Francesco Monetti

Introduzione
a
Giacomo Leopardi

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           Ospitiamo volentieri il contributo di uno studente, al quale ci si può rivolgere scrivendo all'indirizzo nmonetti@tin.it; è un lavoro che lo stesso autore definisce "un lavoretto umile ed una sintesi del pensiero di Leopardi, in cui si trovano più concetti che nozioni pratiche", un lavoro comunque che, al di là della mancanza di quella professionalità che caratterizza certi "professoroni", non manca di una sua vitalità e di una caratteristica importante, che è l'amore per la letteratura e in questo caso per il Leopardi, uno dei poeti più amati dai giovani.
      Se qualcuno vuole saperne qualcosa di più, può visitare il suo sito, che non ha niente a che fare con la letteratura, ma  offre uno spaccato sul mondo e sugli interessi dei giovani che vivono questo fine millennio:
http://www.geocities.com/SunsetStrip/Palms/3510

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         Il più illustre rappresentante della cultura Ottocentesca è senza dubbio Giacomo Leopardi.
         In passato questo riconoscimento fu accordato al Manzoni, il quale, meglio capito dai suoi contemporanei, riscosse più popolarità.
         Giacomo Leopardi, invece, deve il suo successo alla critica moderna.
         Ci troviamo qui davanti ad un dilemma: Manzoni e Leopardi sono classificati entrambi come romantici. Il primo però è un protagonista del Risorgimento italiano; il secondo, dalla sua, intraprende una strada completamente diversa.
         Il Bosco, in un saggio sul romanticismo, distingue appunto i due indirizzi del periodo romantico: uno soggettivistico, uno realistico oggettivistico.
         Leopardi esce da tali classificazioni in quanto è un lirico, la sua poesia è introspettiva e spesso priva di sbocchi sociali o filosofici.

La famiglia

         Si è molto mitizzato sulla vita del Leopardi, quasi leggende si sono tramandate riguardo le sue sciagure. Recanati, la sua città, presentava agli inizi dell’Ottocento ancora un sistema quasi feudale: era inoltre tagliata fuori da qualsiasi rapporto economico e culturale di un certo livello.
         L’epistolario della famiglia Leopardi ci fa capire molto riguardo la loro condizione sociale. A capo della famiglia, il Conte Monaldo, personaggio erudito possessore di una fornitissima biblioteca che faceva invidia anche alle più grandi biblioteche nazionali. Egli sosteneva che la persona più colta era colui che passava più tempo sui libri.
         Per quanto riguarda la madre, sappiamo che era molto fredda nei rapporti familiari.
         Giacomo aveva un carattere un po’ precoce: il padre, quindi, trovò carta bianca per il suo concetto di erudizione. Come piccolo genio, il ragazzo già divorava i libri della biblioteca paterna.
         Comune a tutti i giovani c’è però anche in lui quel sentimento di ribellione nei confronti della società. Da un punto di vista culturale, in Giacomo, esso fu molto forte. Il padre voleva del figlio un pozzo di conoscenza; il figlio invece voleva sentirsi più libero, voleva esprimersi al suo meglio con la poesia.

Situazione letteraria europea

         La situazione letteraria europea della prima metà dell’Ottocento era portata avanti in salotti culturali un po’ dappertutto. In questi salotti si tenevano riunioni sulla letteratura e sul romanticismo. "Cos’è la poesia?" Era una delle domande alla base delle loro riflessioni. "Un’espressione dei sentimenti" era la risposta.
         Queste discussioni, per mezzo dei loro contenuti, non facevano altro che fornire sempre nuovi argomenti di ispirazione a coloro che partecipavano.
         Il fatto che la poesia si sia ridotta ad essere un’espressione dei sentimenti sconfessa totalmente le schematiche illuministiche.
         Espressione del sentimento principalmente prevede la "non imitazione" del mondo classico.
         Filoni diversi caratterizzavano la scena italiana, un qualsiasi discorso letterario di rilievo non sembrava andare avanti. Madame de Staël, una donna di cultura cosmopolita, proveniente da diversi viaggi in Europa, decise di pubblicare un articolo il quale suggeriva agli intellettuali italiani di fare traduzioni dal tedesco perché in Germania era stata scoperta una nuova tematica.
         Gli intellettuali italiani si sentirono quasi offesi da questo agire, per di più perché proveniva dall’esterno a criticare il loro operato; coloro che si sentirono più colpiti furono proprio i classicisti. Leopardi, in questo contesto, non era altro che uno studioso molto giovane che si muoveva sotto la guida del padre, egli però fu in grado di rispondere con un articolo scritto a favore del classicismo (proprio da lui che sarà il più grande romantico).
         Giacomo, per mezzo della sua giovinezza, era sconosciuto a molti. Di conseguenza il suo articolo fu più che altro "di passaggio" per le menti degli altri intellettuali italiani.
         In quell’articolo si sottolineava che la poesia più bella è quella d’immagine. Se i classici hanno toccato il massimo della poesia, i posteri non possono fare altro che imitarli.
         Tutto ciò è chiaramente il frutto del lavoro del conte Monaldo sul suo allievo; il padre è riuscito ad inculcare il suo pensiero nella mente del figlio che poi, però, fortunatamente si rende conto di dover essere lui a decidere per se stesso. Quasi per ribellione al padre, Giacomo comincia a leggere Foscolo, Rousseau, Monti ecc. Affascinato dai preromantici, definisce il neoclassicista Monti come "poeta dell’orecchio ma del cuore mai".
         Leopardi adesso sostiene che se imitare gli antichi significa raggiungere un livello così scarso (come Monti) è bene non imitarli affatto.
         Si ribella così al padre ed alle scelte letterarie che ha fatto per lui.

