Giuseppe Bonghi

Biografia
di
Giovanni Boccaccio

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parte prima parte seconda parte terza
adolescenza giovinezza maturità

maturità

Le opere di erudizione della maturità.

         In queste opere, il Boccaccio cerca di penetrare a fondo nel pensiero, nella storia, nella religione e nell'arte del mondo pagano, mettendo a disposizione di tutti le fatiche sostenute per comprenderlo, e ordinando metodicamente le molte cognizioni acquistate, senza dimenticare per altro i fatti più notevoli e i personaggi più rappresentativi dei proprio tempo.
         Il Bucolicum carmen, che riunisce insieme le sedici egloghe composte in diverse occasioni, secondo lo stile ormai consolidato comune a tutta la poesia bucolica, da Virgilio in poi, di adombrare avvenimenti personali sotto le artificiose sembianze della vita pastorale; per questo le egloghe appaiono piene di allusioni per noi oscure, di gravi dubbi religiosi, di calde espressioni d'entusiasmo verso il Petrarca che gli aveva ispirato l'ambizione di meritarsi il nome di poeta.
         Più originale, più suggestivo e drammatico è il volume in nove libri De casibus illustrium virorum, dove Boccaccio immagina che le ombre di grandi personaggi infelici, da Adamo al Duca d'Atene e al Petrarca, gli apparivano in sogno descrivendogli le proprie sventure e come, dalla più alta felicità, siano caduti nelle più insopportabili sciagure: questa dolorosa storia aneddotica avrebbe dovuto acquistare nelle intenzioni dell'autore un'efficacia altamente educativa.
         Pure morale è il fine che l'autore si propone di conseguire col De claris mulieribus, dedicato ad Andreina contessa d'Altavilla, sorella del siniscalco Acciaiuoli: una lunga serie di biografie di donne illustri, dai tempi antichi fino alla regina Giovanna di Napoli, composta sull'esempio e a complemento dell'opera petrarchesca De viris illustribus, e non priva di una certa acutezza e leggerezza dettate dal suo amore per la vita nella rappresentazione di certe figure femminili (la papessa Giovanna, la storia di Paolina romana), in cui risorge col suo arguto sorriso l'impenitente peccatore del Decameron.
         Molto più importante di questa fortunata operetta è l'ampia enciclopedia De genealogiis deorum, dedicata a Ugo IV re di Cipro, che ne aveva espresso più volte il desiderio, e costata molti anni di accurate ricerche. Il copioso materiale mitologico, tratto da numerosi scrittori latini sacri e profani, e persino dai poemi omerici, viene diligentemente distribuito e disciplinato in quindici libri, nei quali il Boccaccio costruisce per ogni divinità l'albero genealogico e tenta di spiegare il recondito significato dei miti per tre diverse vie:
         1 - come deificazioni di persone reali,
         2 - come rappresentazioni di fenomeni della natura,
         3 - come allegoria d'un ammaestramento morale.
         Questo eclettismo esegetico conduce inevitabilmente a risultati incerti, e anche a inesattezze ed errori; ma non bisogna dimenticare che si tratta d'un primo e audace tentativo di compilare un'enciclopedia della scienza mitologica, con mezzi ancora imperfetti; e perciò quel che v'ha di manchevole è imputabile ai tempi, mentre ci sembrano altamente encomiabili, non solo il concepimento d'un così vasto disegno, ma il grande sapere classico posta a disposizione di tutti e la scrupolosa cura di giungere, in materia così ardua, a soluzioni concrete. Particolarmente importanti sono gli ultimi due libri, poiché qui, più spesso che altrove, l'autore parla di sé, delle sue opinioni e relazioni personali, per cui la trattazione si fa più viva e interessante.
         Allo stesso scopo di facilitare la lettura e la comprensione delle opere classiche, è ispirato il dizionario geografico De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus, de nominibus maris, composto per svagarsi, durante la faticosa compilazione dell'opera principale. In esso vengono registrati alfabeticamente, nelle diverse sezioni, i nomi dei monti, dei laghi, dei fiumi ecc., con informazioni più o meno copiose e minute, secondo l'importanza che l'affetto dei compilatore attribuiva ai diversi luoghi.

