Dante Alighieri

LA DIVINA COMMEDIA

PURGATORIO

Canto XIII

lunedì 11 aprile, primo pomeriggio cornice II: la ripa e il sentiero sono di pietra liscia Sapia invidiosi: coperti di cilicio, hanno gli occhi cuciti con fil di ferro: stanno seduti con le spalle poggiate contro la parete del monte e si reggono a vicenda, ascoltando esempi di umiltà e di invidia e recitando le litanie dei santi.
Comincia il canto decimoterzo del Purgatoro. Nel quale l'autore, venuto nel secondo girone dove si purga il peccato della 'nvidia, ode certe voci, mosse da carità; poi truova spiriti a sedere, vestiti tutti di ciliccio, e con gli occhi cigliati, tra' quali Sapia gli favella.
      Noi eravamo al sommo de la scala, 
dove secondamente si risega 
lo monte che salendo altrui dismala. 
      Ivi così una cornice lega 
dintorno il poggio, come la primaia; 
se non che l'arco suo più tosto piega. 
      Ombra non lì è né segno che si paia: 
parsi la ripa e parsi la via schietta 
col livido color de la petraia. 
      «Se qui per dimandar gente s'aspetta», 
ragionava il poeta, «io temo forse 
che troppo avrà d'indugio nostra eletta». 
      Poi fisamente al sole li occhi porse; 
fece del destro lato a muover centro, 
e la sinistra parte di sé torse. 
      «O dolce lume a cui fidanza i' entro 
per lo novo cammin, tu ne conduci», 
dicea, «come condur si vuol quinc'entro. 
      Tu scaldi il mondo, tu sovr'esso luci; 
s'altra ragione in contrario non ponta, 
esser dien sempre li tuoi raggi duci». 
      Quanto di qua per un migliaio si conta, 
tanto di là eravam noi già iti, 
con poco tempo, per la voglia pronta; 
      e verso noi volar furon sentiti, 
non però visti, spiriti parlando 
a la mensa d'amor cortesi inviti. 
      La prima voce che passò volando 
'Vinum non habent' altamente disse, 
e dietro a noi l'andò reiterando. 
      E prima che del tutto non si udisse 
per allungarsi, un'altra 'I' sono Oreste' 
passò gridando, e anco non s'affisse. 
      «Oh!», diss'io, «padre, che voci son queste?». 
E com'io domandai, ecco la terza 
dicendo: 'Amate da cui male aveste'. 
      E 'l buon maestro: «Questo cinghio sferza 
la colpa de la invidia, e però sono 
tratte d'amor le corde de la ferza. 
      Lo fren vuol esser del contrario suono; 
credo che l'udirai, per mio avviso, 
prima che giunghi al passo del perdono. 
      Ma ficca li occhi per l'aere ben fiso, 
e vedrai gente innanzi a noi sedersi, 
e ciascuno è lungo la grotta assiso». 
      Allora più che prima li occhi apersi; 
guarda'mi innanzi, e vidi ombre con manti 
al color de la pietra non diversi. 
      E poi che fummo un poco più avanti, 
udia gridar: 'Maria, òra per noi': 
gridar 'Michele' e 'Pietro', e 'Tutti santi'. 
      Non credo che per terra vada ancoi 
omo sì duro, che non fosse punto 
per compassion di quel ch'i' vidi poi; 
      ché, quando fui sì presso di lor giunto, 
che li atti loro a me venivan certi, 
per li occhi fui di grave dolor munto. 
      Di vil ciliccio mi parean coperti, 
e l'un sofferia l'altro con la spalla, 
e tutti da la ripa eran sofferti. 
      Così li ciechi a cui la roba falla 
stanno a' perdoni a chieder lor bisogna, 
e l'uno il capo sopra l'altro avvalla, 
      perché 'n altrui pietà tosto si pogna, 
non pur per lo sonar de le parole, 
ma per la vista che non meno agogna. 
      E come a li orbi non approda il sole, 
così a l'ombre quivi, ond'io parlo ora, 
luce del ciel di sé largir non vole; 
