cave d'oro e d'argento, e tutto il corpo della
terra fuor che la prima pelle?
Folletto. Ben bene, o che facciano o che non facciano, lasciamo stare questa
contesa, che io tengo per fermo che anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto
il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie. E però ciascuno si rimanga col suo
parere, che niuno glielo caverebbe di capo: e per parte mia ti dico solamente questo, che
se non fossi nato folletto, io mi dispererei.
Gnomo. Lo stesso accadrebbe a me se non fossi nato gnomo. Ora io saprei volentieri
quel che direbbero gli uomini della loro presunzione, per la quale, tra l'altre cose che
facevano a questo e a quello, s'inabissavano le mille braccia sotterra e ci rapivano per
forza la roba nostra, dicendo che ella si apparteneva al genere umano, e che la natura
gliel'aveva nascosta e sepolta laggiù per modo di burla, volendo provare se la
troverebbero e la potrebbero cavar fuori.
Folletto. Che maraviglia? quando non solamente si persuadevano che le cose del
mondo non avessero altro uffizio che di stare al servigio loro, ma facevano conto che
tutte insieme, allato al genere umano, fossero una bagattella. E però le loro proprie
vicende le chiamavano rivoluzioni del mondo, e le storie delle loro genti, storie del
mondo: benché si potevano numerare, anche dentro ai termini della terra, forse tante
altre specie, non dico di creature, ma solamente di animali, quanti capi d'uomini vivi: i
quali animali, che erano fatti espressamente per coloro uso, non si accorgevano però mai
che il mondo si rivoltasse.
Gnomo. Anche le zanzare e le pulci erano fatte per benefizio degli uomini?
Folletto. Sì erano; cioè per esercitarli nella pazienza, come essi dicevano.
Gnomo. In verità che mancava loro occasione di esercitar la pazienza, se non erano
le pulci.
Folletto. Ma i porci, secondo Crisippo (n.7), erano
pezzi di carne apparecchiati dalla natura a posta per le cucine e le dispense degli
uomini, e, acciocché non imputridissero, conditi colle anime in vece di sale.
Gnomo. Io credo in contrario che se Crisippo avesse avuto nel cervello un poco di
sale in vece dell'anima, non avrebbe immaginato uno sproposito simile.
Folletto. E anche quest'altra è piacevole; che infinite specie di animali non sono
state mai viste né conosciute dagli uomini loro padroni; o perché elle vivono in luoghi
dove coloro non misero mai piede, o per essere tanto minute che essi in qualsivoglia modo
non le arrivavano a scoprire. E di moltissime altre specie non se ne accorsero prima degli
ultimi tempi. Il simile si può dire circa al genere delle piante, e a mille altri.
Parimente di tratto in tratto, per via de' loro cannocchiali, si avvedevano di qualche
stella o pianeta, che insino allora, per migliaia e migliaia d'anni, non avevano mai
saputo che fosse al mondo; e subito lo scrivevano tra le loro masserizie: perché
s'immaginavano che le stelle e i pianeti fossero, come dire, moccoli da lanterna piantati
lassù nell'alto a uso di far lume alle signorie loro, che la notte avevano gran faccende.
Gnomo. Sicché in tempo di state, quando vedevano cadere di quelle fiammoline che
certe notti vengono giù per l'aria, avranno detto che qualche spirito andava smoccolando
le stelle per servizio degli uomini.
Folletto. Ma ora che ei sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla,
e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla
navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi.
Gnomo. E le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno
preso le gramaglie.
Folletto. E il sole non s'ha intonacato il viso di ruggine; come fece, secondo
Virgilio, per la morte di Cesare: della quale io credo ch'ei si pigliasse tanto affanno
quanto ne pigliò la statua di Pompeo.
DIALOGO DI MALAMBRUNO E DI FARFARELLO
Malambruno. Spiriti d'abisso, Farfarello, Ciriatto, Baconero, Astarotte,
Alichino, e comunque siete chiamati; io vi scongiuro nel nome di Belzebù, e vi comando
per la virtù dell'arte mia, che può sgangherare la luna, e inchiodare il sole a mezzo il
cielo: venga uno di voi con libero comando del vostro principe e piena potestà di usare
tutte le forze dell'inferno in mio servigio.
Farfarello. Eccomi.
Malambruno. Chi sei?
Farfarello. Farfarello, a' tuoi comandi.
Malambruno. Rechi il mandato di Belzebù?
Farfarello. Sì recolo; e posso fare in tuo servigio tutto quello che potrebbe il
Re proprio, e più che non potrebbero tutte l'altre creature insieme.
