Dante Alighieri

LA DIVINA COMMEDIA

PARADISO

Canto XXVIII

mercoledì 13 aprile Cielo IX: Primo Mobile o Cristallino 
Intelligenze motrici: Serafini
Dante, Beatrice cori angelici: I nove ordini angelici si presentano sotto forma di cerchi di fuoco concentrici che ruotano con diversa velocità, a seconda della maggiore o minore intensità dell'amore per Dio, e diversa luminosità intorno ad un punto luminosissimo, in cui è rappresentato Dio.
Comincia il canto vigesimottavo del Paradiso. Nel quale l'autore discrive la gloriosa festa de' nove cori degli angeli.
      Poscia che 'ncontro a la vita presente 
d'i miseri mortali aperse 'l vero 
quella che 'mparadisa la mia mente, 
      come in lo specchio fiamma di doppiero 
vede colui che se n'alluma retro, 
prima che l'abbia in vista o in pensiero, 
      e sé rivolge per veder se 'l vetro 
li dice il vero, e vede ch'el s'accorda 
con esso come nota con suo metro; 
      così la mia memoria si ricorda 
ch'io feci riguardando ne' belli occhi 
onde a pigliarmi fece Amor la corda. 
      E com'io mi rivolsi e furon tocchi 
li miei da ciò che pare in quel volume, 
quandunque nel suo giro ben s'adocchi, 
      un punto vidi che raggiava lume 
acuto sì, che 'l viso ch'elli affoca 
chiuder conviensi per lo forte acume; 
      e quale stella par quinci più poca, 
parrebbe luna, locata con esso 
come stella con stella si collòca. 
      Forse cotanto quanto pare appresso 
alo cigner la luce che 'l dipigne 
quando 'l vapor che 'l porta più è spesso, 
      distante intorno al punto un cerchio d'igne 
si girava sì ratto, ch'avria vinto 
quel moto che più tosto il mondo cigne; 
      e questo era d'un altro circumcinto, 
e quel dal terzo, e 'l terzo poi dal quarto, 
dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto. 
      Sopra seguiva il settimo sì sparto 
già di larghezza, che 'l messo di Iuno 
intero a contenerlo sarebbe arto. 
      Così l'ottavo e 'l nono; e chiascheduno 
più tardo si movea, secondo ch'era 
in numero distante più da l'uno; 
      e quello avea la fiamma più sincera 
cui men distava la favilla pura, 
credo, però che più di lei s'invera. 
      La donna mia, che mi vedea in cura 
forte sospeso, disse: «Da quel punto 
depende il cielo e tutta la natura. 
      Mira quel cerchio che più li è congiunto; 
e sappi che 'l suo muovere è sì tosto 
per l'affocato amore ond'elli è punto». 
      E io a lei: «Se 'l mondo fosse posto 
con l'ordine ch'io veggio in quelle rote, 
sazio m'avrebbe ciò che m'è proposto; 
      ma nel mondo sensibile si puote 
veder le volte tanto più divine, 
quant'elle son dal centro più remote. 
      Onde, se 'l mio disir dee aver fine 
in questo miro e angelico templo 
che solo amore e luce ha per confine, 
      udir convienmi ancor come l'essemplo 
e l'essemplare non vanno d'un modo, 
ché io per me indarno a ciò contemplo». 
      «Se li tuoi diti non sono a tal nodo 
sufficienti, non è maraviglia: 
tanto, per non tentare, è fatto sodo!». 
      Così la donna mia; poi disse: «Piglia 
quel ch'io ti dicerò, se vuo' saziarti; 
e intorno da esso t'assottiglia. 
      Li cerchi corporai sono ampi e arti 
secondo il più e 'l men de la virtute 
che si distende per tutte lor parti. 
      Maggior bontà vuol far maggior salute; 
maggior salute maggior corpo cape, 
s'elli ha le parti igualmente compiute. 
      Dunque costui che tutto quanto rape 
l'altro universo seco, corrisponde 
al cerchio che più ama e che più sape: 
      per che, se tu a la virtù circonde 
la tua misura, non a la parvenza 
de le sustanze che t'appaion tonde, 
      tu vederai mirabil consequenza 
di maggio a più e di minore a meno, 
in ciascun cielo, a sua intelligenza». 
      Come rimane splendido e sereno 
l'emisperio de l'aere, quando soffia 
Borea da quella guancia ond'è più leno, 
      per che si purga e risolve la roffia 
che pria turbava, sì che 'l ciel ne ride 
con le bellezze d'ogne sua paroffia; 
      così fec'io, poi che mi provide 
la donna mia del suo risponder chiaro, 
e come stella in cielo il ver si vide. 
      E poi che le parole sue restaro, 
non altrimenti ferro disfavilla 
che bolle, come i cerchi sfavillaro. 
      L'incendio suo seguiva ogne scintilla; 
ed eran tante, che 'l numero loro 
più che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla. 
      Io sentiva osannar di coro in coro 
al punto fisso che li tiene a li ubi
e terrà sempre, ne' quai sempre fuoro. 
      E quella che vedea i pensier dubi 
ne la mia mente, disse: «I cerchi primi 
t'hanno mostrato Serafi e Cherubi. 
      Così veloci seguono i suoi vimi, 
per somigliarsi al punto quanto ponno; 
e posson quanto a veder son soblimi. 
      Quelli altri amori che 'ntorno li vonno, 
si chiaman Troni del divino aspetto, 
per che 'l primo ternaro terminonno; 
      e dei saper che tutti hanno diletto 
quanto la sua veduta si profonda 
nel vero in che si queta ogne intelletto. 
      Quinci si può veder come si fonda 
l'essere beato ne l'atto che vede, 
non in quel ch'ama, che poscia seconda; 
      e del vedere è misura mercede, 
che grazia partorisce e buona voglia: 
così di grado in grado si procede. 
      L'altro ternaro, che così germoglia 
in questa primavera sempiterna 
che notturno Ariete non dispoglia, 
      perpetualemente 'Osanna' sberna 
con tre melode, che suonano in tree 
ordini di letizia onde s'interna. 
      In essa gerarcia son l'altre dee: 
prima Dominazioni, e poi Virtudi; 
l'ordine terzo di Podestadi èe. 
      Poscia ne' due penultimi tripudi 
Principati e Arcangeli si girano; 
l'ultimo è tutto d'Angelici ludi. 
      Questi ordini di sù tutti s'ammirano, 
e di giù vincon sì, che verso Dio 
tutti tirati sono e tutti tirano. 
      E Dionisio con tanto disio 
a contemplar questi ordini si mise, 
che li nomò e distinse com'io. 
      Ma Gregorio da lui poi si divise; 
onde, sì tosto come li occhi aperse 
in questo ciel, di sé medesmo rise. 
      E se tanto secreto ver proferse 
mortale in terra, non voglio ch'ammiri; 
ché chi 'l vide qua sù gliel discoperse 
      con altro assai del ver di questi giri».
 