Il pessimismo, l'infinito, Recanati

         La biografia del Leopardi è, in conclusione, abbastanza triste ed infelice….. non è affatto vero però che lui si sentisse l’ultimo disgraziato della terra, ne tantomeno il caposaldo del pessimismo.
         Il pessimismo di Leopardi è più che altro un pensiero di vita.
         Il sentimento, con il suo non obbedire a leggi e l’essere fuori dai canoni del reale, dà una carica all’io e lo slancia a riflessioni metafisiche. Ciò spinge Leopardi ad obiettivi che solo con la ragione non potrebbero essere conseguiti; questo gli permette di parlare dell’infinito e della metafisica. (proprio come Dante fu spinto dalla religione, Leopardi lo è dal sentimento).
         Il poeta, al di fuori del suo mondo di Recanati , stringe amicizia con il classicista Pietro Giordani al quale usava scrivere lettere in continuazione. Il Giordani dapprima rispondeva spinto dalla correttezza nei confronti del mittente, poi, accortosi della validità letterale di Giacomo, strinse più stretti rapporti.
         Spinto sempre più dalla voglia di allontanarsi dalla sua città per il suo dissidio interiore, Giacomo scappa per la prima volta in una campagna nelle vicinanze. Dopo essere stato facilmente ritrovato dai familiari, egli comincia una dura polemica nei loro confronti che lo porta a raggiungere il suo obiettivo: il padre decide di mandarlo a Roma presso dei parenti.
         Da qui sostiene che la capitale non è altro che una città marmorea e l’unico monumento che gli piace è la tomba del Tasso in quanto gli trasmette qualcosa di più ideale rispetto a quella che può essere la maestà di un monumento come il Colosseo.
         Torna quindi a Recanati, una città che con lui era in un rapporto d’amore e odio. Egli ne era legato soprattutto per le memorie del passato ma la odiava per il presente (presente era inteso certamente come confronto con la società).
         Leopardi amava la famiglia ma non si sentiva corrisposto; ne era escluso; odiava il confronto con gli altri.
         Era considerato e chiamato, dai familiari, il "saccentuzzo" (= sapientino, in senso ovviamente dispregiativo), e si sentiva escluso dalla vita del paese… In lui non c’era una reale capacità di adattamento a quella realtà, quindi se ne allontanava sempre più risultando un emarginato.
         C’è da specificare, però, che la solitudine del poeta non deve essere intesa tanto come mancanza fisica di persone che gli stavano vicino, quanto come una solitudine ideale; egli cercava un amico che potesse capirlo interiormente e quindi che fosse anche al suo livello culturale.
         Giordani, classicista, lo prelevò dalla sua città e gli offrì un posto in un giornale. Leopardi girò un po’ l’Italia, visitando le più grandi città; a Firenze partecipò ad un concorso di letteratura ma lo perse in quanto le sue "operette morali" non furono capite dalla giuria (concorso vinto da Carlo Botta).
         A Pisa conobbe il Ranieri; gli fu offerta una cattedra di geologia, un genere scientifico, ma non l’accettò anche se questo l’avrebbe sostenuto più che altro economicamente.
         Giacomo, intanto, in questo periodo stava male: infermo, si trasferì a Napoli presso Antonio Ranieri e sua sorella Paolina. Essi possedevano una casa a Posillipo, da una finestra si vedeva tutto il panorama ispiratore di Napoli (scrisse anche dei napoletani in maniera non troppo decorosa).
         Nella città partenopea momentaneamente si curò, ma poi, ancor giovane, a soli trentanove anni, morì nel 1837.