Gli avvenimenti della maturità

         Mentre attende a disseppellire i monumenti letterari e le glorie dell'antichità, le strettezze della povertà lo costringono ad assicurarsi un'esistenza meno disagiata; in queste preoccupazioni si innesta la visita del Cioni, come abbiamo visto. In questa occasione riceve dal Petrarca una lettera piena di alte ed equilibrate parole in cui si sente tutta la saggezza di un personaggio che a lungo ha meditato sui problemi della vita e della fede e che quindi appartiene a un mondo più sereno e meno legato alla tumultuosità delle vicende terrene, anche perchè non assillato da problemi economici per l'amicizia di illustri personaggi di cui gode. Nella lettera dopo aver cercato di liberare il Boccaccio dall'incubo del mortale annuncio del Cioni, lo prepara a una saggia e pacata considerazione della morte con l'esortazione a non abbandonare gli studi, che sono il vero conforto della vecchiaia, con grande delicatezza lo invita ad andare ad abitare con lui; ed era un invito che mirava a liberare l'amico dalla precaria condizione economica in cui si trovava.
         Per ragioni di altrettanto profonda delicatezza Boccaccio ricusa il generoso invito e preferisce dirigersi a Napoli, presso Niccolò Acciaiuoli, che lo aveva chiamato e fatto invitare dal comune amico Francesco Nelli (che morirà di peste nel 1363), già priore della chiesa dei Santi Apostoli a Firenze, ed ora spenditore del gran siniscalco (che era appunto l'Acciaiuoli): ritorna così a Napoli nell'ottobre del '62, con la speranza di trovare una sistemazione decorosa (simile a quella del Petrarca col Duca di Milano); ma il cattivo trattamento ricevuto anche questa volta dal vanitoso mecenate e dallo stesso Nelli, lo fa ben presto pentire di aver intrapreso a cuor leggiero un così lungo viaggio; il Boccaccio, che aveva un altissimo senso della dignità, si sente profondamente offeso non solo come persona abituata a una vita decorosa, ma anche come letterato e uomo di studio che si vede trattato allo stesso modo di un qualunque parassita: accolto in una stanza polverosa e sporca, piena di ragnatele e dimenticato per quasi tre mesi dall'Acciaiuoli e dal Nelli, come dimenticato addirittura fu a Tripergoli, una località vicino Baia, dove l'Acciaiuoli aveva una villa dove, quando tutti lasciarono la villa per tornare a Napoli, rimase solo, chiuso fuori dall'abitazione, con un fante e con le suoi poche e povere cose (soprattutto libri), "sanza le cose necessarie al vivere e sanza niuno consiglio", come scriverà in una infuocata e risentita lettera di rimprovero a Francesco Nelli.
         Indignatissimo ai primi di marzo del 1363 abbandona, dopo soli sei mesi, Napoli, per raggiungere a Venezia (nel Palazzo Molin sulla Riva degli Schiavoni che il Maggior Consiglio aveva assegnato allo scrittore che si era impegnato a creare e incrementare la pubblica biblioteca con delibera del 4 settembre 1362) il suo Petrarca, dove giunge alla fine di giugno e dopo essere passato ad ammirare ancora una volta la bellissima biblioteca di Montecassino. Dopo tre mesi di dolce vita in comune, confortato dallo studio e da elevate conversazioni, se ne torna, non più a Firenze, ma nella solitudine di Certaldo, donde scriverà un'erudita e lunghissima Epistola consolatoria a messer Pino de' Rossi, esiliato da Firenze per una congiura contro lo stato.
         Ormai, per le opprimenti angustie della povertà, che aveva ricominciato a soffrire proprio in quegli anni, e anche per desiderio di quiete operosa, Boccaccio riscopre il paesello dei padri che comincia a riscuotere tutte le sue simpatie; e da Certaldo non si muoverà più, se non per andare di tanto in tanto a Firenze, a seconda delle parti politiche dominanti, chiamatovi a coprire qualche ufficio pubblico, ch'egli, del resto, da quei reggitori ambiziosi e turbolenti accettava mal volentieri, e più per avere occasione di qualche guadagno, che per cupidigia di onori, dai quali l'animo suo ormai rifuggiva. Così nell'agosto 1365, correndo voce che l'imperatore Carlo IV si accinge a venire in Italia, il Comune Fiorentino gli affida, come a personalità di alto prestigio, un incarico molto difficile e delicato: ambasciatore ad Avignone presso il Papa Urbano V, che era quel Guglielmo di Grimoard che Boccaccio già conosceva, per tentare con ogni mezzo di scongiurare quella minaccia, e, dopo aver liberato Firenze da ogni calunnia e provato la sua fedeltà alla Chiesa, non a parole, ma ricordando gli aiuti anche recenti e i sacrifici sopportati per il Pontificato, documentandoli con fatti registrati nelle «cronache», offrirgli una solenne scorta d'onore, qualora si decidesse a rientrare in Roma, ben più sostanziosa di quella attesa dall'Imperatore Carlo IV, formata da cinque galee armate e, come «fedelissima scorta», cinquecento barbute (soldati con corazza ed elmo detto barbuta) con lo stemma del Comune. Lasciata controvoglia Firenze (soprattutto per motivi di salute) il 21 agosto, facendo tappa a Genova per un'altra missione ufficiale presso il Doge per le vessazioni di questi contro la famiglia Grimaldi, arriva prima della fine del mese ad Avignone; il soggiorno è piacevole, allietato dai numerosi amici e conoscenti che ritrova, come Francesco Bruni (era il segretario apostolico), che subito, senza farlo attendere, lo introduce presso il Papa aiutato anche da Philippe de Cabassoles amico del Petrarca e già Gran Cancelliere della Corte angioina di Napoli fra il 1343 e il 1347. L'ambasceria ottiene un grande successo, tanto che Firenze gli darà altri importanti incarichi. Nel mese di Novembre può rientrare in patria, ritirandosi a Certaldo dove lo raggiunge la notizia della morte dell'odiato-amato Niccola Acciaiuoli (avvenuta l'8 novembre)
         Due anni dopo, viene di nuovo mandato come ambasciatore a Viterbo e a Roma, sempre presso Urbano V, che gli rivolge grandi lodi per aver saputo compiere il suo mandato così brillantemente.
         Quello stesso anno 1367, dopo essere stato a Ravenna, decide di giungere fino a Venezia, sperando di trovarvi il Petrarca, che però è assente, trovandosi a Pavia, dove si era recato su invito del suo mecenate, il Visconti Duca di Milano; lo accolgono cordialmente la figlia del poeta, Francesca, col marito Francescuolo da Brossano, e a Venezia lo raggiunge la notizia che Urbano V era arrivato in Italia:

         Nella primavera infatti Urbano V, rompendo indugi e resi­stenze dei cardinali e dei dignitari, dei principi e del Re di Francia, era partito da Avignone; e, dopo una sosta a Marsi­glia, sbarcato in Italia si era fermato a Viterbo (9 giugno '67). La fausta notizia era certo pervenuta al Boccaccio a Venezia; e, al suo ritorno, dai dirigenti della politica fiorentina dovette esser messo al corrente dei particolari della difficile vicenda e essere consultato sull'argomento, dati i felici contatti avuti da lui due anni prima col Pontefice e con la sua Corte. Forse già in questi colloqui nacque nella Signoria l'idea di inviare a con­gratularsi con Urbano V a nome del Comune fiorentino una per­sona così autorevole e notoriamente gradita: ché per i rapporti indiretti e diretti a Napoli e a Avignone, per le comuni alte ami­cizie    da Francesco Bruni a Filippo di Cabassoles  , per i sogni generosi di nuove crociate (che facevano esaltare al Boc­caccio re Ugo di Cipro e facevano incoraggiare a Urbano V il figlio di Ugo, Pietro), per il ritorno a Roma e la politica ita­liana, il pio e austero Urbano V appare veramente il papa più conosciuto e amato dal Boccaccio.
         La Signoria però attese a inviare la sua ambasceria quando, dopo l'estate, il Papa si trasferì a Roma (16 ottobre); e difatti ai primi di novembre si procedette alla nomina del Boccaccio (cui fu aggiunto Giacomino Giani). Dovette partire immedia­tamente e svolgere questa sua missione nel corso del novembre, se già del primo dicembre è il «breve» di congedo del Papa alla Signoria, con alti elogi dell'ambasciatore. Questi non si era limitato probabilmente all'ufficiale incarico gratulatorio, ma si era nuovamente reso interprete del pensiero della Signoria sull'inopportunità di una discesa dell'Imperatore in Italia; e aveva personalmente ancora sollecitato una larga concessione di indulgenze per i certaldesi che avessero contribuito a riparare la chiesa dei Santi Michele e Iacopo. Certamente anche questa volta l'aiutò Francesco Bruni, col quale dovette, come due anni prima, intrattenersi familiarmente e col quale parlò di un gio­vane amico, Coluccio Salutati, allora cancelliere a Todi e che pochi mesi dopo sarà collaboratore del Bruni stesso. È naturale incontrasse anche alla Corte prelati e dignitari coi quali aveva intrecciato o intrecciava allora rapporti amichevoli, e il valoroso difensore del Pontefice nel soggiorno viterbese, Niccolò Orsini (che vedremo a lui legato devotamente negli anni seguenti.
         Ma non lungo dovette essere il soggiorno romano se già il 20 dicembre il Boccaccio era ritornato in patria, come indica in una epistola Coluccio Salutati, che fervidamente lo ringra­ziava di avergli scritto da Roma col Bruni e si scusava di non aver compiuto una visita di omaggio (
Ep., I 19). Probabilmente la brevità della dimora a Roma fu determinata sia dalla sempli­cità della missione, sia dai doveri che a Firenze il Boccaccio aveva assunto in quei mesi: era stato infatti nominato, per il quadrimestre novembre '67   febbraio '68, ancora all'ufficio della Condotta per verificare il servizio e le assenze dei mercenari. Forse, aumentato il numero delle milizie per la temuta discesa di Carlo IV, si volle ricorrere a chi già nel '55 e nel '65 aveva in circostanze simili fatte esperienze positive e era per le sue recenti missioni politicamente al corrente della situazione gene­rale. Per tale incarico il Boccaccio dovette restare quell'inverno quasi stabilmente a Firenze e tornare a vivere a Certaldo solo nella primavera (probabilmente nel marzo). (Vittore Branca, op. cit.)

