Dante Alighieri
Epistola VI
Epistula VI |
Epistola VI |
Dantes Alagherii florentinus et exul inmeritus scelestissimis Florentinis intrinsecis. |
Dante Alighieri fiorentino e immeritevole esule agli scelleratissimi Fiorentini che risiedono in città |
[I]. Eterni pia providentia Regis, qui dum celestia sua bonitate perpetuat, infera nostra despiciendo non deserit, sacrosancto Romanorum Imperio res humanas disposuit gubernandas, ut sub tanti serenitate presidii genus mortale quiesceret, et ubique, natura poscente, civiliter degeretur. Hoc etsi divinis comprobatur elogiis, hoc etsi solius podio rationis innixa contestatur antiquitas, non leviter tamen veritati applaudit quod, solio augustali vacante, totus orbis exorbitst, quod nauclerus et remiges in navicula Petri dormitant et quod Ytalia misera, sola, privatis arbitriis derelicta omnique publico moderamine destituta, quanta ventorum fluentorumve concussione feratur verba non caperent sed et vix Ytali infelices lacrimis metiuntur. Igitur in hanc Dei manifestissimam voluntatem quicunque temere presumendo tumescunt, si glaudius Eius qui dicit "Mea est ultio" de celo non cecidit, ex nunc severi iudicis adventante iudicio pallore notentur. |
[1]. La provvidenza pietosa dell'eterno Signore che, mentre conserva con la sua bontà le cose celesti, non abbandona, disprezzandole, quelle così inferiori di noi mortali, dispose che le vicende umane fossero governate dal sacrosanto Impero dei Romani, affinché la stirpe dei mortali fosse pacificata, nella serenità d'un così potente presidio e ovunque si vivesse civilmente, secondo i dettami della natura. Questo, benché sia comprovato dalle Sacre Scritture e lo confermi la storia antica, al vaglio della ragione solamente, non in misura trascurabile tuttavia risulta conforme al vero, alla luce del fatto che, ogni volta che risulta vacante il trono imperiale, tutto il mondo devia: dormono il nocchiero e i rematori della navicella di Pietro e l'Italia misera, sola, preda degli arbitrii individuali e sprovvista di ogni pubblico controllo, non è possibile esprimere a parole da quale gran flagello di venti e flutti sia battuta; a mala pena gli infelici Italiani possano misurarlo con le lacrime. Pertanto chiunque temerariamente si erga con presunzione contro questa chiarissima volontà di Dio, se la spada di Colui che dice « Mia è la vendetta» non è ancora caduta dal cielo, impallidiscano di paura all'imminente giudizio del severo giudice. |
[II]. Vos autem divina iura et humana transgredientes, quos dira cupiditatis ingluvies paratos in omne nefas illexit, nonne terror secunde mortis exagitat, ex quo, primi et soli iugum libertatis horrentes in romani Principis, mundi regis et Dei ministri, gloriam fremuistis, atque iure prescriptionis utentes, debite subiectionis officium denegando, in rebellionis vesaniam maluistis insurgere? An ignoratis, amentes et discoli, publica iura cum sola temporis terminatione finiri, et nullius prescriptionis calculo fore obnoxia? Nempe legum sanctiones alme declarant, et humana ratio percotando decernit, publica rerum dominia, quantalibet diuturnitate neglecta nunquam posse vanescere vel abstenuata conquiri; nam quod ad omnium cedit utilitatem, sine omnium detrimento interire non potest, vel etiam infirmari; et hoc Deus et natura non vult, et mortalium penitus abhorreret adsensus. Quid, fatua tali oppinione summota, tanquam alteri Babilonii, pium deserentes imperium nova regna temptatis, ut alia sit Florentina civilitas, alia sit Romana? Cur apostolice monarchie similiter invidere non libet, ut si Delia geminatur in celo, geminetur et Delius? Atqui si male ausa rependere vobis terrori non est, territet saltim obstinata precordia quod non modo sapientia, sed initium eius ad penam culpe vobis ablatum est. Nulla etenim conditio delinquentis formidolosior, quam impudenter et sine Dei timore quicquid libet agentis. Hac nimirum persepe animadversione percutitur impius, ut moriens obliviscatur sui qui dum viveret oblitus est Dei. |