La poetica

         Leopardi spesso scrive riguardo qualunque cosa gli venga in mente o da qualsiasi avvenimento egli sia ispirato.
         Questo è carattere di asistematicità.
         Lo "Zibaldone" è appunto una raccolta di opere diverse, asistematiche e irrazionali, in genere organizzate cronologicamente.
         Leopardi accetta le istanze della poesia romana (anche se preferiva la poesia del sentimento a quella d’immagine). Si riallaccia alla poesia interioristica e prosegue quel filone letterario cominciato dal Petrarca, proseguito dal Tasso e che poi sarà ripreso dopo Leopardi dagli ermetici.
         Una data da ricordare, in questo discorso, è il 1816: anno di pubblicazione dell’articolo di Madame de Stael riguardo le traduzioni dalla letteratura tedesca dove la classicità era stata totalmente accantonata. In Germania, la poesia non era più classica, questo rendeva il poeta libero di esprimersi e bandire l’imitazione e la fantasia… a favore del sentimento.
         Per fantasia s’intendeva tutto ciò che fosse completamente opposto alla realtà; siamo noi moderni che diciamo che fantasia non significa fantasticheria.
         Leopardi aveva studiato Monti, e sconsigliato il suo classicismo. Egli inoltre, accetta il bando dell’imitazione e della fantasia e si allaccia a quel filone detto di poesia patetica: un genere pieno di sofferenza, nato nei paesi del nord Europa.
         Per Giacomo, lo scopo primario della poesia è ancora il bello.
         Il bello alla maniera classicista.
         In questo periodo il Leopardi non è ancora romantico ne più tanto classicista ma si trova in una situazione dove gli è necessario trovare un orientamento. Le sue opere, fino a questo momento, sono quasi solo frutto di quell’erudizione impartitagli dal padre e strettamente connesse (vincolate) alla tecnica.
         Con lo studio di Rousseau, ed il suo "contratto sociale", Giacomo comincia riflessioni sul binomio uomo-società.
         Bisognava, per Rousseau, che l’individuo si riappropriasse di quella parte irrazionale dell’io che gli Illuministi sembravano aver trascurato. Come il filosofo francese anche il nostro recanatese critica la società accusandola di porre limiti all’uomo. Società, civiltà e ragione sono tre termini fondamentali che dipendono l’uno dall’altro.
         Cos’è allora che rende gli uomini (del suo secolo) infelici?
         La risposta è unica: la ragione. Essa, in quanto fredda e analitica, taglia le ali al sentimento ed alle passioni umane. Il concetto di uguaglianza Illuministica è adesso ampliato: gli uomini sono tutti uguali perché dotati di ragione e perché infelici.
         Perché, allora, gli antichi erano felici?
         Essi non venivano ad essere trasformati da una società coatta come quella Ottocentesca.
         Allora, c’è un periodo quando si è felici?
         Si, la fanciullezza. Quando un uomo è fanciullo non gravano su di lui responsabilità o costrizioni.
         Non essendo sottoposti alla ragione, si è quindi spensierati e felici.

         Il pessimismo storico ci induce a pensare che, quando poi il fanciullo si affaccia sul mondo esterno, egli comincia a diventare saggio, ma di una saggezza sterile.
         A questo punto della vita, l’unica fonte di felicità è il processo mnemonico che ci permette di tornare indietro alla fanciullezza e ricordare momenti felici.
         Leopardi riflette molto sul tema del suicidio che ha un po’ caratterizzato la letteratura a lui subito precedente. Scaturisce dalle sue riflessioni una domanda di fondo che si ricollega al suo concetto (suddetto) di società: siccome il Werther e l’Ortis si sono suicidati per il trionfo dei loro ideali, che tipo di società è quella che ha ucciso tali eroi?
         Il Giovane Werther e Jacopo Ortis sono ricorsi al suicidio non per amore, bensì perché sconfitti dalla storia e di conseguenza hanno preferito la sopravvivenza dei loro ideali a discapito della vita fisica. In linea ideale, quel loro agire si ricollega a ciò che fece Bruto figliastro di Cesare.

