Dante Alighieri

LA DIVINA COMMEDIA

PURGATORIO

Canto VII

domenica 10 aprile, mentre dichina il giorno Antipurgatorio, balzo II, gruppo IV, valletta fiorita Sordello, Rodolfo imp., Ottocaro II di Boemia, Filippo II di Francia, Enrico I di Navarra, Pietro II e Alfonso III d'Aragona, Carlo d'Angiò, Arrigo III d'Inghilterra, Guglielmo di Monferrato. principi negligenti: (regnanti presi più dalle cure terrene che da quelle dello spirito) si trovano in una valletta amena e siedono su un prato verdissimo, pieno di fiori profumati e di vari colori; devono restare in Purgatorio un tempo pari alla durata della loro vita e sono sottoposti al tramonto alla tentazione del serpente.
Comincia il canto settimo del Purgatoro. Nel quale l'autor mostra come, poi s'ebber fatta festa insieme Virgilio e Sordello, che Sordello gli menasse in un grembo del monte, dove vide Ridolfo imperadore e più altri magnifici spiriti.
      Poscia che l'accoglienze oneste e liete 
furo iterate tre e quattro volte, 
Sordel si trasse, e disse: «Voi, chi siete?». 
      «Anzi che a questo monte fosser volte 
l'anime degne di salire a Dio, 
fur l'ossa mie per Ottavian sepolte. 
      Io son Virgilio; e per null'altro rio 
lo ciel perdei che per non aver fé». 
Così rispuose allora il duca mio. 
      Qual è colui che cosa innanzi sé 
sùbita vede ond'e' si maraviglia, 
che crede e non, dicendo «Ella è... non è...», 
      tal parve quelli; e poi chinò le ciglia, 
e umilmente ritornò ver' lui, 
e abbracciòl là 've 'l minor s'appiglia. 
      «O gloria di Latin», disse, «per cui 
mostrò ciò che potea la lingua nostra, 
o pregio etterno del loco ond'io fui, 
      qual merito o qual grazia mi ti mostra? 
S'io son d'udir le tue parole degno, 
dimmi se vien d'inferno, e di qual chiostra». 
      «Per tutt'i cerchi del dolente regno», 
rispuose lui, «son io di qua venuto; 
virtù del ciel mi mosse, e con lei vegno. 
      Non per far, ma per non fare ho perduto 
a veder l'alto Sol che tu disiri 
e che fu tardi per me conosciuto. 
      Luogo è là giù non tristo di martìri, 
ma di tenebre solo, ove i lamenti 
non suonan come guai, ma son sospiri. 
      Quivi sto io coi pargoli innocenti 
dai denti morsi de la morte avante 
che fosser da l'umana colpa essenti; 
      quivi sto io con quei che le tre sante 
virtù non si vestiro, e sanza vizio 
conobber l'altre e seguir tutte quante. 
      Ma se tu sai e puoi, alcuno indizio 
dà noi per che venir possiam più tosto 
là dove purgatorio ha dritto inizio». 
      Rispuose: «Loco certo non c'è posto; 
licito m'è andar suso e intorno; 
per quanto ir posso, a guida mi t'accosto. 
      Ma vedi già come dichina il giorno, 
e andar sù di notte non si puote; 
però è buon pensar di bel soggiorno. 
      Anime sono a destra qua remote: 
se mi consenti, io ti merrò ad esse, 
e non sanza diletto ti fier note». 
      «Com'è ciò?», fu risposto. «Chi volesse 
salir di notte, fora elli impedito 
d'altrui, o non sarria ché non potesse?». 
      E 'l buon Sordello in terra fregò 'l dito, 
dicendo: «Vedi? sola questa riga 
non varcheresti dopo 'l sol partito: 
      non però ch'altra cosa desse briga, 
che la notturna tenebra, ad ir suso; 
quella col nonpoder la voglia intriga. 
