Dante Alighieri

LA DIVINA COMMEDIA

PARADISO

Canto XXII

mercoledì 13 aprile Cielo VII: Saturno 
Intelligenze motrici: Troni  
Cielo VIII: Stelle Fisse 
Intelligenze motrici: Cherubini
S. Benedetto,
S. Macario,
S. Romualdo degli Onesti
Spiriti contemplativi: salgono e scendono lungo i gradini di una scala d'oro di cui non si scorge la fine. 
Spiriti trionfanti: si presentano come migliaia di luci, illuminati da Gesù cristo, e cantano lodi alla Vergine.
Comincia il canto vigesimosecondo del Paradiso. Nel quale l'autore narra come parlò con san Benedetto, il quale più altri santi spiriti contemplativi gli nominò, e più cose gli disse in vitùpero de' presenti religiosi; e poi dietro a lui su per la scala se ne salì nell'ottavo cielo; e quindi vòlto in giù, discrive quali vedesse la terra e tutti gli altri cieli.
      Oppresso di stupore, a la mia guida 
mi volsi, come parvol che ricorre 
sempre colà dove più si confida; 
      e quella, come madre che soccorre 
sùbito al figlio palido e anelo 
con la sua voce, che 'l suol ben disporre, 
      mi disse: «Non sai tu che tu se' in cielo? 
e non sai tu che 'l cielo è tutto santo, 
e ciò che ci si fa vien da buon zelo? 
      Come t'avrebbe trasmutato il canto, 
e io ridendo, mo pensar lo puoi, 
poscia che 'l grido t'ha mosso cotanto; 
      nel qual, se 'nteso avessi i prieghi suoi, 
già ti sarebbe nota la vendetta 
che tu vedrai innanzi che tu muoi. 
      La spada di qua sù non taglia in fretta 
né tardo, ma' ch'al parer di colui 
che disiando o temendo l'aspetta. 
      Ma rivolgiti omai inverso altrui; 
ch'assai illustri spiriti vedrai, 
se com'io dico l'aspetto redui». 
      Come a lei piacque, li occhi ritornai, 
e vidi cento sperule che 'nsieme 
più s'abbellivan con mutui rai. 
      Io stava come quei che 'n sé repreme 
la punta del disio, e non s'attenta 
di domandar, sì del troppo si teme; 
      e la maggiore e la più luculenta 
di quelle margherite innanzi fessi, 
per far di sé la mia voglia contenta. 
      Poi dentro a lei udi' : «Se tu vedessi 
com'io la carità che tra noi arde, 
li tuoi concetti sarebbero espressi. 
      Ma perché tu, aspettando, non tarde 
a l'alto fine, io ti farò risposta 
pur al pensier, da che sì ti riguarde. 
      Quel monte a cui Cassino è ne la costa 
fu frequentato già in su la cima 
da la gente ingannata e mal disposta; 
      e quel son io che sù vi portai prima 
lo nome di colui che 'n terra addusse 
la verità che tanto ci soblima; 
      e tanta grazia sopra me relusse, 
ch'io ritrassi le ville circunstanti 
da l'empio cólto che 'l mondo sedusse. 
      Questi altri fuochi tutti contemplanti 
uomini fuoro, accesi di quel caldo 
che fa nascere i fiori e ' frutti santi. 
      Qui è Maccario, qui è Romoaldo, 
qui son li frati miei che dentro ai chiostri 
fermar li piedi e tennero il cor saldo». 
      E io a lui: «L'affetto che dimostri 
meco parlando, e la buona sembianza 
ch'io veggio e noto in tutti li ardor vostri, 
      così m'ha dilatata mia fidanza, 
come 'l sol fa la rosa quando aperta 
tanto divien quant'ell'ha di possanza. 
      Però ti priego, e tu, padre, m'accerta 
s'io posso prender tanta grazia, ch'io 
ti veggia con imagine scoverta». 
      Ond'elli: «Frate, il tuo alto disio 
s'adempierà in su l'ultima spera, 
ove s'adempion tutti li altri e 'l mio. 
      Ivi è perfetta, matura e intera 
ciascuna disianza; in quella sola 
è ogne parte là ove sempr'era, 
      perché non è in loco e non s'impola; 