Le opere

         Leopardi è stato sempre accusato di essere pessimista in quanto molto malato; a queste accuse egli spesso risponde dicendo che qualsiasi fossero state le sue condizioni fisiche avrebbe abbracciato comunque quel tipo si poesia "disperata".
         Giacomo, con questa linea difensiva non fa altro che dimostrare una coscienza infelice.
         Ritorna il mito di Saffo, poetessa greca che, rifiutata ripetutamente da Faone, ricorre al suicidio. Nell’ "Ultimo Canto di Saffo" il poeta scrive:

      "Alle sembianze il Padre,
alle amene sembianze eterno regno
diè nelle genti; e per virili imprese,
per dotta lira o canto,
virtù non luce in disadorno ammanto."

che vuol significare come Giove (il Padre) il quale diede assoluto dominio alla bellezza (amene sembianze) sugli uomini, e tutte le gesta più nobili, cioè le imprese eroiche (virili imprese), la poesia (dotta lira o canto) rimangono prive di fascino se le virtù dell’eroe o del poeta non s’accompagnano alla bellezza corporea, se cioè la sua persona sia brutta (disadorno ammanto).
         Adesso, anche se altre visioni considerano Saffo bellissima e dai capelli viola, Leopardi accetta la versione di una Saffo brutta, più che altro, perché più consona a lui. Nella suddetta poesia ci sono elementi di classicismo, ricordo della fanciullezza, suicidio e pessimismo storico.

         Il 1819 è un anno travagliato per il nostro poeta: egli fu vittima di una malattia agli occhi che lo portò in breve tempo a vivere al buio.
         Durante la sua giovinezza, egli si era spesso rifugiato nel mondo della lettura in quanto fisicamente impedito dal partecipare ad altre attività; adesso, che non ha neppure più gli occhi per vedere, è costretto a dedicarsi a riflessioni introspettive. La sua cecità, lo porta ad avvertire una sensazione di vuoto esteriore che però penso che non sia altro che il riflesso del suo voto interiore.
         In questo periodo, Giacomo non ha voluto quindi indagare sul mondo esterno ma più che altro ripiegarsi in se stesso; si è sentito escluso dalla società proprio come Saffo nel suo precedente canto. Egli, avendo una formazione di carattere Illuminista, ha una visione del mondo sempre collegata alla meccanicità e alla caducità della vita nei termini di nascita, crescita e morte. Come lui, fu in precedenza anche il Foscolo, e questi sono solo gli esponenti più illustri del movimento di pensiero materialista che andava avanti.
         Il materialista è indirizzato a due strade diverse del suo pensiero: o ammettere l’esistenza di un creatore che agisce secondo un fine, oppure come Foscolo e Leopardi, rimanere atei e quindi ancora più puramente legati alla materia. Quando Foscolo parlava di nulla eterno, sconfessava qualsiasi fine futuro che il nostro animo potesse avere, in quanto per lui sembrava che la nostra esistenza si limitasse ad una breve vita terrena e nient’altro.
         Leopardi invece, si convince che lo scopo primario dell’uomo è la felicità: quando gli uomini sono felici regna pace nella società, altrimenti ci sono guerre e sciagure.
         Indagando con Rousseau si chiede la ragione per la quale l’uomo è infelice e mette sotto processo la società coatta che ci limita e ci opprime. In altre parole, il poeta si è posto, attraverso il suo problema: il problema degli altri.
         Come suddetto, Leopardi pensa che l’uomo possa solo essere infelice e critica la società, ma nella sua posizione di disimpegno non fornisce una soluzione per cambiarla; soluzione questa invece trovata dal Foscolo, il quale, come obiettivo o ultimo stadio vede la morte, ma finché è sulla terra si prefigge di far trionfare i suoi ideali.
         Della sua condizione di infelicità, Giacomo, non può imputare solo la società.
         Per questa ragione, riflettendo sul fatto che la società è formata da uomini, i quali sono dotati di ragione, e quest’ultima è un dono della natura: Giacomo ha trovato chi accusare.
         La natura stessa è la vera nemica dell’uomo.
         Questo è il cosiddetto pessimismo cosmico che considera la natura come la causa di quel ciclo meccanico che mette al mondo esseri vegetali, animali, umani per poi non preoccuparsi delle loro sorti, buone o cattive che siano. La natura quindi, secondo questa filosofia pessimistica, non si cura dei suoi "prodotti" in quanto loro non sono altro che parte di quel ciclo di nascita, crescita e morte.
         Conferma il concetto cosmico del pessimismo un passo dello "Zibaldone" quando Leopardi scrive di una prateria che agli occhi di tutti sembrerebbe bellissima, ma in realtà, se la si guardasse con una lente di ingrandimento, darebbe una sensazione di infinita sofferenza per tutti quei fili d’erba strappati, per una formichina ferita ad una zampa o per una farfalla che ha perso un’ala.
         A continuare la serie delle affinità e diversità tra Foscolo e Leopardi, c’è da notare che Giacomo è un lirico. Il lirico è chi, incline ad esplorare la parte interiore dell’io, non ha sbocchi sul mondo esterno. La sua poesia non è superficiale, bensì da molti definita la poesia del cuore.
         Dal suo carattere profondamente ribelle nasce quella spinta che lo slancia al di fuori dei limiti del reale e lo porta oltre la ragione. Il rapporto, tra bellezza e realtà, che Foscolo aveva instaurato nella sua poetica, nel Leopardi proprio non esiste. Egli è al di sopra di certe regole e norme che guidano la poesia.
         Secondo il poeta di Recanati, l’obiettivo della poesia deve essere libero, immune da ogni condizionamento eventualmente apportato dalla tradizione. Dapprima affascinato dalla poesia d’immagine, Giacomo, si converte poi alla poesia romantica del sentimento. Per dare libero sfogo alle sue passioni egli deve cantare; egli da’ questa definizione di poesia:

"la poesia è lo sfogo immediato dei sentimenti che il cuore o l’anima del poeta canta".

         Analizzando questa definizione, si deve notare che l’immediatezza della poesia esclude la ragione. Di conseguenza, la poesia non si può prefiggere uno scopo; essa deve essere autonoma, non scritta per gli altri con caratteri didascalici…
         Qui ci troviamo davanti ad una novità assoluta nei confronti degli schemi del passato. La poesia, in quanto libera, non deve obbedire a fini extrapoetici: si ritrova qui il disimpegno di Leopardi. Egli è il poeta di se stesso, canta per dare libero sfogo ai suoi sentimenti e per consolarsi. La poesia prima è sua, poi degli altri. Il lirico è ribelle perché fautore della libertà e non finalizza la sua poesia a qualcosa esterna all’io.

         Tra le sue opere più importanti ci sono i Canti; essi sono divisi in piccoli idilli e grandi idilli. La differenza tra i due non sta’ nella lunghezza bensì nel grado di purezza che la poesia raggiunge. Nei piccoli idilli, opera giovanile, non si è consumato il peso dell’erudizione del poeta: essi ci fanno riflettere, non ci portano però oltre i limiti del reale. L’ispirazione non è ancora del tutto pura come sarà poi riscontrabile in età matura. Tra i piccoli idilli ce ne sono due che sembrano collocarsi nella fascia dei più grandi: essi sono "l’Infinito" ed "Alla Luna".
         Il Russo classifica "l’Infinito" di Leopardi come un inno sacro il quale fa appello alla teologia negativa. La teologia negativa è quel tipo di filosofia che descrive il suo oggetto secondo gli attributi che esso non ha. Nel medioevo, gli uomini utilizzavano questa filosofia per definire Dio. Allo stesso modo fa Leopardi: egli non ha dato una definizione dell’infinito, bensì ha detto cosa l’infinito non è. Definendo l’infinito, infatti, significherebbe attribuirgli dei limiti. La ragione, che Leopardi vuole chiaramente evitare, può regnare solo sul finito, entro i limiti reali.
         Il nostro autore si affianca a quello che è il concetto matematico dell’infinito: i matematici, appunto, intendono l’infinito come qualcosa di indefinito e illimitato, la loro è una visione di quantità. Un matematico parte da una serie numerica e la rende sempre più grande spostandosi verso l’infinito, Leopardi, allo stesso modo, parte dalla "siepe" e si slancia al di fuori del reale.

         "Alla Luna", dapprima chiamato "La Ricordanza", Leopardi compara se stesso con quello che era un anno prima e si rende conto che si trova nella stessa situazione di infelicità. Per lui però il ricordo, anche di qualcosa negativa, è meglio della spietatezza del presente. La fanciullezza infatti, unico periodo felice della vita, è l’età piena di speranze ed ambizioni; la memoria, invece, virtù di vecchiaia, non lascia posto a quella che era la speme giovanile.