      Ben si poria con lei tornare in giuso 
e passeggiar la costa intorno errando, 
mentre che l'orizzonte il dì tien chiuso». 
      Allora il mio segnor, quasi ammirando, 
«Menane», disse, «dunque là 've dici 
ch'aver si può diletto dimorando». 
      Poco allungati c'eravam di lici, 
quand'io m'accorsi che 'l monte era scemo, 
a guisa che i vallon li sceman quici. 
«Colà», disse quell'ombra, «n'anderemo 
dove la costa face di sé grembo; 
e là il novo giorno attenderemo». 
      Tra erto e piano era un sentiero schembo, 
che ne condusse in fianco de la lacca, 
là dove più ch'a mezzo muore il lembo. 
      Oro e argento fine, cocco e biacca, 
indaco, legno lucido e sereno, 
fresco smeraldo in l'ora che si fiacca, 
      da l'erba e da li fior, dentr'a quel seno 
posti, ciascun saria di color vinto, 
come dal suo maggiore è vinto il meno. 
      Non avea pur natura ivi dipinto, 
ma di soavità di mille odori 
vi facea uno incognito e indistinto. 
      'Salve, Regina' in sul verde e 'n su' fiori 
quindi seder cantando anime vidi, 
che per la valle non parean di fuori. 
«Prima che 'l poco sole omai s'annidi», 
cominciò 'l Mantoan che ci avea vòlti, 
«tra color non vogliate ch'io vi guidi. 
      Di questo balzo meglio li atti e ' volti 
conoscerete voi di tutti quanti, 
che ne la lama giù tra essi accolti. 
      Colui che più siede alto e fa sembianti 
d'aver negletto ciò che far dovea, 
e che non move bocca a li altrui canti, 
      Rodolfo imperador fu, che potea 
sanar le piaghe c'hanno Italia morta, 
sì che tardi per altri si ricrea. 
      L'altro che ne la vista lui conforta, 
resse la terra dove l'acqua nasce 
che Molta in Albia, e Albia in mar ne porta: 
      Ottacchero ebbe nome, e ne le fasce 
fu meglio assai che Vincislao suo figlio 
barbuto, cui lussuria e ozio pasce. 
      E quel nasetto che stretto a consiglio 
par con colui c'ha sì benigno aspetto, 
morì fuggendo e disfiorando il giglio: 
      guardate là come si batte il petto! 
L'altro vedete c'ha fatto a la guancia 
de la sua palma, sospirando, letto. 
      Padre e suocero son del mal di Francia: 
sanno la vita sua viziata e lorda, 
e quindi viene il duol che sì li lancia. 
      Quel che par sì membruto e che s'accorda, 
cantando, con colui dal maschio naso, 
d'ogne valor portò cinta la corda; 
      e se re dopo lui fosse rimaso 
lo giovanetto che retro a lui siede, 
ben andava il valor di vaso in vaso, 
      che non si puote dir de l'altre rede; 
Iacomo e Federigo hanno i reami; 
del retaggio miglior nessun possiede. 
      Rade volte risurge per li rami 
l'umana probitate; e questo vole 
quei che la dà, perché da lui si chiami. 
      Anche al nasuto vanno mie parole 
non men ch'a l'altro, Pier, che con lui canta, 
onde Puglia e Proenza già si dole. 
      Tant'è del seme suo minor la pianta, 
quanto più che Beatrice e Margherita, 
Costanza di marito ancor si vanta. 
      Vedete il re de la semplice vita 
seder là solo, Arrigo d'Inghilterra: 
questi ha ne' rami suoi migliore uscita. 
      Quel che più basso tra costor s'atterra, 
guardando in suso, è Guiglielmo marchese, 
per cui e Alessandria e la sua guerra 
      fa pianger Monferrato e Canavese».
 