e nostra scala infino ad essa varca, 
onde così dal viso ti s'invola. 
      Infin là sù la vide il patriarca 
Iacobbe porger la superna parte, 
quando li apparve d'angeli sì carca. 
      Ma, per salirla, mo nessun diparte 
da terra i piedi, e la regola mia 
rimasa è per danno de le carte. 
      Le mura che solieno esser badia 
fatte sono spelonche, e le cocolle 
sacca son piene di farina ria. 
      Ma grave usura tanto non si tolle 
contra 'l piacer di Dio, quanto quel frutto 
che fa il cor de' monaci sì folle; 
      ché quantunque la Chiesa guarda, tutto 
è de la gente che per Dio dimanda; 
non di parenti né d'altro più brutto. 
      La carne d'i mortali è tanto blanda, 
che giù non basta buon cominciamento 
dal nascer de la quercia al far la ghianda. 
      Pier cominciò sanz'oro e sanz'argento, 
e io con orazione e con digiuno, 
e Francesco umilmente il suo convento; 
      e se guardi 'l principio di ciascuno, 
poscia riguardi là dov'è trascorso, 
tu vederai del bianco fatto bruno. 
      Veramente Iordan vòlto retrorso 
più fu, e 'l mar fuggir, quando Dio volse, 
mirabile a veder che qui 'l soccorso». 
      Così mi disse, e indi si raccolse 
al suo collegio, e 'l collegio si strinse; 
poi, come turbo, in sù tutto s'avvolse. 
      La dolce donna dietro a lor mi pinse 
con un sol cenno su per quella scala, 
sì sua virtù la mia natura vinse; 
      né mai qua giù dove si monta e cala 
naturalmente, fu sì ratto moto 
ch'agguagliar si potesse a la mia ala. 
      S'io torni mai, lettore, a quel divoto 
triunfo per lo quale io piango spesso 
le mie peccata e 'l petto mi percuoto, 
      tu non avresti in tanto tratto e messo 
nel foco il dito, in quant'io vidi 'l segno 
che segue il Tauro e fui dentro da esso. 
      O gloriose stelle, o lume pregno 
di gran virtù, dal quale io riconosco 
tutto, qual che si sia, il mio ingegno, 
      con voi nasceva e s'ascondeva vosco 
quelli ch'è padre d'ogne mortal vita, 
quand'io senti' di prima l'aere tosco; 
      e poi, quando mi fu grazia largita 
d'entrar ne l'alta rota che vi gira, 
la vostra region mi fu sortita. 
      A voi divotamente ora sospira 
l'anima mia, per acquistar virtute 
al passo forte che a sé la tira. 
      «Tu se' sì presso a l'ultima salute», 
cominciò Beatrice, «che tu dei 
aver le luci tue chiare e acute; 
      e però, prima che tu più t'inlei, 
rimira in giù, e vedi quanto mondo 
sotto li piedi già esser ti fei; 
      sì che 'l tuo cor, quantunque può, giocondo 
s'appresenti a la turba triunfante 
che lieta vien per questo etera tondo». 
      Col viso ritornai per tutte quante 
le sette spere, e vidi questo globo 
tal, ch'io sorrisi del suo vil sembiante; 
      e quel consiglio per migliore approbo 
che l'ha per meno; e chi ad altro pensa 
chiamar si puote veramente probo. 
      Vidi la figlia di Latona incensa 
sanza quell'ombra che mi fu cagione 
per che già la credetti rara e densa. 
      L'aspetto del tuo nato, Iperione, 
quivi sostenni, e vidi com'si move 
circa e vicino a lui Maia e Dione. 
      Quindi m'apparve il temperar di Giove 
tra 'l padre e 'l figlio: e quindi mi fu chiaro 
il variar che fanno di lor dove; 
       e tutti e sette mi si dimostraro 
quanto son grandi e quanto son veloci 
e come sono in distante riparo. 
      L'aiuola che ci fa tanto feroci, 
volgendom'io con li etterni Gemelli, 
tutta m'apparve da' colli a le foci; 
      poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.
 