         Rivolgendoci di nuovo alla definizione di poesia del Leopardi, cioè sfogo immediato dei sentimenti che il cuore del poeta canta, è implicito che l’autore non riflette su ciò che scrive, bensì trasmette l’impulso dal cuore alla penna senza passare per il cervello.
         Ogni riferimento storico o extrapoetico in una poesia non è altro che interruzione del  canto poetico.
         La parola "idilli" in greco significa "quadretti", per questo motivo essi rappresentano paesaggi naturali, il poeta riprende questo tema quando scrive del monte Tabor, la siepe, le campagne di Recanati.
         Ad un certo istante della sua vita, però, Leopardi decide di toccare un altro tasto: ispirato, distoglie lo sguardo dal mondo e guarda in se stesso. Questo cambiamento si dice che cominci dalla stesura de "La Sera del dì di festa", una poesia povera di elementi paesaggistici (solo l’inizio che parla della luna) ma ricca di una morale che classifica il poeta in quella schiera della società dei cosiddetti innamorati dispregiati. Un grandissimo problema di Giacomo Leopardi, infatti, è proprio nel fatto che non solo il suo amore non è mai ricambiato, ma egli è addirittura disprezzato dai destinatari del suo sentimento amoroso. Ad esempio in

"…                          O donna mia,
già tace ogni….."

l’aggettivo possessivo si riferisce ad una donna ipotetica, non ad una reale; Giacomo, qui, vuole intendere l’incarnazione dell’amore e della bellezza.
         Intorno al verso decimo, inoltre, è presente il dualismo tra natura fenomenica e natura in sé: il poeta riconosce che a vederla (fenomeno) la natura è bellissima, ma in realtà non è altro che un meccanismo perverso.
         Dall’inizio della poesia, è portato avanti un ipotetico dialogo tra la donna e l’autore. Intorno al verso tredici, questo dialogo si sposta dalla donna alla natura e continua fino alla prima interruzione dell’intonazione lirica.
         Dopo la seconda interruzione, poi, si nota un immediato cambiamento nell’atmosfera che diventa adesso pacifica e silenziosa (v.38).

         Lo Zibaldone, collezione di appunti e scritti asistematici, era una sorta di diario per un grafomane come Giacomo. A Firenze, in occasione del concorso poi vinto da Carlo Botta, Leopardi partecipò con le operette morali. "Le operette morali sono…" è una definizione che ancora non possiamo fornire; ci limitiamo però a dire che sono delle favole strane prese qui e li’ dal passato e dal presente.
         Si tratta di dialoghi scritti dal poeta in un periodo in cui lo riteniamo già arrivato alla condizione di pessimismo storico. Si riconosce infatti nelle operette un distacco dai pensieri che scrive: l’atteggiamento del poeta è quello ironico di qualcuno già saturo di esperienze vissute che vede dall’alto tutti coloro che, più giovani, ancora non hanno avuto modo di vivere certe esperienze di vita, non sono ancora giunti a certe conclusioni.
         Leopardi è adesso prosatore; sceglie il dialogo anche se forma molto antica (Platone); sono riportati brani di conversazioni come se l’autore fosse stato lì ad ascoltare.
         Uno dei personaggi è Cristoforo Colombo, che , veramente esistito, è descritto accuratamente anche nei suoi pensieri e discorsi.
         Leopardi è ancora legato ad una concezione materialistica della vita. Egli non è ancora arrivato, come i filosofi tedeschi, alla conclusione che la natura esiste in quanto c’è un io che la pensa. Leopardi non riesce ad uscire da questa maglia incredibile e stretta, di un mondo così materialista.
         Se per Giacomo lo scopo della vita è il piacere, la vita è intesa come una mancanza assoluta che porta dolore.
         Il poeta ricerca il piacere, ma razionalmente sa che è impossibile.
         Il piacere è quindi un’illusione.
         A questa concezione che ha (che poi verrà chiarita dai filosofi tedeschi) Giacomo si ribella. Egli sostiene che la religione è l’oppio dei poveri, qualcosa che inganna gli uomini promettendogli un roseo futuro dopo tutte le sofferenze della vita terrena.
         Come la religione anche la storia, che in senso letterario vuole significare Umanesimo, hanno mistificato la realtà.

         Il racconto di Plotino e Porfirio parla di quest’ultimo il quale vuole suicidarsi perché turbato interiormente: Plotino, per impedirglielo, gli spiega che la validità del suo gesto sarebbe nulla in quella società coatta in quanto essa andrebbe avanti comunque. Il suicidio di Porfirio sarebbe solo una mancanza per gli affetti di chi lo amava. La riflessione da apportare è che la ragione fornita da Plotino per non suicidarsi non ha una base filosofica bensì sentimentale e romantica.