[2]. E voi, che trasgredite le leggi divine e umane, che l'avidità feroce della bramosia ha predisposto a ogni delitto, non siete angosciati dal terrore della "morte seconda", da quando, per primi e da soli, rifiutando con orrore il giogo della libertà, aggrediste la gloria del Principe romano, re del mondo e ministro di Dio e, utilizzando il diritto di prescrizione, negando il dovere di una obbligata soggezione, preferiste insorgere nella pazzia della ribellione? O forse ignorate, pazzi e senza cervello, che il diritto pubblico termina unitamente con la fine del tempo e non sarà soggetto al calcolo di alcuna prescrizione? Le vitali regole delle leggi dichiarano, e l'umana ragione lo decreta con i suoi calcoli, che il pubblico diritto sulle cose, per quanto trascurato gran tempo, non può mai svanire o essere impugnato come decaduto; infatti, ciò che serve alla pubblica utilità non può essere messo da parte né essere osteggiato senza danno generale. Questo non vogliono Dio né la natura e lo rifiuta con orrore l'assenso degli uomini mortali. Come mai, sollevando tale vana opinione, come novelli Babilonesi, lasciando l'Impero sacrosanto, volete escogitare una nuova forma di potere come se la civiltà di Firenze fosse diversa da quella di Roma? Perché allo stesso modo non vi viene la tentazione di osteggiare l'autorità Apostolica cosicchè, come avete sdoppiato in cielo la luna, analogamente sdoppiate il sole? E se non osate spaventarvi della vostra temerità, almeno i vostri animi ostinati si atterriscano del fatto che vi è stata sottratta non solo la saggezza, ma anche il suo stesso principio, come castigo della vostra colpa. Infatti nessuna condizione di chi male opera è peggiore di quella di chi agisce impudentemente, a suo piacimento e senza alcun timore di Dio. L'empio viene spessissimo colpito da questa punizione che, morendo, dimentichi se stesso, lui che, in vita, dimenticò Dio. |
[III]. Sin prorsus arrogantia vestra insolens adeo roris altissimi, ceu cacumina Gelboe, vos fecit exsortes, ut Senatus eterni consulto restitisse timori non fuerit, nec etiam non timuisse timetis; nunquid timor ille perniciosus, humanus videlicet atque mundanus, abesse poterit, superbissimi vestri sanguinis vestreque multum lacrimande rapine inevitabili naufragio properante? An sep vallo ridiculo cuiquam defensioni confiditis? O male concordes! o mira cupidine obcecati! Quid vallo sepsisse, quid propugnaculis et pinnis urbem armasse iuvabit, cum advolaverit aquila in auro terribilis, que nunc Pirenen, nunc Caucason, nunc Athlanta supervolans, militie celi magis confortata sufflamine, vasta marria quondam transvolando despexit? quid, cum adfore stupescetis, miserrimi hominum, delirantis Hesperie domitorem? Non equidem spes, quam frustra sine more fovetis, reluctantia ista iuvabitur, sed hac obice iusti regis adventus inflammabitur amplius, ac, indignata, misericordia semper concomitans eius exercitum avolabit; et quo false libertatis trabeam tueri existimatis, eo vere servitutis in ergastula concidetis. Miro namque Dei iudicio quandoque agi credendum est, ut unde digna supplicia impius declinare arbitratur, inde in ea gravius precipitetur; et qui divine voluntati reluctatus est et sciens et volens, eidem militet nesciens atque nolens. |
[3]. Se poi la vostra insolente arroganza vi ha privati del refrigerio del cielo, come la sommità di Gelboè, al punto da persuadervi a non nutrire timore di opporvi al decreto del Giudizio eterno né a temere non aver provato paura di ciò; forse potrà mancare quel timore pernicioso, umano, terrestre che si avvicina il naufragio della vostra superbissima progenie e della vostra rapina degna di molte lacrime? O forse confidate in qualche difesa, circondati da un risibile baluardo? O mal concordi, o accecati da incredibile bramosia! A che cos'è servito aver armato la città con fortificazioni e torri, averla circondata di mura, quando calerà l'aquila terribile disegnata in campo d'oro che ora sorvolando il Caucaso, i Pirenei, Atlantide, sorretta in più dal sostegno della milizia celeste, umiliò col suo volo la vastità del mare? A che, quando stupefatti vedrete giungere, voi, che siete i più miseri tra gli uomini, il domatore della folle Esperia? Non si gioverà, in verità, di questa ostinazione, la speranza, che nutrite invano senza misura, ma l'avvento del giusto re sarà reso più bruciante da questa reticenza e, sdegnata, la misericordia che sempre accompagna il suo esercito se ne volerà via. E laddove credete di salvaguardare l'insegna di una falsa libertà, lì in verità, cascate in perenne servaggio. Si deve credere, infatti, che in virtù di uno stupendo giudizio divino accada che l'empio precipiti con maggior danno proprio in quei giusti supplizi ai quali credeva di sfuggire; e chi si è opposto alla divina Volontà consapevole e volontariamente, militi per Essa, senza saperlo e senza volerlo. |