 

 
 

 
 
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Canto XXIII

mercoledì 13 aprile Cielo VIII: Stelle Fisse 
Intelligenze motrici: Cherubini
Cristo, Maria,
s. Pietro
Spiriti trionfanti: si presentano come migliaia di luci, illuminati da Gesù cristo, e cantano lodi alla Vergine. 
canto: Regina celi
Comincia il canto vigesimoterzo del Paradiso. Nel quale l'autore discrive come la celeste milizia mirabil festa facesse dintorno alla Vergine Maria.
      Come l'augello, intra l'amate fronde, 
posato al nido de' suoi dolci nati 
la notte che le cose ci nasconde, 
      che, per veder li aspetti disiati 
e per trovar lo cibo onde li pasca, 
in che gravi labor li sono aggrati, 
      previene il tempo in su aperta frasca, 
e con ardente affetto il sole aspetta, 
fiso guardando pur che l'alba nasca; 
      così la donna mia stava eretta 
e attenta, rivolta inver' la plaga 
sotto la quale il sol mostra men fretta: 
      sì che, veggendola io sospesa e vaga, 
fecimi qual è quei che disiando 
altro vorria, e sperando s'appaga. 
      Ma poco fu tra uno e altro quando, 
del mio attender, dico, e del vedere 
lo ciel venir più e più rischiarando; 
      e Beatrice disse: «Ecco le schiere 
del triunfo di Cristo e tutto 'l frutto 
ricolto del girar di queste spere!». 
      Pariemi che 'l suo viso ardesse tutto, 
e li occhi avea di letizia sì pieni, 
che passarmen convien sanza costrutto. 
      Quale ne' plenilunii sereni 
Trivia ride tra le ninfe etterne 
che dipingon lo ciel per tutti i seni, 
      vid'i' sopra migliaia di lucerne 
un sol che tutte quante l'accendea, 
come fa 'l nostro le viste superne; 
      e per la viva luce trasparea 
la lucente sustanza tanto chiara 
nel viso mio, che non la sostenea. 
      Oh Beatrice, dolce guida e cara! 
Ella mi disse: «Quel che ti sobranza 
è virtù da cui nulla si ripara. 
      Quivi è la sapienza e la possanza 
ch'aprì le strade tra 'l cielo e la terra, 
onde fu già sì lunga disianza». 
      Come foco di nube si diserra 
per dilatarsi sì che non vi cape, 
e fuor di sua natura in giù s'atterra, 
      la mente mia così, tra quelle dape 
fatta più grande, di sé stessa uscìo, 
e che si fesse rimembrar non sape. 
      «Apri li occhi e riguarda qual son io; 
tu hai vedute cose, che possente 
se' fatto a sostener lo riso mio». 
      Io era come quei che si risente 
di visione oblita e che s'ingegna 
indarno di ridurlasi a la mente, 
      quand'io udi' questa proferta, degna 
di tanto grato, che mai non si stingue 
del libro che 'l preterito rassegna. 
      Se mo sonasser tutte quelle lingue 
che Polimnia con le suore fero 
del latte lor dolcissimo più pingue, 
      per aiutarmi, al millesmo del vero 
non si verria, cantando il santo riso 
e quanto il santo aspetto facea mero; 
      e così, figurando il paradiso, 
convien saltar lo sacrato poema, 
come chi trova suo cammin riciso. 
      Ma chi pensasse il ponderoso tema 
e l'omero mortal che se ne carca, 
nol biasmerebbe se sott'esso trema: 
      non è pareggio da picciola barca 
quel che fendendo va l'ardita prora, 
né da nocchier ch'a sé medesmo parca. 
      «Perché la faccia mia sì t'innamora, 
che tu non ti rivolgi al bel giardino 
che sotto i raggi di Cristo s'infiora? 
      Quivi è la rosa in che 'l verbo divino 
carne si fece; quivi son li gigli 
al cui odor si prese il buon cammino». 
      Così Beatrice; e io, che a' suoi consigli 
tutto era pronto, ancora mi rendei 
a la battaglia de' debili cigli. 
      Come a raggio di sol che puro mei 
per fratta nube, già prato di fiori 
vider, coverti d'ombra, li occhi miei; 
      vid'io così più turbe di splendori, 
folgorate di sù da raggi ardenti, 
sanza veder principio di folgóri. 
      O benigna vertù che sì li 'mprenti, 
sù t'essaltasti, per largirmi loco 
a li occhi lì che non t'eran possenti. 
      Il nome del bel fior ch'io sempre invoco 
e mane e sera, tutto mi ristrinse 
l'animo ad avvisar lo maggior foco; 
      e come ambo le luci mi dipinse 
il quale e il quanto de la viva stella 
che là sù vince come qua giù vinse, 
      per entro il cielo scese una facella, 
formata in cerchio a guisa di corona, 
e cinsela e girossi intorno ad ella. 
      Qualunque melodia più dolce suona 
qua giù e più a sé l'anima tira, 
parrebbe nube che squarciata tona, 
      comparata al sonar di quella lira 
onde si coronava il bel zaffiro 
del quale il ciel più chiaro s'inzaffira. 
      «Io sono amore angelico, che giro 
l'alta letizia che spira del ventre 
che fu albergo del nostro disiro; 
      e girerommi, donna del ciel, mentre 
che seguirai tuo figlio, e farai dia 
più la spera suprema perché lì entre». 
       Così la circulata melodia 
si sigillava, e tutti li altri lumi 
facean sonare il nome di Maria. 
      Lo real manto di tutti i volumi 
del mondo, che più ferve e più s'avviva 
ne l'alito di Dio e nei costumi, 
      avea sopra di noi l'interna riva 
tanto distante, che la sua parvenza, 
là dov'io era, ancor non appariva: 
      però non ebber li occhi miei potenza 
di seguitar la coronata fiamma 
che si levò appresso sua semenza. 
      E come fantolin che 'nver' la mamma 
tende le braccia, poi che 'l latte prese, 
per l'animo che 'nfin di fuor s'infiamma; 
      ciascun di quei candori in sù si stese 
con la sua cima, sì che l'alto affetto 
ch'elli avieno a Maria mi fu palese. 
      Indi rimaser lì nel mio cospetto, 
'Regina celi' cantando sì dolce, 
che mai da me non si partì 'l diletto. 
      Oh quanta è l'ubertà che si soffolce 
in quelle arche ricchissime che fuoro 
a seminar qua giù buone bobolce! 
      Quivi si vive e gode del tesoro 
che s'acquistò piangendo ne lo essilio 
di Babillòn, ove si lasciò l'oro. 
      Quivi triunfa, sotto l'alto Filio 
di Dio e di Maria, di sua vittoria, 
e con l'antico e col novo concilio, 
      colui che tien le chiavi di tal gloria.
 