 

 
 

 
 
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Canto XXIX

mercoledì 13 aprile Cielo IX: Primo Mobile o Cristallino 
Intelligenze motrici: Serafini
Beatrice, Dante cori angelici: I nove ordini angelici si presentano sotto forma di cerchi di fuoco concentrici che ruotano con diversa velocità, a seconda della maggiore o minore intensità dell'amore per Dio, e diversa luminosità intorno ad un punto luminosissimo, in cui è rappresentato Dio.
Comincia il canto vigesimonono del Paradiso. Nel quale Beatrice dimostra all'autore l'ordine della creazione delle cose; e appresso ragiona della natura angelica; e ultimamente parla contro alla vanità d'assai moderni predicatori.
      Quando ambedue li figli di Latona, 
coperti del Montone e de la Libra, 
fanno de l'orizzonte insieme zona, 
      quant'è dal punto che 'l cenìt inlibra 
infin che l'uno e l'altro da quel cinto, 
cambiando l'emisperio, si dilibra, 
      tanto, col volto di riso dipinto, 
si tacque Beatrice, riguardando 
fiso nel punto che m'avea vinto. 
      Poi cominciò: «Io dico, e non dimando, 
quel che tu vuoli udir, perch'io l'ho visto 
là 've s'appunta ogne ubi e ogne quando
      Non per aver a sé di bene acquisto, 
ch'esser non può, ma perché suo splendore 
potesse, risplendendo, dir "Subsisto", 
      in sua etternità di tempo fore, 
fuor d'ogne altro comprender, come i piacque, 
s'aperse in nuovi amor l'etterno amore. 
      Né prima quasi torpente si giacque; 
ché né prima né poscia procedette 
lo discorrer di Dio sovra quest'acque. 
      Forma e materia, congiunte e purette, 
usciro ad esser che non avia fallo, 
come d'arco tricordo tre saette. 
      E come in vetro, in ambra o in cristallo 
raggio resplende sì, che dal venire 
a l'esser tutto non è intervallo, 
      così 'l triforme effetto del suo sire 
ne l'esser suo raggiò insieme tutto 
sanza distinzione in essordire. 
      Concreato fu ordine e costrutto 
a le sustanze; e quelle furon cima 
nel mondo in che puro atto fu produtto; 
      pura potenza tenne la parte ima; 
nel mezzo strinse potenza con atto 
tal vime, che già mai non si divima. 
      Ieronimo vi scrisse lungo tratto 
di secoli de li angeli creati 
anzi che l'altro mondo fosse fatto; 
      ma questo vero è scritto in molti lati 
da li scrittor de lo Spirito Santo, 
e tu te n'avvedrai se bene agguati; 
      e anche la ragione il vede alquanto, 
che non concederebbe che ' motori 
sanza sua perfezion fosser cotanto. 
      Or sai tu dove e quando questi amori 
furon creati e come: sì che spenti 
nel tuo disio già son tre ardori. 
      Né giugneriesi, numerando, al venti 
sì tosto, come de li angeli parte 
turbò il suggetto d'i vostri alementi. 
      L'altra rimase, e cominciò quest'arte 
che tu discerni, con tanto diletto, 
che mai da circuir non si diparte. 
      Principio del cader fu il maladetto 
superbir di colui che tu vedesti 
da tutti i pesi del mondo costretto. 
      Quelli che vedi qui furon modesti 
a riconoscer sé da la bontate 
che li avea fatti a tanto intender presti: 
      per che le viste lor furo essaltate 
con grazia illuminante e con lor merto, 
si c'hanno ferma e piena volontate; 