      ché a tutti un fil di ferro i cigli fóra 
e cusce sì, come a sparvier selvaggio 
si fa però che queto non dimora. 
      A me pareva, andando, fare oltraggio, 
veggendo altrui, non essendo veduto: 
per ch'io mi volsi al mio consiglio saggio. 
      Ben sapev'ei che volea dir lo muto; 
e però non attese mia dimanda, 
ma disse: «Parla, e sie breve e arguto». 
      Virgilio mi venìa da quella banda 
de la cornice onde cader si puote, 
perché da nulla sponda s'inghirlanda; 
      da l'altra parte m'eran le divote 
ombre, che per l'orribile costura 
premevan sì, che bagnavan le gote. 
      Volsimi a loro e «O gente sicura», 
incominciai, «di veder l'alto lume 
che 'l disio vostro solo ha in sua cura, 
      se tosto grazia resolva le schiume 
di vostra coscienza sì che chiaro 
per essa scenda de la mente il fiume, 
      ditemi, ché mi fia grazioso e caro, 
s'anima è qui tra voi che sia latina; 
e forse lei sarà buon s'i' l'apparo». 
      «O frate mio, ciascuna è cittadina 
d'una vera città; ma tu vuo' dire 
che vivesse in Italia peregrina». 
      Questo mi parve per risposta udire 
più innanzi alquanto che là dov'io stava, 
ond'io mi feci ancor più là sentire. 
      Tra l'altre vidi un'ombra ch'aspettava 
in vista; e se volesse alcun dir 'Come?', 
lo mento a guisa d'orbo in sù levava. 
      «Spirto», diss'io, «che per salir ti dome, 
se tu se' quelli che mi rispondesti, 
fammiti conto o per luogo o per nome». 
      «Io fui sanese», rispuose, «e con questi 
altri rimendo qui la vita ria, 
lagrimando a colui che sé ne presti. 
      Savia non fui, avvegna che Sapìa 
fossi chiamata, e fui de li altrui danni 
più lieta assai che di ventura mia. 
      E perché tu non creda ch'io t'inganni, 
odi s'i' fui, com'io ti dico, folle, 
già discendendo l'arco d'i miei anni. 
      Eran li cittadin miei presso a Colle 
in campo giunti co' loro avversari, 
e io pregava Iddio di quel ch'e' volle. 
      Rotti fuor quivi e vòlti ne li amari 
passi di fuga; e veggendo la caccia, 
letizia presi a tutte altre dispari, 
      tanto ch'io volsi in sù l'ardita faccia, 
gridando a Dio: "Omai più non ti temo!", 
come fé 'l merlo per poca bonaccia. 
      Pace volli con Dio in su lo stremo 
de la mia vita; e ancor non sarebbe 
lo mio dover per penitenza scemo, 
      se ciò non fosse, ch'a memoria m'ebbe 
Pier Pettinaio in sue sante orazioni, 
a cui di me per caritate increbbe. 
      Ma tu chi se', che nostre condizioni 
vai dimandando, e porti li occhi sciolti, 
sì com'io credo, e spirando ragioni?». 
      «Li occhi», diss'io, «mi fieno ancor qui tolti, 
ma picciol tempo, ché poca è l'offesa 
fatta per esser con invidia vòlti. 
      Troppa è più la paura ond'è sospesa 
l'anima mia del tormento di sotto, 
che già lo 'ncarco di là giù mi pesa». 
      Ed ella a me: «Chi t'ha dunque condotto 
qua sù tra noi, se giù ritornar credi?». 
E io: «Costui ch'è meco e non fa motto. 
      E vivo sono; e però mi richiedi, 
spirito eletto, se tu vuo' ch'i' mova 
di là per te ancor li mortai piedi». 
      «Oh, questa è a udir sì cosa nuova», 
rispuose, «che gran segno è che Dio t'ami; 
però col priego tuo talor mi giova. 
      E cheggioti, per quel che tu più brami, 
se mai calchi la terra di Toscana, 
che a' miei propinqui tu ben mi rinfami. 
      Tu li vedrai tra quella gente vana 
che spera in Talamone, e perderagli 
più di speranza ch'a trovar la Diana; 
      ma più vi perderanno li ammiragli».
 
