Giacomo Leopardi
Frammenti
XXXVII.
"Odi Melisso..."
ALCETA | |
Odi,
Melisso: io vo contarti un sogno Di questa notte, che mi torna a mente In riveder la luna. Io me ne stava Alla finestra che risponde al prato, Guardando in alto: ed ecco allimprovviso Distaccasi la luna; e mi parea Che quanto nel cader sapprossimava, Tanto crescesse al guardo; infin che venne A dar di colpo in mezzo al prato; ed era Grande quanto una secchia, e di scintille Vomitava una nebbia, che stridea Sì forte come quando un carbon vivo Nellacqua immergi e spegni. Anzi a quel modo La luna, come ho detto, in mezzo al prato Si spegneva annerando a poco a poco, E ne fumavan lerbe intorno intorno. Allor mirando in ciel, vidi rimaso Come un barlume, o unorma, anzi una nicchia, Ondella fosse svelta; in cotal guisa, Chio nagghiacciava; e ancor non massicuro. |
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MELISSO | |
E ben hai che temer, che agevol cosa Fora cader la luna in sul tuo campo. |
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ALCETA | |
Chi sa? non veggiam noi spesso di state Cader le stelle? |
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MELISSO | |
Egli ci ha tante stelle, Che picciol danno è cader luna o laltra Di loro, e mille rimaner. Ma sola Ha questa luna in ciel, che da nessuno cader fu vista mai se non in sogno. |
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XXXVIII.
"Io qui vagando..."
Io
qui vagando al limitare intorno, Invan la pioggia invoco e la tempesta, Acciò che la ritenga al mio soggiorno. Pure il vento muggia nella foresta, E muggia tra le nubi il tuono errante, Pria che laurora in ciel fosse ridesta. O care nubi, o cielo, o terra, o piante, Parte la donna mia: pietà, se trova Pietà nel mondo un infelice amante. O turbine, or ti sveglia, or fate prova Di sommergermi, o nembi, insino a tanto Che il sole ad altre terre il dì rinnova. Sapre il ciel, cade il soffio, in ogni canto Posan lerbe e le frondi, e mabbarbaglia Le luci il crudo Sol pregne di pianto. |
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XXXIX.
"Spento il diurno raggio..."
Spento
il diurno raggio in occidente, E queto il fumo delle ville, e queta De cani era la voce e della gente; Quandella, volta allamorosa meta, Si ritrovò nel mezzo ad una landa Quanto fossaltra mai vezzosa e lieta. Spandeva il suo chiaror per ogni banda La sorella del sole, e fea dargento Gli arbori cha quel loco eran ghirlanda. I ramuscelli ivan cantando al vento, E in un con lusignol che sempre piagne Fra i tronchi un rivo fea dolce lamento. Limpido il mar da lungi, e le campagne E le foreste, e tutte ad una ad una Le cime si scoprian delle montagne. In questa ombra giacea la valle bruna, E i collicelli intorno rivestia Del suo candor la rugiadosa luna. Sola tenea la taciturna via La donna, e il vento che gli odori spande, Molle passar sul volto si sentia. Se lieta fosse, è van che tu dimande: Piacer prendea di quella vista, e il bene Che il cor le prometteva era più grande. Come fuggiste, o belle ore serene! Dilettevol quaggiù nullaltro dura, Né si ferma giammai, se non la spene. Ecco turbar la notte, e farsi oscura La sembianza del ciel, chera sì bella, E il piacere di colei farsi paura. Un nugol torbo, padre di procella, Sorgea di dietro ai monti, e crescea tanto, Che più non si scopria luna né stella. Spiegarsi ella il vedea per ogni canto, E salir su per laria a poco a poco, E far sovra il suo capo a quella ammanto. E veniva il poco lume ognor più fioco; E intanto al bosco si destava il vento, Al bosco là del dilettoso loco. E si fea più gagliardo ogni momento, Tal che a forza era desto e svolazzava Tra le fronde ogni augel per lo spavento. E la nube, crescendo, in giù calava ver la marina sì, che lun suo lembo Toccava i monti, e laltro il mar toccava. Già tutta a cieca oscuritade in grembo, Sincominciava udir fremer la pioggia, E il suon cresceva allappressar del nembo. Dentro le nubi in paurosa foggia Guizzavan lampi, e la fean batter gli occhi; E nera il terren tristo, e laria roggia. Discior sentia la misera i ginocchi; E già muggiva il tuon simile al metro Di torrente che dalto in giù trabocchi. Talvolta ella ristava, e laer tetro Guardava sbigottita, e poi correa, Sì che i panni e le chiome ivano addietro. E il duro vento col petto rompea, Che gocce fredde giù per laria nera In sul volto soffiando le spingea. E il tuon veniale incontro come fera, Rugghiando orribilmente e senza posa; E cresceva la pioggia e la bufera. E dognintorno era terribil cosa Il volar polve e frondi e rami e sassi, E il suon che immaginar lalma non osa. Ella dal lampo affaticati e lassi Coprendo gli occhi, e stretti i panni al seno, Gia pur tra il nembo accelerando i passi. Ma nella vista ancor lera il baleno Ardendo sì, chalfin dallo spavento Fermò landare, e il cor le venne meno. E si rivolse indietro. E in quel momento Si spense il lampo, e tornò buio letra, Ed acchetossi il tuono, e stette il vento. Taceva il tutto; ed ella era di pietra. |
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XL.
DAL GRECO DI SIMONIDE.
Ogni mondano evento È di Giove in poter, di Giove, o figlio, Che giusta suo talento Ogni cosa dispone. Ma di lunga stagione Nostro cieco pensier saffanna e cura, Benchè lumana etate, Come destina il ciel nostra ventura, Di giorno in giorno dura. La bella speme tutti ci nutrica Di sembianze beate, Onde ciascuno indarno saffatica: Altri laurora amica, Altri letade aspetta; E nullo in terra vive Cui nellanno avvenir facili e pii Con Pluto gli altri iddii La mente non prometta. Ecco pria che la speme in porto arrive, Qual da vecchiezza è giunto E qual da morbi al bruno Lete addutto; Questo il rigido Marte, e quello il flutto Del pelago rapisce; altri consunto Da negre cure, o tristo nodo al collo Circondando, sotterra si rifugge. Così di mille mali I miseri mortali Volgo fiero e diverso agita e strugge. Ma per sentenza mia, Uom saggio e sciolto dal comune errore Patir non sosterria, Né porrebbe al dolore Ed al mal proprio suo cotanto amore. |
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XLI.
DELLO STESSO
Umana cosa picciol tempo dura, |
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© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 18 luglio 1999