      e non voglio che dubbi, ma sia certo, 
che ricever la grazia è meritorio 
secondo che l'affetto l'è aperto. 
      Omai dintorno a questo consistorio 
puoi contemplare assai, se le parole 
mie son ricolte, sanz'altro aiutorio. 
      Ma perché 'n terra per le vostre scole 
si legge che l'angelica natura 
è tal, che 'ntende e si ricorda e vole, 
      ancor dirò, perché tu veggi pura 
la verità che là giù si confonde, 
equivocando in sì fatta lettura. 
      Queste sustanze, poi che fur gioconde 
de la faccia di Dio, non volser viso 
da essa, da cui nulla si nasconde: 
      però non hanno vedere interciso 
da novo obietto, e però non bisogna 
rememorar per concetto diviso; 
      sì che là giù, non dormendo, si sogna, 
credendo e non credendo dicer vero; 
ma ne l'uno è più colpa e più vergogna. 
      Voi non andate giù per un sentiero 
filosofando: tanto vi trasporta 
l'amor de l'apparenza e 'l suo pensiero! 
      E ancor questo qua sù si comporta 
con men disdegno che quando è posposta 
la divina Scrittura o quando è torta. 
      Non vi si pensa quanto sangue costa 
seminarla nel mondo e quanto piace 
chi umilmente con essa s'accosta. 
      Per apparer ciascun s'ingegna e face 
sue invenzioni; e quelle son trascorse 
da' predicanti e 'l Vangelio si tace. 
      Un dice che la luna si ritorse 
ne la passion di Cristo e s'interpuose, 
per che 'l lume del sol giù non si porse; 
      e mente, ché la luce si nascose 
da sé: però a li Spani e a l'Indi 
come a' Giudei tale eclissi rispuose. 
      Non ha Fiorenza tanti Lapi e Bindi 
quante sì fatte favole per anno 
in pergamo si gridan quinci e quindi; 
      sì che le pecorelle, che non sanno, 
tornan del pasco pasciute di vento, 
e non le scusa non veder lo danno. 
      Non disse Cristo al suo primo convento: 
'Andate, e predicate al mondo ciance'; 
ma diede lor verace fondamento; 
      e quel tanto sonò ne le sue guance, 
sì ch'a pugnar per accender la fede 
de l'Evangelio fero scudo e lance. 
      Ora si va con motti e con iscede 
a predicare, e pur che ben si rida, 
gonfia il cappuccio e più non si richiede. 
      Ma tale uccel nel becchetto s'annida, 
che se 'l vulgo il vedesse, vederebbe 
la perdonanza di ch'el si confida; 
      per cui tanta stoltezza in terra crebbe, 
che, sanza prova d'alcun testimonio, 
ad ogne promession si correrebbe. 
      Di questo ingrassa il porco sant'Antonio, 
e altri assai che sono ancor più porci, 
pagando di moneta sanza conio. 
      Ma perché siam digressi assai, ritorci 
li occhi oramai verso la dritta strada, 
sì che la via col tempo si raccorci. 
      Questa natura sì oltre s'ingrada 
in numero, che mai non fu loquela 
né concetto mortal che tanto vada; 
      e se tu guardi quel che si revela 
per Daniel, vedrai che 'n sue migliaia 
determinato numero si cela. 
      La prima luce, che tutta la raia, 
per tanti modi in essa si recepe, 
quanti son li splendori a chi s'appaia. 
      Onde, però che a l'atto che concepe 
segue l'affetto, d'amar la dolcezza 
diversamente in essa ferve e tepe. 
      Vedi l'eccelso omai e la larghezza 
de l'etterno valor, poscia che tanti 
speculi fatti s'ha in che si spezza, 
      uno manendo in sé come davanti».
 