 

 
 

 
 
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Canto XIV

lunedì 11 aprile cornice II: la ripa e il sentiero sono di pietra liscia Guido del Duca, Rinieri da Calboli invidiosi: coperti di cilicio, hanno gli occhi cuciti con fil di ferro: stanno seduti con le spalle poggiate contro la parete del monte e si reggono a vicenda, ascoltando esempi di umiltà e di invidia e recitando le litanie dei santi.
Comincia il canto decimoquarto del Purgatoro. Nel quale l'autore nel predetto girone parla con Guido del Duca, il quale, abbominata la valle d'Arno, predice alcune cose del nepote di Rinier da Calvoli; e poi si duole di più valenti uomini romagnuoli, venuti meno; poi ode voci in destazion della 'nvidia.
      «Chi è costui che 'l nostro monte cerchia 
prima che morte li abbia dato il volo, 
e apre li occhi a sua voglia e coverchia?». 
      «Non so chi sia, ma so ch'e' non è solo: 
domandal tu che più li t'avvicini, 
e dolcemente, sì che parli, acco'lo». 
      Così due spirti, l'uno a l'altro chini, 
ragionavan di me ivi a man dritta; 
poi fer li visi, per dirmi, supini; 
      e disse l'uno: «O anima che fitta 
nel corpo ancora inver' lo ciel ten vai, 
per carità ne consola e ne ditta 
      onde vieni e chi se'; ché tu ne fai 
tanto maravigliar de la tua grazia, 
quanto vuol cosa che non fu più mai». 
      E io: «Per mezza Toscana si spazia 
un fiumicel che nasce in Falterona, 
e cento miglia di corso nol sazia. 
      Di sovr'esso rech'io questa persona: 
dirvi ch'i' sia, saria parlare indarno, 
ché 'l nome mio ancor molto non suona». 
«Se ben lo 'ntendimento tuo accarno 
con lo 'ntelletto», allora mi rispuose 
quei che diceva pria, «tu parli d'Arno». 
      E l'altro disse lui: «Perché nascose 
questi il vocabol di quella riviera, 
pur com'om fa de l'orribili cose?». 
      E l'ombra che di ciò domandata era, 
si sdebitò così: «Non so; ma degno 
ben è che 'l nome di tal valle pèra; 
      ché dal principio suo, ov'è sì pregno 
l'alpestro monte ond'è tronco Peloro, 
che 'n pochi luoghi passa oltra quel segno, 
      infin là 've si rende per ristoro 
di quel che 'l ciel de la marina asciuga, 
ond'hanno i fiumi ciò che va con loro, 
      vertù così per nimica si fuga 
da tutti come biscia, o per sventura 
del luogo, o per mal uso che li fruga: 
      ond'hanno sì mutata lor natura 
li abitator de la misera valle, 
che par che Circe li avesse in pastura. 
      Tra brutti porci, più degni di galle 
che d'altro cibo fatto in uman uso, 
dirizza prima il suo povero calle. 
      Botoli trova poi, venendo giuso, 
ringhiosi più che non chiede lor possa, 
e da lor disdegnosa torce il muso. 
      Vassi caggendo; e quant'ella più 'ngrossa, 
tanto più trova di can farsi lupi 
la maladetta e sventurata fossa. 
      Discesa poi per più pelaghi cupi, 
trova le volpi sì piene di froda, 
che non temono ingegno che le occùpi. 
      Né lascerò di dir perch'altri m'oda; 
e buon sarà costui, s'ancor s'ammenta 
di ciò che vero spirto mi disnoda. 
      Io veggio tuo nepote che diventa 
cacciator di quei lupi in su la riva 
del fiero fiume, e tutti li sgomenta. 
      Vende la carne loro essendo viva; 
poscia li ancide come antica belva; 
molti di vita e sé di pregio priva. 
      Sanguinoso esce de la trista selva; 
lasciala tal, che di qui a mille anni 
ne lo stato primaio non si rinselva». 
      Com'a l'annunzio di dogliosi danni 