Malambruno. Sta bene. Tu m'hai da contentare d'un desiderio.
Farfarello. Sarai servito. Che vuoi? nobiltà maggiore di quella degli Atridi?
Malambruno. No.
Farfarello. Più ricchezze di quelle che si troveranno nella città di Manoa (n.8) quando sarà scoperta?
Malambruno. No.
Farfarello. Un impero grande come quello che dicono che Carlo quinto si sognasse
una notte?
Malambruno. No.
Farfarello. Recare alle tue voglie una donna più salvatica di Penelope?
Malambruno. No. Ti par egli che a cotesto ci bisognasse il diavolo?
Farfarello. Onori e buona fortuna così ribaldo come sei?
Malambruno. Piuttosto mi bisognerebbe il diavolo se volessi il contrario.
Farfarello. In fine, che mi comandi?
Malambruno. Fammi felice per un momento di tempo.
Farfarello. Non posso.
Malambruno. Come non puoi?
Farfarello. Ti giuro in coscienza che non posso.
Malambruno. In coscienza di demonio da bene.
Farfarello. Sì certo. Fa conto che vi sia de' diavoli da bene come v'è degli
uomini.
Malambruno. Ma tu fa conto che io t'appicco qui per la coda a una di queste travi,
se tu non mi ubbidisci subito senza più parole.
Farfarello. Tu mi puoi meglio ammazzare, che non io contentarti di quello che tu
domandi.
Malambruno. Dunque ritorna tu col mal anno, e venga Belzebù in persona.
Farfarello. Se anco viene Belzebù con tutta la Giudecca e tutte le Bolge, non
potrà farti felice né te né altri della tua specie, più che abbia potuto io.
Malambruno. Né anche per un momento solo?
Farfarello. Tanto è possibile per un momento, anzi per la metà di un momento, e
per la millesima parte; quanto per tutta la vita.
Malambruno. Ma non potendo farmi felice in nessuna maniera, ti basta l'animo almeno
di liberarmi dall'infelicità?
Farfarello. Se tu puoi fare di non amarti supremamente.
Malambruno. Cotesto lo potrò dopo morto.
Farfarello. Ma in vita non lo può nessun animale: perché la vostra natura vi
comporterebbe prima qualunque altra cosa, che questa.
Malambruno. Così è.
Farfarello. Dunque, amandoti necessariamente del maggiore amore che tu sei capace,
necessariamente desideri il più che puoi la felicità propria; e non potendo mai di gran
lunga essere soddisfatto di questo tuo desiderio, che è sommo, resta che tu non possi
fuggire per nessun verso di non essere infelice.
Malambruno. Né anco nei tempi che io proverò qualche diletto; perché nessun
diletto mi farà né felice né pago.
Farfarello. Nessuno veramente.
Malambruno. E però, non uguagliando il desiderio naturale della felicità che mi
sta fisso nell'animo, non sarà vero diletto; e in quel tempo medesimo che esso è per
durare, io non lascerò di essere infelice.
Farfarello. Non lascerai: perché negli uomini e negli altri viventi la privazione
della felicità, quantunque senza dolore e senza sciagura alcuna, e anche nel tempo di
quelli che voi chiamate piaceri, importa infelicità espressa.
Malambruno. Tanto che dalla nascita insino alla morte, l'infelicità nostra non
può cessare per ispazio, non che altro, di un solo istante.
Farfarello. Sì: cessa, sempre che dormite senza sognare, o che vi coglie uno
sfinimento o altro che v'interrompa l'uso dei sensi.
Malambruno. Ma non mai però mentre sentiamo la nostra propria vita.
Farfarello. Non mai.
Malambruno. Di modo che, assolutamente parlando, il non vivere è sempre meglio del
vivere.
Farfarello. Se la privazione dell'infelicità è semplicemente meglio
dell'infelicità.
Malambruno. Dunque?
Farfarello. Dunque se ti pare di darmi l'anima prima del tempo, io sono qui pronto
per portarmela.
DIALOGO DELLA NATURA E DI UN'ANIMA
Natura. Va, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e chiamata per lungo
ordine di secoli. Vivi, e sii grande e infelice.
Anima. Che male ho io commesso prima di vivere, che tu mi condanni a cotesta pena?
Natura. Che pena, figliuola mia?
Anima. Non mi prescrivi tu di essere infelice?
Natura. Ma in quanto che io voglio che tu sii grande, e non si può questo senza
quello. Oltre che tu sei destinata a vivificare un corpo umano; e tutti gli uomini per
necessità nascono e vivono infelici.