 

 
 

 
 
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Canto XXX

mercoledì 13 aprile Cielo X: Empireo, rosa dei Beati Beatrice, Dante Rosa dei Beati: i beati si presentano in bianche vesti, disposti ad anfiteatro (i petali) intorno ad un immenso lago di luce della Grazia divina (il giallo interno)
Comincia il canto trigesimo del Paradiso. Nel quale l'autore scrive sé esser salito nel decimo cielo; dove prima in forma d'un fiume, poi in forma d'una rosa, vede la celeste corte, e in quella la sedia d'Arrigo imperadore; del quale e di Clemente papa Beatrice alcuna cosa gli predice.
      Forse semilia miglia di lontano 
ci ferve l'ora sesta, e questo mondo 
china già l'ombra quasi al letto piano, 
      quando 'l mezzo del cielo, a noi profondo, 
comincia a farsi tal, ch'alcuna stella 
perde il parere infino a questo fondo; 
      e come vien la chiarissima ancella 
del sol più oltre, così 'l ciel si chiude 
di vista in vista infino a la più bella. 
      Non altrimenti il triunfo che lude 
sempre dintorno al punto che mi vinse, 
parendo inchiuso da quel ch'elli 'nchiude, 
      a poco a poco al mio veder si stinse: 
per che tornar con li occhi a Beatrice 
nulla vedere e amor mi costrinse. 
      Se quanto infino a qui di lei si dice 
fosse conchiuso tutto in una loda, 
poca sarebbe a fornir questa vice. 
      La bellezza ch'io vidi si trasmoda 
non pur di là da noi, ma certo io credo 
che solo il suo fattor tutta la goda. 
      Da questo passo vinto mi concedo 
più che già mai da punto di suo tema 
soprato fosse comico o tragedo: 
      ché, come sole in viso che più trema, 
così lo rimembrar del dolce riso 
la mente mia da me medesmo scema. 
      Dal primo giorno ch'i' vidi il suo viso 
in questa vita, infino a questa vista, 
non m'è il seguire al mio cantar preciso; 
      ma or convien che mio seguir desista 
più dietro a sua bellezza, poetando, 
come a l'ultimo suo ciascuno artista. 
      Cotal qual io lascio a maggior bando 
che quel de la mia tuba, che deduce 
l'ardua sua matera terminando, 
      con atto e voce di spedito duce 
ricominciò: «Noi siamo usciti fore 
del maggior corpo al ciel ch'è pura luce: 
      luce intellettual, piena d'amore; 
amor di vero ben, pien di letizia; 
letizia che trascende ogne dolzore. 
      Qui vederai l'una e l'altra milizia 
di paradiso, e l'una in quelli aspetti 
che tu vedrai a l'ultima giustizia». 
      Come sùbito lampo che discetti 
li spiriti visivi, sì che priva 
da l'atto l'occhio di più forti obietti, 
      così mi circunfulse luce viva, 
e lasciommi fasciato di tal velo 
del suo fulgor, che nulla m'appariva. 
      «Sempre l'amor che queta questo cielo 
accoglie in sé con sì fatta salute, 
per far disposto a sua fiamma il candelo». 
      Non fur più tosto dentro a me venute 
queste parole brievi, ch'io compresi 
me sormontar di sopr'a mia virtute; 
      e di novella vista mi raccesi 
tale, che nulla luce è tanto mera, 
che li occhi miei non si fosser difesi; 
      e vidi lume in forma di rivera 
fulvido di fulgore, intra due rive 
dipinte di mirabil primavera. 
      Di tal fiumana uscian faville vive, 
e d'ogne parte si mettìen ne' fiori, 
quasi rubin che oro circunscrive; 
      poi, come inebriate da li odori, 
riprofondavan sé nel miro gurge; 