si turba il viso di colui ch'ascolta, 
da qual che parte il periglio l'assanni, 
      così vid'io l'altr'anima, che volta 
stava a udir, turbarsi e farsi trista, 
poi ch'ebbe la parola a sì raccolta. 
      Lo dir de l'una e de l'altra la vista 
mi fer voglioso di saper lor nomi, 
e dimanda ne fei con prieghi mista; 
      per che lo spirto che di pria parlòmi 
ricominciò: «Tu vuo' ch'io mi deduca 
nel fare a te ciò che tu far non vuo'mi. 
      Ma da che Dio in te vuol che traluca 
tanto sua grazia, non ti sarò scarso; 
però sappi ch'io fui Guido del Duca. 
      Fu il sangue mio d'invidia sì riarso, 
che se veduto avesse uom farsi lieto, 
visto m'avresti di livore sparso. 
      Di mia semente cotal paglia mieto; 
o gente umana, perché poni 'l core 
là 'v'è mestier di consorte divieto? 
      Questi è Rinier; questi è 'l pregio e l'onore 
de la casa da Calboli, ove nullo 
fatto s'è reda poi del suo valore. 
      E non pur lo suo sangue è fatto brullo, 
tra 'l Po e 'l monte e la marina e 'l Reno, 
del ben richesto al vero e al trastullo; 
      ché dentro a questi termini è ripieno 
di venenosi sterpi, sì che tardi 
per coltivare omai verrebber meno. 
      Ov'è 'l buon Lizio e Arrigo Mainardi? 
Pier Traversaro e Guido di Carpigna? 
Oh Romagnuoli tornati in bastardi! 
      Quando in Bologna un Fabbro si ralligna? 
quando in Faenza un Bernardin di Fosco, 
verga gentil di picciola gramigna? 
      Non ti maravigliar s'io piango, Tosco, 
quando rimembro con Guido da Prata, 
Ugolin d'Azzo che vivette nosco, 
      Federigo Tignoso e sua brigata, 
la casa Traversara e li Anastagi 
(e l'una gente e l'altra è diretata), 
      le donne e ' cavalier, li affanni e li agi 
che ne 'nvogliava amore e cortesia 
là dove i cuor son fatti sì malvagi. 
      O Bretinoro, ché non fuggi via, 
poi che gita se n'è la tua famiglia 
e molta gente per non esser ria? 
      Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia; 
e mal fa Castrocaro, e peggio Conio, 
che di figliar tai conti più s'impiglia. 
      Ben faranno i Pagan, da che 'l demonio 
lor sen girà; ma non però che puro 
già mai rimagna d'essi testimonio. 
      O Ugolin de' Fantolin, sicuro 
è il nome tuo, da che più non s'aspetta 
chi far lo possa, tralignando, scuro. 
      Ma va via, Tosco, omai; ch'or mi diletta 
troppo di pianger più che di parlare, 
sì m'ha nostra ragion la mente stretta». 
      Noi sapavam che quell'anime care 
ci sentivano andar; però, tacendo, 
facean noi del cammin confidare. 
      Poi fummo fatti soli procedendo, 
folgore parve quando l'aere fende, 
voce che giunse di contra dicendo: 
      'Anciderammi qualunque m'apprende'; 
e fuggì come tuon che si dilegua, 
se sùbito la nuvola scoscende. 
      Come da lei l'udir nostro ebbe triegua, 
ed ecco l'altra con sì gran fracasso, 
che somigliò tonar che tosto segua: 
      «Io sono Aglauro che divenni sasso»; 
e allor, per ristrignermi al poeta, 
in destro feci e non innanzi il passo. 
      Già era l'aura d'ogne parte queta; 
ed el mi disse: «Quel fu 'l duro camo 
che dovria l'uom tener dentro a sua meta. 
      Ma voi prendete l'esca, sì che l'amo 
de l'antico avversaro a sé vi tira; 
e però poco val freno o richiamo. 
      Chiamavi 'l cielo e 'ntorno vi si gira, 
mostrandovi le sue bellezze etterne, 
e l'occhio vostro pur a terra mira; 
      onde vi batte chi tutto discerne».
 