 

 
 

 
 
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Canto VIII

domenica 10 aprile, al tramonto (v. 49: temp'era già che l'aere s'annerava) Antipurgatorio, balzo II, gruppo IV, valletta fiorita Sordello, Nino Visconti, Currado Malaspina, due angeli (custodi della valletta) principi negligenti: (regnanti presi più dalle cure terrene che da quelle dello spirito) si trovano in una valletta amena e siedono su un prato verdissimo, pieno di fiori profumati e di vari colori; devono restare in Purgatorio un tempo pari alla durata della loro vita e sono sottoposti al tramonto alla tentazione del serpente.
Comincia il canto ottavo del Purgatoro. Nel quale l'autor mostra come due angeli discesero da cielo a guardia del luogo dove erano; e appresso come truova giudice Nino e Curado marchese Malaspina, con li quali alquanto parla.
      Era già l'ora che volge il disio 
ai navicanti e 'ntenerisce il core 
lo dì c'han detto ai dolci amici addio; 
      e che lo novo peregrin d'amore 
punge, se ode squilla di lontano 
che paia il giorno pianger che si more; 
      quand'io incominciai a render vano 
l'udire e a mirare una de l'alme 
surta, che l'ascoltar chiedea con mano. 
      Ella giunse e levò ambo le palme, 
ficcando li occhi verso l'oriente, 
come dicesse a Dio: 'D'altro non calme'. 
      'Te lucis ante' sì devotamente 
le uscìo di bocca e con sì dolci note, 
che fece me a me uscir di mente; 
      e l'altre poi dolcemente e devote 
seguitar lei per tutto l'inno intero, 
avendo li occhi a le superne rote. 
      Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, 
chè 'l velo è ora ben tanto sottile, 
certo che 'l trapassar dentro è leggero. 
      Io vidi quello essercito gentile 
tacito poscia riguardare in sùe 
quasi aspettando, palido e umìle; 
      e vidi uscir de l'alto e scender giùe 
due angeli con due spade affocate, 
tronche e private de le punte sue. 
      Verdi come fogliette pur mo nate 
erano in veste, che da verdi penne 
percosse traean dietro e ventilate. 
      L'un poco sovra noi a star si venne, 
e l'altro scese in l'opposita sponda, 
sì che la gente in mezzo si contenne. 
      Ben discernea in lor la testa bionda; 
ma ne la faccia l'occhio si smarria, 
come virtù ch'a troppo si confonda. 
      «Ambo vegnon del grembo di Maria», 
disse Sordello, «a guardia de la valle, 
per lo serpente che verrà vie via». 
      Ond'io, che non sapeva per qual calle, 
mi volsi intorno, e stretto m'accostai, 
tutto gelato, a le fidate spalle. 
      E Sordello anco: «Or avvalliamo omai 
tra le grandi ombre, e parleremo ad esse; 
grazioso fia lor vedervi assai». 
      Solo tre passi credo ch'i' scendesse, 
e fui di sotto, e vidi un che mirava 
pur me, come conoscer mi volesse. 
      Temp'era già che l'aere s'annerava, 
ma non sì che tra li occhi suoi e ' miei 
non dichiarisse ciò che pria serrava. 
      Ver' me si fece, e io ver' lui mi fei: 
giudice Nin gentil, quanto mi piacque 
quando ti vidi non esser tra ' rei! 
      Nullo bel salutar tra noi si tacque; 
poi dimandò: «Quant'è che tu venisti 
a piè del monte per le lontane acque?». 
      «Oh!», diss'io lui, «per entro i luoghi tristi 
venni stamane, e sono in prima vita, 
ancor che l'altra, sì andando, acquisti». 