         Giacomo, dopo la sua terribile crisi interiore che lo ha fatto molto riflettere sulla vita e sul mondo, da Pisa, compone diverse opere racchiuse tutte nel "Risorgimento".
         Soddisfatto da quello che era riuscito a scrivere e dagli obbiettivi che aveva raggiunto riflettendo, il poeta si dice addirittura guarito dal suo malessere interiore. Terminata quindi questa riflessione, egli non perde tempo a tuffarsi in un’altra più ampia e profonda; pur sempre priva di qualsiasi sbocco filosofico.
         La poesia di Leopardi è composta ancora da una descrizione paesaggistica che adesso è però accompagnata da una critica interiore, più avanti, negli antidilli, il paesaggio quasi scomparirà.
         Nasce così, dal ’28 al ’30, una nuova fase della poesia Leopardiana, caratterizzata dal ripiegamento interiore, che comprende i cosiddetti secondi idilli o grandi idilli, tutti ispirati all’ambiente recanatese.
         Giacomo, rimasto profondamente toccato dalla morte di una bambina di tubercolosi (mal du siècle = male del secolo), scrive, da Pisa, uno dei suoi più conosciuti testi: "A Silvia". Qui, egli crea l’atmosfera di rievocazione con parole di uso antico che avevano perso, al suo tempo, l’impiego nel linguaggio comune.

         Giacomo mette spesso in evidenza la precarietà della vita umana per quanto concerne le promesse che uno si fa da adolescente ma non le può mantenere nel futuro. Giudicando la vita come una successione di eventi che portano alla morte si ha, di conseguenza, una concezione della vita distorta: non si può vivere con i soli canoni di piacere e dolore. Tematiche filosofiche settecentesche si chiedevano cosa nascesse prima, se il dolore o il piacere. Siccome la vita è principalmente infelice, si arrivò alla conclusione che il piacere è quella condizione che si manifesta tra un intervallo e un altro del dolore.
         Due poesie su questo tema sono: "Il Sabato del Villaggio" e "La quiete dopo la tempesta": il Leopardi mette in evidenza soprattutto il paesaggio e, siccome ritornato a Recanati, sembra che immetta nello scritto un maggior numero di elementi lirici. Gli torna in mente la vita del borgo che ha vissuto in passato, e dall’alto di casa Leopardi, guarda il paese in situazioni quotidiane quali possono essere il Sabato di preparazione alle feste domenicali oppure la felicità di una scampata tempesta.
         In questi due testi, il poeta, come un osservatore, se ne sta’ distaccato e guarda cosa accade tra le persone del borgo; le scene però non hanno caratteri bucolici o campestri ma vanno al di la’ di tali apparenze. Si nota la natura delle persone, il loro carattere, l’organismo vitale della società.
         Entrando nell’ambito tecnico di queste due poesie, siamo portati a ripercorrere i periodi della vita letteraria Leopardiana per quanto riguarda le descrizioni paesaggistiche. Abbiamo un massimo uso del paesaggio coi grandi idilli, una netta scesa col "Canto notturno di un pastore errante dell’Asia" ed un ritorno al paesaggismo con le Ginestre del Vesuvio.
         Dopo aver letto un articolo di giornale su un viaggiatore asiatico, Giacomo compone il "Canto notturno di un pastore errante dell’Asia": gli elementi fondamentali di questa lirica sono la luna, il paesaggio desolato, il gregge e il pastore. Il poeta parla per bocca del pastore il quale rappresenta l’umanità intera, e la luna, invece rappresentante la natura.
         L’insoddisfazione, urto tra le nostre aspettative e la realtà, attesta la superiorità della nostra anima nei confronti del mondo meccanico della natura.
         La noia, invece, viene espressa in due formulazioni: 1. Come vuoto interiore, 2. Come qualcosa di sublime. Sublime quindi oltre il reale, che è anche oltre il finito, e quindi, verso l’infinito.
         Leopardi non imputa la capacità umana di non realizzare i suoi sogni, bensì accusa la realtà storica di essere incapace di soddisfarlo e buttarlo nella noia.
         Proprio qui c’è lo slancio dell’autore verso l’infinito; egli resta sconfitto, ma comunque contento di provare l’esperienza dell’infinito che lo rende speciale confronto agli altri.
         La noia, per gli intellettuali, si verifica quando essi cercano invano di confrontare le loro idee con persone meno colte. Spesso, cercando di esprimersi per un confronto, suscitano addirittura riso agli interlocutori più ignoranti. Questa situazione porta difficoltà agli intellettuali per quanto riguarda l’aprirsi alla società ed esprimersi liberamente.