 

 
 

 
 
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Canto XXIV

mercoledì 13 aprile Cielo VIII: Stelle Fisse 
Intelligenze motrici: Cherubini
Beatrice, Dante, s. Pietro Spiriti trionfanti: si presentano come migliaia di luci, illuminati da Gesù cristo, e cantano lodi alla Vergine. 
Professione di fede di Dante.
Comincia il canto vigesimoquarto del Paradiso. Nel quale l'autore, con San Pietro parlando, mostra quello che è fede e quello ch'e' crede.
      «O sodalizio eletto a la gran cena 
del benedetto Agnello, il qual vi ciba 
sì, che la vostra voglia è sempre piena, 
      se per grazia di Dio questi preliba 
di quel che cade de la vostra mensa, 
prima che morte tempo li prescriba, 
       ponete mente a l'affezione immensa 
e roratelo alquanto: voi bevete 
sempre del fonte onde vien quel ch'ei pensa». 
      Così Beatrice; e quelle anime liete 
si fero spere sopra fissi poli, 
fiammando, a volte, a guisa di comete. 
      E come cerchi in tempra d'oriuoli 
si giran sì, che 'l primo a chi pon mente 
quieto pare, e l'ultimo che voli; 
      così quelle carole, differente- 
mente danzando, de la sua ricchezza 
mi facieno stimar, veloci e lente. 
      Di quella ch'io notai di più carezza 
vid'io uscire un foco sì felice, 
che nullo vi lasciò di più chiarezza; 
      e tre fiate intorno di Beatrice 
si volse con un canto tanto divo, 
che la mia fantasia nol mi ridice. 
      Però salta la penna e non lo scrivo: 
ché l'imagine nostra a cotai pieghe, 
non che 'l parlare, è troppo color vivo. 
       «O santa suora mia che sì ne prieghe 
divota, per lo tuo ardente affetto 
da quella bella spera mi disleghe». 
      Poscia fermato, il foco benedetto 
a la mia donna dirizzò lo spiro, 
che favellò così com'i' ho detto. 
      Ed ella: «O luce etterna del gran viro 
a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi, 
ch'ei portò giù, di questo gaudio miro, 
      tenta costui di punti lievi e gravi, 
come ti piace, intorno de la fede, 
per la qual tu su per lo mare andavi. 
      S'elli ama bene e bene spera e crede, 
non t'è occulto, perché 'l viso hai quivi 
dov'ogne cosa dipinta si vede; 
      ma perché questo regno ha fatto civi 
per la verace fede, a gloriarla, 
di lei parlare è ben ch'a lui arrivi». 
      Sì come il baccialier s'arma e non parla 
fin che 'l maestro la question propone, 
per approvarla, non per terminarla, 
      così m'armava io d'ogne ragione 
mentre ch'ella dicea, per esser presto 
a tal querente e a tal professione. 
      «Di', buon Cristiano, fatti manifesto: 
fede che è?». Ond'io levai la fronte 
in quella luce onde spirava questo; 
      poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte 
sembianze femmi perch'io spandessi 
l'acqua di fuor del mio interno fonte. 
      «La Grazia che mi dà ch'io mi confessi», 
comincia' io, «da l'alto primipilo, 
faccia li miei concetti bene espressi». 
      E seguitai: «Come 'l verace stilo 
ne scrisse, padre, del tuo caro frate 
che mise teco Roma nel buon filo, 
      fede è sustanza di cose sperate 
e argomento de le non parventi; 
e questa pare a me sua quiditate». 
      Allora udi' : «Dirittamente senti, 
se bene intendi perché la ripuose 
tra le sustanze, e poi tra li argomenti». 
      E io appresso: «Le profonde cose 
che mi largiscon qui la lor parvenza, 
a li occhi di là giù son sì ascose, 