Anima. Ma in contrario saria di ragione che tu provvedessi in modo, che eglino
fossero felici per necessità; o non potendo far questo, ti si converrebbe astenere da
porli al mondo.
Natura. Né l'una né l'altra cosa è in potestà mia, che sono sottoposta al fato;
il quale ordina altrimenti, qualunque se ne sia la cagione; che né tu né io non la
possiamo intendere. Ora, come tu sei stata creata e disposta a informare una persona
umana, già qualsivoglia forza, né mia né d'altri, non e potente a scamparti
dall'infelicità comune degli uomini. Ma oltre di questa, te ne bisognerà sostenere una
propria, e maggiore assai, per l'eccellenza della quale io t'ho fornita.
Anima. Io non ho ancora appreso nulla; cominciando a vivere in questo punto: e da
ciò dee provenire ch'io non t'intendo. Ma dimmi, eccellenza e infelicità straordinaria
sono sostanzialmente una cosa stessa? o quando sieno due cose, non le potresti tu
scompagnare l'una dall'altra?
Natura. Nelle anime degli uomini, e proporzionatamente in quelle di tutti i generi
di animali, si può dire che l'una e l'altra cosa sieno quasi il medesimo: perché
l'eccellenza delle anime importa maggiore intensione della loro vita; la qual cosa importa
maggior sentimento dell'infelicità propria; che e come se io dicessi maggiore
infelicità. Similmente la maggior vita degli animi inchiude maggiore efficacia di amor
proprio, dovunque esso s'inclini, e sotto qualunque volto si manifesti: la qual
maggioranza di amor proprio importa maggior desiderio di beatitudine, e però maggiore
scontento e affanno di esserne privi, e maggior dolore delle avversità che sopravvengono.
Tutto questo è contenuto nell'ordine primigenio e perpetuo delle cose create, il quale io
non posso alterare. Oltre di ciò, la finezza del tuo proprio intelletto, e la vivacità
dell'immaginazione, ti escluderanno da una grandissima parte della signoria di te stessa.
Gli animali bruti usano agevolmente ai fini che eglino si propongono, ogni loro facoltà e
forza. Ma gli uomini rarissime volte fanno ogni loro potere; impediti ordinariamente dalla
ragione e dall'immaginativa; le quali creano mille dubbietà nel deliberare, e mille
ritegni nell'eseguire. I meno atti o meno usati a ponderare e considerare seco medesimi,
sono i più pronti al risolversi, e nell'operare i più efficaci. Ma le tue pari,
implicate continuamente in loro stesse, e come soverchiate dalla grandezza delle proprie
facoltà, e quindi impotenti di se medesime, soggiacciono il più del tempo
all'irresoluzione, così deliberando come operando: la quale è l'uno dei maggiori
travagli che affliggano la vita umana. Aggiungi che mentre per l'eccellenza delle tue
disposizioni trapasserai facilmente e in poco tempo, quasi tutte le altre della tua specie
nelle conoscenze più gravi, e nelle discipline anco difficilissime, nondimeno ti
riuscirà sempre o impossibile o sommamente malagevole di apprendere o di porre in pratica
moltissime cose menome in sé, ma necessarissime al conversare cogli altri uomini; le
quali vedrai nello stesso tempo esercitare perfettamente ed apprendere senza fatica da
mille ingegni, non solo inferiori a te, ma spregevoli in ogni modo. Queste ed altre
infinite difficoltà e miserie occupano e circondano gli animi grandi. Ma elle sono
ricompensate abbondantemente dalla fama, dalle lodi e dagli onori che frutta a questi
egregi spiriti la loro grandezza, e dalla durabilità della ricordanza che essi lasciano
di sé ai loro posteri.
Anima. Ma coteste lodi e cotesti onori che tu dici, gli avrò io dal cielo, o da
te, o da chi altro?
Natura. Dagli uomini: perché altri che essi non li può dare.
Anima. Ora vedi, io mi pensava che non sapendo fare quello che è necessarissimo,
come tu dici, al commercio cogli altri uomini, e che riesce anche facile insino ai più
poveri ingegni; io fossi per essere vilipesa e fuggita, non che lodata, dai medesimi
uomini; o certo fossi per vivere sconosciuta a quasi tutti loro, come inetta al consorzio
umano.