      E come fu la mia risposta udita, 
Sordello ed elli in dietro si raccolse 
come gente di sùbito smarrita. 
      L'uno a Virgilio e l'altro a un si volse 
che sedea lì, gridando:«Sù, Currado! 
vieni a veder che Dio per grazia volse». 
      Poi, vòlto a me: «Per quel singular grado 
che tu dei a colui che sì nasconde 
lo suo primo perché, che non lì è guado, 
      quando sarai di là da le larghe onde, 
dì a Giovanna mia che per me chiami 
là dove a li 'nnocenti si risponde. 
      Non credo che la sua madre più m'ami, 
poscia che trasmutò le bianche bende, 
le quai convien che, misera!, ancor brami. 
      Per lei assai di lieve si comprende 
quanto in femmina foco d'amor dura, 
se l'occhio o 'l tatto spesso non l'accende. 
      Non le farà sì bella sepultura 
la vipera che Melanesi accampa, 
com'avria fatto il gallo di Gallura». 
      Così dicea, segnato de la stampa, 
nel suo aspetto, di quel dritto zelo 
che misuratamente in core avvampa. 
      Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo, 
pur là dove le stelle son più tarde, 
sì come rota più presso a lo stelo. 
      E 'l duca mio: «Figliuol, che là sù guarde?». 
E io a lui: «A quelle tre facelle 
di che 'l polo di qua tutto quanto arde». 
      Ond'elli a me: «Le quattro chiare stelle 
che vedevi staman, son di là basse, 
e queste son salite ov'eran quelle». 
      Com'ei parlava, e Sordello a sé il trasse 
dicendo:«Vedi là 'l nostro avversaro»; 
e drizzò il dito perché 'n là guardasse. 
      Da quella parte onde non ha riparo 
la picciola vallea, era una biscia, 
forse qual diede ad Eva il cibo amaro. 
      Tra l'erba e ' fior venìa la mala striscia, 
volgendo ad ora ad or la testa, e 'l dosso 
leccando come bestia che si liscia. 
      Io non vidi, e però dicer non posso, 
come mosser li astor celestiali; 
ma vidi bene e l'uno e l'altro mosso. 
      Sentendo fender l'aere a le verdi ali, 
fuggì 'l serpente, e li angeli dier volta, 
suso a le poste rivolando iguali. 
      L'ombra che s'era al giudice raccolta 
quando chiamò, per tutto quello assalto 
punto non fu da me guardare sciolta. 
      «Se la lucerna che ti mena in alto 
truovi nel tuo arbitrio tanta cera 
quant'è mestiere infino al sommo smalto», 
      cominciò ella, «se novella vera 
di Val di Magra o di parte vicina 
sai, dillo a me, che già grande là era. 
      Fui chiamato Currado Malaspina; 
non son l'antico, ma di lui discesi; 
a' miei portai l'amor che qui raffina». 
      «Oh!», diss'io lui, «per li vostri paesi 
già mai non fui; ma dove si dimora 
per tutta Europa ch'ei non sien palesi? 
      La fama che la vostra casa onora, 
grida i segnori e grida la contrada, 
sì che ne sa chi non vi fu ancora; 
      e io vi giuro, s'io di sopra vada, 
che vostra gente onrata non si sfregia 
del pregio de la borsa e de la spada. 
      Uso e natura sì la privilegia, 
che, perché il capo reo il mondo torca, 
sola va dritta e 'l mal cammin dispregia». 
      Ed elli: «Or va; che 'l sol non si ricorca 
sette volte nel letto che 'l Montone 
con tutti e quattro i piè cuopre e inforca, 
      che cotesta cortese oppinione 
ti fia chiavata in mezzo de la testa 
con maggior chiovi che d'altrui sermone, 
      se corso di giudicio non s'arresta».
 