 

 
 

 
 
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Canto XV

lunedì 11 aprile, ora del vespero (tra le tre e le sei del pomeriggio) passaggio dalla II alla III cornice: fumo oscuro Virgilio, Dante, Angelo della misericordia tre visioni di mansuetudine: Maria ritrova Gesù, il perdono di Pisistrato, santo Stefano chiede perdono per i suoi lapidatori; canto: Beati i misericordiosi, inno: Godi tu che vinci;
Comincia il canto decimoquinto del Purgatoro. Nel quale l'autor mostra come, invitati da un agnolo a salir nel terzo girone, Virgilio gli solve un dubbio, natogli per parole di Guido del Duca; poi mostra se avere per vision vedute certe cose dimostranti mansuetudine, e, nel giron pervenuti, dice cominciarsi lor sopra un gran fummo.
      Quanto tra l'ultimar de l'ora terza 
e 'l principio del dì par de la spera 
che sempre a guisa di fanciullo scherza, 
      tanto pareva già inver' la sera 
essere al sol del suo corso rimaso; 
vespero là, e qui mezza notte era. 
      E i raggi ne ferien per mezzo 'l naso, 
perché per noi girato era sì 'l monte, 
che già dritti andavamo inver' l'occaso, 
      quand'io senti' a me gravar la fronte 
a lo splendore assai più che di prima, 
e stupor m'eran le cose non conte; 
      ond'io levai le mani inver' la cima 
de le mie ciglia, e fecimi 'l solecchio, 
che del soverchio visibile lima. 
      Come quando da l'acqua o da lo specchio 
salta lo raggio a l'opposita parte, 
salendo su per lo modo parecchio 
      a quel che scende, e tanto si diparte 
dal cader de la pietra in igual tratta, 
sì come mostra esperienza e arte; 
      così mi parve da luce rifratta 
quivi dinanzi a me esser percosso; 
per che a fuggir la mia vista fu ratta. 
      «Che è quel, dolce padre, a che non posso 
schermar lo viso tanto che mi vaglia», 
diss'io, «e pare inver' noi esser mosso?». 
      «Non ti maravigliar s'ancor t'abbaglia 
la famiglia del cielo», a me rispuose: 
«messo è che viene ad invitar ch'om saglia. 
      Tosto sarà ch'a veder queste cose 
non ti fia grave, ma fieti diletto 
quanto natura a sentir ti dispuose». 
      Poi giunti fummo a l'angel benedetto, 
con lieta voce disse: «Intrate quinci 
ad un scaleo vie men che li altri eretto». 
      Noi montavam, già partiti di linci, 
e 'Beati misericordes!' fue 
cantato retro, e 'Godi tu che vinci!'. 
      Lo mio maestro e io soli amendue 
suso andavamo; e io pensai, andando, 
prode acquistar ne le parole sue; 
      e dirizza'mi a lui sì dimandando: 
«Che volse dir lo spirto di Romagna, 
e 'divieto' e 'consorte' menzionando?». 
      Per ch'elli a me: «Di sua maggior magagna 
conosce il danno; e però non s'ammiri 
se ne riprende perché men si piagna. 
      Perché s'appuntano i vostri disiri 
dove per compagnia parte si scema, 
invidia move il mantaco a' sospiri. 
      Ma se l'amor de la spera supprema 
torcesse in suso il disiderio vostro, 
non vi sarebbe al petto quella tema; 
      ché, per quanti si dice più lì 'nostro', 
tanto possiede più di ben ciascuno, 
e più di caritate arde in quel chiostro». 
      «Io son d'esser contento più digiuno», 
diss'io, «che se mi fosse pria taciuto, 
e più di dubbio ne la mente aduno. 
      Com'esser puote ch'un ben, distributo 
in più posseditor, faccia più ricchi 
di sé, che se da pochi è posseduto?». 
      Ed elli a me: «Però che tu rificchi 