      che l'esser loro v'è in sola credenza, 
sopra la qual si fonda l'alta spene; 
e però di sustanza prende intenza. 
      E da questa credenza ci convene 
silogizzar, sanz'avere altra vista: 
però intenza d'argomento tene». 
      Allora udi': «Se quantunque s'acquista 
giù per dottrina, fosse così 'nteso, 
non lì avria loco ingegno di sofista». 
      Così spirò di quello amore acceso; 
indi soggiunse: «Assai bene è trascorsa 
d'esta moneta già la lega e 'l peso; 
      ma dimmi se tu l'hai ne la tua borsa». 
Ond'io: «Sì ho, sì lucida e sì tonda, 
che nel suo conio nulla mi s'inforsa». 
      Appresso uscì de la luce profonda 
che lì splendeva: «Questa cara gioia 
sopra la quale ogne virtù si fonda, 
      onde ti venne?». E io: «La larga ploia 
de lo Spirito Santo, ch'è diffusa 
in su le vecchie e 'n su le nuove cuoia, 
      è silogismo che la m'ha conchiusa 
acutamente sì, che 'nverso d'ella 
ogne dimostrazion mi pare ottusa». 
      Io udi' poi: «L'antica e la novella 
proposizion che così ti conchiude, 
perché l'hai tu per divina favella?». 
      E io: «La prova che 'l ver mi dischiude, 
son l'opere seguite, a che natura 
non scalda ferro mai né batte incude». 
      Risposto fummi: «Di', chi t'assicura 
che quell'opere fosser? Quel medesmo 
che vuol provarsi, non altri, il ti giura». 
      «Se 'l mondo si rivolse al cristianesmo», 
diss'io, «sanza miracoli, quest'uno 
è tal, che li altri non sono il centesmo: 
      ché tu intrasti povero e digiuno 
in campo, a seminar la buona pianta 
che fu già vite e ora è fatta pruno». 
      Finito questo, l'alta corte santa 
risonò per le spere un 'Dio laudamo' 
ne la melode che là sù si canta. 
      E quel baron che sì di ramo in ramo, 
essaminando, già tratto m'avea, 
che a l'ultime fronde appressavamo, 
      ricominciò: «La Grazia, che donnea 
con la tua mente, la bocca t'aperse 
infino a qui come aprir si dovea, 
      sì ch'io approvo ciò che fuori emerse; 
ma or conviene espremer quel che credi, 
e onde a la credenza tua s'offerse». 
      «O santo padre, e spirito che vedi 
ciò che credesti sì, che tu vincesti 
ver' lo sepulcro più giovani piedi», 
      comincia' io, «tu vuo' ch'io manifesti 
la forma qui del pronto creder mio, 
e anche la cagion di lui chiedesti. 
      E io rispondo: Io credo in uno Dio 
solo ed etterno, che tutto 'l ciel move, 
non moto, con amore e con disio; 
      e a tal creder non ho io pur prove 
fisice e metafisice, ma dalmi 
anche la verità che quinci piove 
      per Moisè, per profeti e per salmi, 
per l'Evangelio e per voi che scriveste 
poi che l'ardente Spirto vi fé almi; 
      e credo in tre persone etterne, e queste 
credo una essenza sì una e sì trina, 
che soffera congiunto 'sono' ed 'este'. 
      De la profonda condizion divina 
ch'io tocco mo, la mente mi sigilla 
più volte l'evangelica dottrina. 
      Quest'è 'l principio, quest'è la favilla 
che si dilata in fiamma poi vivace, 
e come stella in cielo in me scintilla». 
      Come 'l segnor ch'ascolta quel che i piace, 
da indi abbraccia il servo, gratulando 
per la novella, tosto ch'el si tace; 
      così, benedicendomi cantando, 
tre volte cinse me, sì com'io tacqui, 
l'appostolico lume al cui comando 
      io avea detto: sì nel dir li piacqui!
 
 

 
 

 
 
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Ultimo aggiornamento: 07 febbraio, 1998