Giuseppe Bonghi

Introduzione

Discorso sopra lo stato presente
dei costumi degl’Italiani

di
Giacomo Leopardi

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         Scritto probabilmente nel marzo 1824, in parallelo con la stesura delle prime Operette morali, viene rivisto e completato due anni dopo, una volta terminata la stagione delle Operette. Anche questo Discorso rimane inedito fino al 1906, quando viene stampato nella raccolta: Scritti vari inediti delle carte napoletane a Firenze dalla Le Monnier. Notevole in questi ultinmi anni il ritorno di interesse che la critica ha dimostrato negli ultimi anni per questo scritto leopardiano, tra i quali ricordiamo quelli di Augusto Placanica e Novella Bellucci.
         Questo saggio rivela qualche tratto di acutezza nel mettere in evidenza la condizione generale culturale e psicologia dell’Italia e soprattutto degli italiani, studiati sia in parallelo con le altre nazioni d’Europa sia sul piano "nazioni settentrionali-nazioni meridionali", mostrando alcune caratteristiche che della grandezza culturale ed esistenziale delle nazioni meridionali nell’antichità e alcune caratteristiche della grandezza esistenziale e culturale delle nazioni settentrionale nei tempi moderni, sottolineando come l’età di mezzo sia stata solo un periodo di barbarie dell’umanità.
         "Colpisce soprattutto la coerenza con la quale Leopardi affronta il soggetto impiegando uno dei cardini del suo pensiero: la contrapposizione antico-moderno, per giungere a una diagnosi precisa dell’"anomalia morale" rappresentata dalla vita italiana" per la quale constata un processo di incivilimento incompleto e difettoso che ha sottratto all’Italia i vecchi fondamenti della vita morale, un’Italia incapace, come è accaduto alle altre nazioni civili d’Europa di sostituirli con quei principii derivanti direttamente dagli ordinamenti della vita sociale e civile che ha caratterizzato soprattutto l’ultimo secolo della vita sociale delle "nazioni settentrionali".
         Il Leopardi credeva immature le coscienze degli italiani, perché credeva inesistente in Italia una vera società che accomunasse tutti gli italiani come un potente collante che sul piano ideale era rappresentato dalla cultura, dalla pià grande cultura che l’umanità avesse avuta insieme a quella greca.
         Forse questo discorso è uno dei più importanti perché in modo maturo, non filologico (sul piano delle semplici citazioni dotte di altri autori più o meno noiosi ma anche più o meno lontani dalla qualità esistenziale dell’italiano della prima metà dell’Ottocento) ma filosofico (nel senso che abbraccia i fondamenti della vita stessa dell’italiano, ecc.), affronta la condizione anomala dell’italiano rispetto a quella degli altri popoli che hanno da qualche secolo una società indivisa e nazionale e quindi hanno potuto formare la propria coscienza nuova di popolo moderno sulla base proprio della civiltà e della società.
         I popoli antichi hanno avuto molta immaginazione sulla quale si è fondata la civiltà, e la superiorità di certi popoli nella capacità di creare illusioni si verificava anche nella realtà quotidiana e nella cultura e nel dominio sulle altre nazioni, un dominio che non è soltanto politico. I popoli moderni (pensiamo ad es. alla situazione di alcuni popoli settentrionali, come quelli inglese e tedesco) conservano l’immaginazione anche in mezzo alla crescente civiltà: per questo sembra proprio venuto il tempo del predominio dei settentrionali che sono preferibili per l’immaginazione del moderno sui meridionali che sono preferibili per i caratteri naturali dei popoli insieme all’immagine dell’antichità.
         Ma il Leopardi, come annotava Giuseppe De Robertis, sui tempi suoi sbagliò: "Il suo ingegno troppo era estraneo, incapace a interessarsi della vita del suo tempo. La estrema sfiducia nei destini dell’umanità, faceva che non ptesse neppure accostarsi a quello che che nella umana vita era cosa sì minima. Con le ragioni tutte in moto della sua coscienza straziata, il tono della sua satura doveva risultare naturalmente sproporzionato. Quando sarebbe bastato capire che cosa gli italiani volevano, e che quell’illusione non era superbia, ma un modo di non disperare, di trovar coraggio." (De Robertis, Saggio sul Leopardi, Vallecchi, Firenze 1973, pag. 121 (ma il saggio venne pubblicato per la prima volta nel 1944).
         Il Discorso si fonda sulla constatazione che la condizione d’inferiorità dell’Italia di fronte alle altre nazioni europee è dovuta principalmente alla mancanza di una pubblica opinione e di una vera "società", all’aver perduto i pregi della condizione originaria di "natura" e al non aver acquisito quelli dovuti alla "civiltà", per cui gli italiani non hanno "costumi" di vita ma abitudini dominate dal cinismo. La modernità e i lumi filosofici hanno il potere di disilludere gli uomini sulle regole morali e di promuovere il cinismo e l’indifferenza, senza riuscire a suscitare nuove illusioni.
         Proprio il "cinismo" è uno dei concetti più discussi e analizzati dal Leopardi, perché crede che sia una delle caratteristiche principali degli italiani. Gli italiani, a qualsiasi classe essi appartengano, sono i più cinici del mondo, " ridono della vita: ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun’altra nazione", non possiedono l’arte di conversare e "passano il loro tempo a deridersi scambievolmente, a pungersi fino al sangue", tutti presi a combattersi l’un l’altro, per cui ognuno deve prima o poi imparare a difendersi e combattere se non vuole essere travolto e oppresso.
         Questo è il passo che riteniamo più importante, perché caratterizza non solo le idealità del secolo dei lumi ma l’avvento di una nuova società che a duecento anni di distanza è ancora lontana dal verificarsi in essere:

         "Il grandissimo e incontrastabile beneficio della rinata civiltà e del risorgimento de’ lumi si è di averci liberato da quello stato egualmente lontano dalla coltura e dalla natura proprio de’ tempi bassi, cioè di tempi corrottissimi; da quello stato che non era né civile né naturale, cioè propriamente e semplicemente barbaro, da quella ignoranza molto peggiore e più dannosa di quella de’ fanciulli e degli uomini primitivi, dalla superstizione, dalla viltà e codardia crudele e sanguinaria, dall’inerzia e timidità ambiziosa, intrigante e oppressiva, dalla tirannide all’orientale, inquieta e micidiale, dall’abuso eccessivo del duello, dalla feudalità del Baronaggio e dal vassallaggio, dal celibato volontario o forzoso, ecclesiastico o secolare, dalla mancanza d’ogn’industria e deperimento e languore dell’agricoltura, dalla spopolazione, povertà, fame, peste che seguivano ad ogni tratto da tali cagioni, dagli odii ereditarii e di famiglia, dalle guerre continue e mortali e devastazioni e incendi di città e di campagna tra Re e Baroni, Baroni e vassalli, città e città, fazioni e fazioni, famiglie e famiglie, dallo spirito non d’eroismo ma di cavalleria e d’assassineria, dalla ferocia non mai usata per la patria né per la nazione, dalla total mancanza di nome e di amor nazionale patrio, e di nazioni, dai disordini orribili nel governo, anzi dal niun governo, niuna legge, niuna forma costante di repubblica e amministrazione, incertezza della giustizia, de’ diritti, delle leggi, degl’instituti e regolamenti, tutto in potestà e a discrezione e piacere della forza, e questa per lo più posseduta e usata senza coraggio, e il coraggio non mai per la patria e i pericoli non mai incontrati per lei, né per gloria, ma per danari, per vendetta, per odio, per basse ambizioni e passioni, o per superstizioni e pregiudizi, i vizi non coperti d’alcun colore, le colpe non curanti di giustificazione alcuna, i costumi sfacciatamente infami anche ne’ più grandi e in quelli eziandio che facean professione di vita e carattere più santo, guerre di religione, intolleranza religiosa, inquisizione, veleni, supplizi orribili verso i rei veri o pretesi, o i nemici, niun diritto delle genti, tortura, prove del fuoco, e cose tali. Da questo stato ci ha liberati la civiltà moderna;".

         È un pensiero da leggere e meditare molto attentamente, vista la sua sempre attuale realtà.
         Molto indubbiamente è stato fatto, ma molto ancora si deve fare. Se vogliamo veramente capire i tempi moderni bisogna storicamente partire da questo passo che esemplifica in maniera esemplare l’avvento degli ideali illuministici.

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© luglio 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 14 luglio 1998