 

 
 

 
 
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Canto IX

domenica 10 aprile, notte; lunedì 11 aprile: fino a due ore dopo la levata del sole dalla valletta dei principi negligenti alla porta del Purgatorio Lucia, Angelo guardiano Dante s'addormenta nella valletta fiorita e sogna un'aquila con penne d'oro che lo rapisce: si sveglia con l'impressione di bruciare nella sfera del fuoco. Richiama il lettore sull'innalzarsi della materia; si trova davanti a tre gradini di diverso colore (bianco, quasi nero, rosso), sul più alto si trova l'angelo guardiano, che gli incide sette P sulla fronte ed apre la porta: si sente cantare il Te Deum.
Comincia il canto nono del Purgatoro. Nel qual l'autor dimostra come, addormentatosi, gli parve da un'aquila esser portato infino al fuoco; per che destatosi, si trovò presso alla porta del purgatoro, dove, secondo che Virgilio gli dice, l'avea portato una donna. E quindi dice sé essere andato alla detta porta, la quale discrive come fatta sia, e similmente uno angelo sopra quella stava, e come gli scrivesse sette P nella fronte e dentro il mettesse.
      La concubina di Titone antico 
già s'imbiancava al balco d'oriente, 
fuor de le braccia del suo dolce amico; 
      di gemme la sua fronte era lucente, 
poste in figura del freddo animale 
che con la coda percuote la gente; 
      e la notte, de' passi con che sale, 
fatti avea due nel loco ov'eravamo, 
e 'l terzo già chinava in giuso l'ale; 
      quand'io, che meco avea di quel d'Adamo, 
vinto dal sonno, in su l'erba inchinai 
là 've già tutti e cinque sedavamo. 
      Ne l'ora che comincia i tristi lai 
la rondinella presso a la mattina, 
forse a memoria de' suo' primi guai, 
      e che la mente nostra, peregrina 
più da la carne e men da' pensier presa, 
a le sue vision quasi è divina, 
      in sogno mi parea veder sospesa 
un'aguglia nel ciel con penne d'oro, 
con l'ali aperte e a calare intesa; 
      ed esser mi parea là dove fuoro 
abbandonati i suoi da Ganimede, 
quando fu ratto al sommo consistoro. 
      Fra me pensava: 'Forse questa fiede 
pur qui per uso, e forse d'altro loco 
disdegna di portarne suso in piede'. 
      Poi mi parea che, poi rotata un poco, 
terribil come folgor discendesse, 
e me rapisse suso infino al foco. 
      Ivi parea che ella e io ardesse; 
e sì lo 'ncendio imaginato cosse, 
che convenne che 'l sonno si rompesse. 
      Non altrimenti Achille si riscosse, 
li occhi svegliati rivolgendo in giro 
e non sappiendo là dove si fosse, 
      quando la madre da Chirón a Schiro 
trafuggò lui dormendo in le sue braccia, 
là onde poi li Greci il dipartiro; 
      che mi scoss'io, sì come da la faccia 
mi fuggì 'l sonno, e diventa' ismorto, 
come fa l'uom che, spaventato, agghiaccia. 
      Dallato m'era solo il mio conforto, 
e 'l sole er'alto già più che due ore, 
e 'l viso m'era a la marina torto. 
      «Non aver tema», disse il mio segnore; 
«fatti sicur, ché noi semo a buon punto; 
non stringer, ma rallarga ogne vigore. 
      Tu se' omai al purgatorio giunto: 
vedi là il balzo che 'l chiude dintorno; 
vedi l'entrata là 've par digiunto. 
      Dianzi, ne l'alba che procede al giorno, 
quando l'anima tua dentro dormia, 
sovra li fiori ond'è là giù addorno 
      venne una donna, e disse: "I' son Lucia; 
lasciatemi pigliar costui che dorme; 
sì l'agevolerò per la sua via". 
      Sordel rimase e l'altre genti forme; 
ella ti tolse, e come 'l dì fu chiaro, 
sen venne suso; e io per le sue orme. 
      Qui ti posò, ma pria mi dimostraro 