la mente pur a le cose terrene, 
di vera luce tenebre dispicchi. 
      Quello infinito e ineffabil bene 
che là sù è, così corre ad amore 
com'a lucido corpo raggio vene. 
      Tanto si dà quanto trova d'ardore; 
sì che, quantunque carità si stende, 
cresce sovr'essa l'etterno valore. 
      E quanta gente più là sù s'intende, 
più v'è da bene amare, e più vi s'ama, 
e come specchio l'uno a l'altro rende. 
      E se la mia ragion non ti disfama, 
vedrai Beatrice, ed ella pienamente 
ti torrà questa e ciascun'altra brama. 
      Procaccia pur che tosto sieno spente, 
come son già le due, le cinque piaghe, 
che si richiudon per esser dolente». 
      Com'io voleva dicer 'Tu m'appaghe', 
vidimi giunto in su l'altro girone, 
sì che tacer mi fer le luci vaghe. 
      Ivi mi parve in una visione 
estatica di sùbito esser tratto, 
e vedere in un tempio più persone; 
      e una donna, in su l'entrar, con atto 
dolce di madre dicer: «Figliuol mio 
perché hai tu così verso noi fatto? 
      Ecco, dolenti, lo tuo padre e io 
ti cercavamo». E come qui si tacque, 
ciò che pareva prima, dispario. 
      Indi m'apparve un'altra con quell'acque 
giù per le gote che 'l dolor distilla 
quando di gran dispetto in altrui nacque, 
      e dir: «Se tu se' sire de la villa 
del cui nome ne' dèi fu tanta lite, 
e onde ogni scienza disfavilla, 
      vendica te di quelle braccia ardite 
ch'abbracciar nostra figlia, o Pisistràto». 
E 'l segnor mi parea, benigno e mite, 
      risponder lei con viso temperato: 
«Che farem noi a chi mal ne disira, 
se quei che ci ama è per noi condannato?», 
      Poi vidi genti accese in foco d'ira 
con pietre un giovinetto ancider, forte 
gridando a sé pur: «Martira, martira!». 
      E lui vedea chinarsi, per la morte 
che l'aggravava già, inver' la terra, 
ma de li occhi facea sempre al ciel porte, 
      orando a l'alto Sire, in tanta guerra, 
che perdonasse a' suoi persecutori, 
con quello aspetto che pietà diserra. 
      Quando l'anima mia tornò di fori 
a le cose che son fuor di lei vere, 
io riconobbi i miei non falsi errori. 
      Lo duca mio, che mi potea vedere 
far sì com'om che dal sonno si slega, 
disse: «Che hai che non ti puoi tenere, 
      ma se' venuto più che mezza lega 
velando li occhi e con le gambe avvolte, 
a guisa di cui vino o sonno piega?». 
      «O dolce padre mio, se tu m'ascolte, 
io ti dirè», diss'io, «ciò che m'apparve 
quando le gambe mi furon sì tolte». 
      Ed ei: «Se tu avessi cento larve 
sovra la faccia, non mi sarian chiuse 
le tue cogitazion, quantunque parve. 
      Ciò che vedesti fu perché non scuse 
d'aprir lo core a l'acque de la pace 
che da l'etterno fonte son diffuse. 
      Non dimandai "Che hai?" per quel che face 
chi guarda pur con l'occhio che non vede, 
quando disanimato il corpo giace; 
      ma dimandai per darti forza al piede: 
così frugar conviensi i pigri, lenti 
ad usar lor vigilia quando riede». 
      Noi andavam per lo vespero, attenti 
oltre quanto potean li occhi allungarsi 
contra i raggi serotini e lucenti. 
      Ed ecco a poco a poco un fummo farsi 
verso di noi come la notte oscuro; 
né da quello era loco da cansarsi. 
      Questo ne tolse li occhi e l'aere puro.
 
 

 
 

 
 
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Ultimo aggiornamento: 07 febbraio, 1998