Natura. A me non è dato prevedere il futuro, né quindi anche prenunziarti
infallibilmente quello che gli uomini sieno per fare e pensare verso di te mentre sarai
sulla terra. Ben è vero che dall'esperienza del passato io ritraggo per lo più
verisimile. che essi ti debbano perseguitare coll'invidia; la quale è un'altra calamità
solita di farsi incontro alle anime eccelse; ovvero ti sieno per opprimere col dispregio e
la noncuranza. Oltre che la stessa fortuna, e il caso medesimo, sogliono essere inimici
delle tue simili. Ma subito dopo la morte, come avvenne ad uno chiamato Camoens, o al più
di quivi ad alcuni anni, come accadde a un altro chiamato Milton, tu sarai celebrata e
levata al cielo, non dirò da tutti, ma, se non altro, dal piccolo numero degli uomini di
buon giudizio. E forse le ceneri della persona nella quale tu sarai dimorata, riposeranno
in sepoltura magnifica; e le sue fattezze, imitate in diverse guise, andranno per le mani
degli uomini; e saranno descritti da molti, e da altri mandati a memoria con grande
studio, gli accidenti della sua vita; e in ultimo, tutto il mondo civile sarà pieno del
nome suo. Eccetto se dalla malignità della fortuna, o dalla soprabbondanza medesima delle
tue facoltà, non sarai stata perpetuamente impedita di mostrare agli uomini alcun
proporzionato segno del tuo valore: di che non sono mancati per verità molti esempi, noti
a me sola ed al fato.
Anima. Madre mia, non ostante l'essere ancora priva delle altre cognizioni, io
sento tuttavia che il maggiore, anzi il solo desiderio che tu mi hai dato, è quello della
felicità. E posto che io sia capace di quel della gloria, certo non altrimenti posso
appetire questo non so se io mi dica bene o male, se non solamente come felicità, o come
utile ad acquistarla. Ora, secondo le tue parole, l'eccellenza della quale tu m'hai
dotata, ben potrà essere o di bisogno o di profitto al conseguimento della gloria; ma non
però mena alla beatitudine, anzi tira violentemente all'infelicità. Né pure alla stessa
gloria è credibile che mi conduca innanzi alla morte: sopraggiunta la quale, che utile o
che diletto mi potrà pervenire dai maggiori beni del mondo? E per ultimo, può facilmente
accadere, come tu dici, che questa sì ritrosa gloria, prezzo di tanta infelicità, non mi
venga ottenuta in maniera alcuna, eziandio dopo la morte. Di modo che dalle tue stesse
parole io conchiudo che tu, in luogo di amarmi singolarmente, come affermavi a principio,
mi abbi piuttosto in ira e malevolenza maggiore che non mi avranno gli uomini e la fortuna
mentre sarò nel mondo; poiché non hai dubitato di farmi così calamitoso dono come è
cotesta eccellenza che tu mi vanti. La quale Sarà l'uno dei principali ostacoli che mi
vieteranno di giungere al mio solo intento, cioè alla beatitudine.
Natura. Figliuola mia; tutte le anime degli uomini, come io ti diceva, sono
assegnate in preda all'infelicità, senza mia colpa. Ma nell'universale miseria della
condizione umana, e nell'infinita vanità di ogni suo diletto e vantaggio, la gloria è
giudicata dalla miglior parte degli uomini il maggior bene che sia concesso ai mortali, e
il più degno oggetto che questi possano proporre alle cure e alle azioni loro. Onde, non
per odio, ma per vera e speciale benevolenza che ti avea posta, io deliberai di prestarti
al conseguimento di questo fine tutti i sussidi che erano in mio potere.
Anima. Dimmi: degli animali bruti, che tu menzionavi, e per avventura alcuno
fornito di minore vitalità e sentimento che gli uomini?
Natura. Cominciando da quelli che tengono della pianta, tutti sono in cotesto, gli
uni più, gli altri meno, inferiori all'uomo; il quale ha maggior copia di vita, e maggior
sentimento, che niun altro animale; per essere di tutti i viventi il più perfetto.
Anima. Dunque alluogami, se tu m'ami, nel più imperfetto: o se questo non puoi,
spogliata delle funeste doti che mi nobilitano, fammi conforme al più stupido e insensato
spirito umano che tu producessi in alcun tempo.
Natura. Di cotesta ultima cosa io ti posso compiacere; e sono per farlo; poiché tu
rifiuti l'immortalità, verso la quale io t'aveva indirizzata.
Anima. E in cambio dell'immortalità, pregoti di accelerarmi la morte il più che
si possa.
Natura. Di cotesto conferirò col destino.
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 05 May 1998