e s'una intrava, un'altra n'uscia fori. 
      «L'alto disio che mo t'infiamma e urge, 
d'aver notizia di ciò che tu vei, 
tanto mi piace più quanto più turge; 
      ma di quest'acqua convien che tu bei 
prima che tanta sete in te si sazi»: 
così mi disse il sol de li occhi miei. 
      Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi 
ch'entrano ed escono e 'l rider de l'erbe 
son di lor vero umbriferi prefazi. 
      Non che da sé sian queste cose acerbe; 
ma è difetto da la parte tua, 
che non hai viste ancor tanto superbe». 
      Non è fantin che sì sùbito rua 
col volto verso il latte, se si svegli 
molto tardato da l'usanza sua, 
      come fec'io, per far migliori spegli 
ancor de li occhi, chinandomi a l'onda 
che si deriva perché vi s'immegli; 
      e sì come di lei bevve la gronda 
de le palpebre mie, così mi parve 
di sua lunghezza divenuta tonda. 
      Poi, come gente stata sotto larve, 
che pare altro che prima, se si sveste 
la sembianza non sua in che disparve, 
      così mi si cambiaro in maggior feste 
li fiori e le faville, sì ch'io vidi 
ambo le corti del ciel manifeste. 
      O isplendor di Dio, per cu' io vidi 
l'alto triunfo del regno verace, 
dammi virtù a dir com'io il vidi! 
      Lume è là sù che visibile face 
lo creatore a quella creatura 
che solo in lui vedere ha la sua pace. 
      E' si distende in circular figura, 
in tanto che la sua circunferenza 
sarebbe al sol troppo larga cintura. 
      Fassi di raggio tutta sua parvenza 
reflesso al sommo del mobile primo, 
che prende quindi vivere e potenza. 
      E come clivo in acqua di suo imo 
si specchia, quasi per vedersi addorno, 
quando è nel verde e ne' fioretti opimo, 
      sì, soprastando al lume intorno intorno, 
vidi specchiarsi in più di mille soglie 
quanto di noi là sù fatto ha ritorno. 
      E se l'infimo grado in sé raccoglie 
sì grande lume, quanta è la larghezza 
di questa rosa ne l'estreme foglie! 
      La vista mia ne l'ampio e ne l'altezza 
non si smarriva, ma tutto prendeva 
il quanto e 'l quale di quella allegrezza. 
      Presso e lontano, lì, né pon né leva: 
ché dove Dio sanza mezzo governa, 
la legge natural nulla rileva. 
      Nel giallo de la rosa sempiterna, 
che si digrada e dilata e redole 
odor di lode al sol che sempre verna, 
      qual è colui che tace e dicer vole, 
mi trasse Beatrice, e disse: «Mira 
quanto è 'l convento de le bianche stole! 
      Vedi nostra città quant'ella gira; 
vedi li nostri scanni sì ripieni, 
che poca gente più ci si disira. 
      E 'n quel gran seggio a che tu li occhi tieni 
per la corona che già v'è sù posta, 
prima che tu a queste nozze ceni, 
      sederà l'alma, che fia giù agosta, 
de l'alto Arrigo, ch'a drizzare Italia 
verrà in prima ch'ella sia disposta. 
      La cieca cupidigia che v'ammalia 
simili fatti v'ha al fantolino 
che muor per fame e caccia via la balia. 
      E fia prefetto nel foro divino 
allora tal, che palese e coverto 
non anderà con lui per un cammino. 
      Ma poco poi sarà da Dio sofferto 
nel santo officio; ch'el sarà detruso 
là dove Simon mago è per suo merto, 
      e farà quel d'Alagna intrar più giuso».
 
 

 
 

 
 
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Ultimo aggiornamento: 07 febbraio, 1998