Gli antidilli

         Un periodo della vita Leopardiana è detto dell’antidillo. Giacomo si invaghì della contessa Fanny Torgioni Tozzetti, una donna che lo ammirava, lo stimava ma non provava alcun sentimento amoroso oltre che amichevole. L’unico legame tra i due può essere stato un momento di comunanza spirituale, ma nulla di più significativo.
         Quando si decide di dichiararsi a lei, Giacomo è naturalmente rifiutato. Le sue speranze hanno un urto frontale con la realtà. Solo adesso egli può scrivere di una delusione non più scaturita da una riflessione morale bensì da una esperienza reale.
         La contessa Tozzetti, citata in diverse poesie, è denominata Aspasia, come l’amante di Pericle.
         Leopardi lucidamente guarda se stesso, si accorge che le lotte da lui combattute fino a quel momento erano state solo ed unicamente immaginarie, per cui di fronte ad un’esperienza reale egli si sente completamente atterrito.
         La "vis abdida" di cui parlava Lucrezio è quella forza che per Giacomo muove tutto e porta all’infelicità della vita.
         In questa fase in cui Leopardi vuole aprire gli occhi sulla realtà, egli vuole mettere in risalto che c’è una mente programmatrice di scopi malefici per gli uomini. Con questo si intende un Dio (Arimane) che presiede il mondo dopo averlo perfidamente creato con cattivi fini. In qualità di ateo, Giacomo sostiene che se esistesse un Dio buono a governare, il mondo sarebbe dovuto essere di conseguenza felice, ma siccome non è così, un Dio buono non è possibile.
         Analizzando la tecnica di scrittura ci accorgeremo che fino adesso, i tempi dei verbi usati nelle poesie Leopardiane è stato il passato, il ricordo; adesso egli si lascia il passato alle spalle ed usa il presente e il futuro.
                  "A se stesso", è un antidillio con verso franto, cioè con un ritmo che si spezza e si infrange, molto diverso da quelli costruiti con classica musicalità; il verso franto, insieme alla mancanza di aggettivazione anticipa in qualche modo una forma che poi sarà adottata dagli ermetici.
         Al verso 9 della poesia si ispirerà in futuro Schopenawer, filosofo tedesco degli anni successivi il quale dirà che l’umanità è una bilancia tra il dolore e la noia. Al verso 10, invece, troviamo citazioni bibliche, la personalità dell’autore si erge contro quelle forze maligne che portano l’uomo all’infelicità.
         Leopardi è qui deluso ma non rassegnato.
         Il verso franto va senz’altro contro corrente nella verbosità degli altri autori romantici.
         La poesia romantica era oratoria e declamatrice cioè mirava a convincere il pubblico della bontà delle idee del poeta. Leopardi, invece, non indirizza la sua poesia a nessuno. Il verso franto non abbellisce la poesia di elementi superflui, bensì rappresenta un modo di esprimersi secco, deciso e fine, ma soprattutto destinato unicamente a se stesso.
         Il Leopardi, ateo, con questa novità stilistica, non trova consenso tra i contemporanei. Totalmente incompreso, è superato da Foscolo in popolarità.
         C’è da riconoscere in lui, però, un certo coraggio perché non è facile andare contro corrente quasi in tutti i campi; lui di questo, inoltre, ne soffriva: solo Firenze era il luogo dove si sentiva più accettato dalla società.
         Il gruppo di intellettuali di cui faceva parte era quello del Gabinetto di Vieusseux.
         Con il passare del tempo, per mezzo della sua indifferenza riguardo all’unità d’Italia, fu preso in antipatia da alcuni e di conseguenza insultato con nomignoli tipo: "Ranavuottolo".
         Riguardo la politica interna ed esterna adottata dall’Italia in quel periodo Leopardi si limita a definire le guerre coloniali col nome di "guerre delle spezie, del pepe e della cannella".
         Giacomo elevava alto la sua protesta perché non concepiva che si dovesse ricorrere alle armi semplicemente per appropiarsi di spezie e roba del genere.


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© aprile 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 13 aprile 1998