li occhi suoi belli quella intrata aperta; 
poi ella e 'l sonno ad una se n'andaro». 
      A guisa d'uom che 'n dubbio si raccerta 
e che muta in conforto sua paura, 
poi che la verità li è discoperta, 
      mi cambia' io; e come sanza cura 
vide me 'l duca mio, su per lo balzo 
si mosse, e io di rietro inver' l'altura. 
      Lettor, tu vedi ben com'io innalzo 
la mia matera, e però con più arte 
non ti maravigliar s'io la rincalzo. 
      Noi ci appressammo, ed eravamo in parte, 
che là dove pareami prima rotto, 
pur come un fesso che muro diparte, 
      vidi una porta, e tre gradi di sotto 
per gire ad essa, di color diversi, 
e un portier ch'ancor non facea motto. 
      E come l'occhio più e più v'apersi, 
vidil seder sovra 'l grado sovrano, 
tal ne la faccia ch'io non lo soffersi; 
      e una spada nuda avea in mano, 
che reflettea i raggi sì ver' noi, 
ch'io drizzava spesso il viso in vano. 
      «Dite costinci: che volete voi?», 
cominciò elli a dire, «ov'è la scorta? 
Guardate che 'l venir sù non vi nòi». 
      «Donna del ciel, di queste cose accorta», 
rispuose 'l mio maestro a lui, «pur dianzi 
ne disse: "Andate là: quivi è la porta"». 
      «Ed ella i passi vostri in bene avanzi», 
ricominciò il cortese portinaio: 
«Venite dunque a' nostri gradi innanzi». 
      Là ne venimmo; e lo scaglion primaio 
bianco marmo era sì pulito e terso, 
ch'io mi specchiai in esso qual io paio. 
      Era il secondo tinto più che perso, 
d'una petrina ruvida e arsiccia, 
crepata per lo lungo e per traverso. 
      Lo terzo, che di sopra s'ammassiccia, 
porfido mi parea, sì fiammeggiante, 
come sangue che fuor di vena spiccia. 
      Sovra questo tenea ambo le piante 
l'angel di Dio, sedendo in su la soglia, 
che mi sembiava pietra di diamante. 
      Per li tre gradi sù di buona voglia 
mi trasse il duca mio, dicendo: «Chiedi 
umilemente che 'l serrame scioglia». 
      Divoto mi gittai a' santi piedi; 
misericordia chiesi e ch'el m'aprisse, 
ma tre volte nel petto pria mi diedi. 
      Sette P ne la fronte mi descrisse 
col punton de la spada, e «Fa che lavi, 
quando se' dentro, queste piaghe», disse. 
      Cenere, o terra che secca si cavi, 
d'un color fora col suo vestimento; 
e di sotto da quel trasse due chiavi. 
      L'una era d'oro e l'altra era d'argento; 
pria con la bianca e poscia con la gialla 
fece a la porta sì, ch'i' fu' contento. 
      «Quandunque l'una d'este chiavi falla, 
che non si volga dritta per la toppa», 
diss'elli a noi, «non s'apre questa calla. 
      Più cara è l'una; ma l'altra vuol troppa 
d'arte e d'ingegno avanti che diserri, 
perch'ella è quella che 'l nodo digroppa. 
      Da Pier le tegno; e dissemi ch'i' erri 
anzi ad aprir ch'a tenerla serrata, 
pur che la gente a' piedi mi s'atterri». 
      Poi pinse l'uscio a la porta sacrata, 
dicendo: «Intrate; ma facciovi accorti 
che di fuor torna chi 'n dietro si guata». 
      E quando fuor ne' cardini distorti 
li spigoli di quella regge sacra, 
che di metallo son sonanti e forti, 
      non rugghiò sì né si mostrò sì acra 
Tarpea, come tolto le fu il buono 
Metello, per che poi rimase macra. 
      Io mi rivolsi attento al primo tuono, 
e 'Te Deum laudamus' mi parea 
udire in voce mista al dolce suono. 
      Tale imagine a punto mi rendea 
ciò ch'io udiva, qual prender si suole 
quando a cantar con organi si stea; 
      ch'or sì or no s'intendon le parole.
 
 

 
 

 
 
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Ultimo aggiornamento: 07 febbraio, 1998