[IV]. Videbitis edificia vestra non necessitati prudenter instructa sed delitiis inconsulte mutata, que Pergama rediviva non cingunt, tam ariete ruere, tristes, quam igne cremari. Videbitis plebem circunquaque furentem nunc in contraria, pro et contra, deinde in idem adversus vos horrenda clamantem, quoniam simul et ieiuna et timida nescit esse. Templa quoque spoliata, cotidie matronarum frequentata concursu, parvulosque admirantes et inscios peccata patrum luere destinatos videre pigebit. Et si presaga mens mea non fallitur, sic signis veridicis sicut inexpugnabilibus argumentis instructa prenuntians, urbem diutino merore confectam in manus alienorum tradi finaliter, plurima vestri parte seu nece seu captivitate deperdita, perpessuri exilium pauci cum fletu cernetis. Utque breviter colligam, quas tulit calamitates illa civitas gloriosa in fide pro libertate Saguntum, ignominiose vos eas in perfidia pro servitute subire necesse est. |
[4]. Vedrete le costre case, costruite non prudentemente per necessità, ma stoltamente finalizzate ai piaceri, che non cinge una rocca come quella di pergamo rediviva, sia crollare sotto i colpi dell'ariete, o disgraziati, che bruciate dal fuoco. Vedrete in ogni luogo la popolazione furibonda, dapprima divisa tra i vostri fautori e i vostri antagonisti e poi compattamente contro di voi, urlare orribilmente perché non sa stare affamata e anche assoggettata. Vi dispiacerà vedere saccheggiate pure le chiese frequentate ogni giorno dalla folla di donne e i bambini, attoniti e inconsapevoli, destinati a piangere per le colpe dei padri. E se non mi inganna la mente presaga, che annuncia il futuro tanto per segni veritieri quanto per deduzioni inconfutabili, voi pochi che patirete l'esilio vedrete con pianto perché la maggior parte di voi sarà dispersa o dalle stragi o dalla prigionia: la città, stremata dall'interminabile sofferenza, cadere alla fine nelle mani dei nemici. E, per concludere brevemente, le medesime sciagure che quella gloriosa cittadinanza dei Saguntini tollerò nella fede della libertà, voi vergognosamente dovrete subire nel tradimento per la servitù. |
[V].
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[6]. O miserrima Fesulanorum propago, et iterum iam punita barbaries! An parum timoris prelibata incutiunt? Omnino vos tremere arbitror vigilantes, quanquam spem simuletis in facie verboque mendaci, at que in somniis expergisci plerunque, sive pavescentes infusa presagia, sive diurna consilia recolentes. Verum si merito trepidantes insanisse penitet non dolentes, ut in amaritudinem penitentie metus dolorisque rivuli confluant, vestris animis infigenda supersunt, quod Romane rei baiulus hic divus et triumphator Henricus, non sua privata sed publica mundi commoda sitiens, ardua queque pro nobis aggressus est sua sponte penas nostras participans, tanquam ad ipsum, post Christum, digitum prophetie propheta direxerit Ysaias, cum, spiritu Dei revelante, predixit: "Vere languores nostros ipse tulit et dolores nostros ipse portavit". Igitur tempus amarissime penitendi vos temere presumptorum, si dissimulare non vultis, adesse conspicitis. Et sera penitentia hoc a modo venie genitiva non erit, quin potius tempestive animadversionis exordium. Est enim: quoniam peccator percutitur, ut "sine retractatione moriatur". |
[6]. |
Scriptum pridie Kalendas Apriles in finibus Tuscie sub fontem Sarni, faustissimi cursus Henrici Cesaris ad Ytaliam anno primo. | Scritto il giorno prima delle Calende di Aprile, in territorio toscano, alle sorgenti dell'Arno, al primo anno della felicissima discesa in Italia dell'imperatore Enrico. |
© 1997 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 07 febbraio 1998