         Né qui si arrestano i viaggi del Boccaccio. Nonostante il ricordo della brutta accoglienza ricevuta dall'Acciaiuoli, Napoli lo tenta ancora una volta nel '70, ed egli vi si trasferisce. Ma viene ancora una volta deluso da un amico di giovinezza, Niccolò di Montefalcone, e ricusa le offerte fattegli dal conte Ugo di Sanseverino, a nome proprio e della regina Giovanna, ancorché confermate dal terzo marito della sovrana, Giacomo di Maiorca; per la stessa delusione, non acconsente a stabilirsi presso il conte palatino Niccolò Orsini, nelle terre che questi possiede tra Roma e la Toscana. Le offerte non lo lusingano più, nè lo fanno soffrire come nel 1362 le illusioni perdute di una decorosa sistemazione: preferisce il ritorno nella sua dolce terra di Certaldo, dove infatti lo ritroviamo nel 1371, oppresso dal bisogno, ma tutto intento a compiere i suoi poderosi lavori di erudizione.
         E proprio una lettera del gennaio 1371, indirizzata da Napoli a Niccolò da Montefalcone, ci fa conoscere una nuova delusione subita dal Boccaccio nei riguardi di un altro amico. Egli si era recato a Napoli, "lasciando indignato la patria Firenze", non si sa per quale ragione, e là aveva incontrato appunto Niccolò da Montefalcone, il quale, amico di gioventù e allora abate (o semplice monaco?) del monastero Santo Stefano del Bosco in Calabria fondato dal celebre S. Bruno di Calabria, lo aveva invitato presso il suo convento. Niccolò gli aveva descritto «l'amena solitudine dei boschi» di cui diceva circondato il suo convento, «l'abbondanza dei libri, i limpidi fonti, la santità del luogo e le cose confortevoli e l'abbondanza di ogni cosa e la benignità del clima», tanto che il Boccaccio aveva avuto «non solo il desiderio di vedere» quel luogo, ma anche forse un piccolo desiderio di rifugiarvisi «se la necessità lo avesse richiesto». Ma all'improvviso Niccolò dopo tante affettuosità scompare silenziosamente e il Boccaccio, profondamente deluso, gli rivolge amare parole tra le quali si affaccia la triste riflessione che egli «è povero e i poveri non hanno amici». È vero che nel frattempo al Boccaccio pervengono offerte di ospitalità da parte di illustri personaggi, come Ugo di Sanseverino, Giacomo di Maiorca e Niccolò Orsini, conte di Nola, che l'avrebbe voluto suo ospite in uno dei castelli che possedeva tra Roma e la Toscana; ma egli, probabilmente per non affrontare nuove delusioni, rifiuta tutto con cortesia e anche con affetto e torna in Toscana e forse subito a Certaldo, che abbandonerà solo nell'ottobre del '73 per recarsi a Firenze.
         Gli studi, il carteggio col Petrarca e quello con Mainardo Cavalcanti, che già lo aveva soccorso a Napoli nel soggiorno del '62, che si era recato in Toscana per sposarsi, sono le sue più importanti occupazioni, insieme a una grave malattia nella seconda metà di agosto del 1372, con violenti attacchi di febbre e dolori lancinanti che gli fanno credere di essere ormai giunto agli estremi giorni della sua vita; ma un medico riesce a risolvere la situazione con energici salassi. Il Boccaccio sente, comunque, a circa sessanta anni di età, questa malattia come l'annuncio di una fine ormai prossima.
         Il passare degli anni, insieme alle ristrettezze economiche che non gli permettono un confortevole tenore di vita soprattutto nei mesi invernali, influisce negativamente sulla sua salute, per cui il gaio autore del Decameron si riduce in tale stato, da non poter fare altro che dolersi continuamente delle sofferenze, che non gli danno mai tregua. Colpito gravemente dalla scabbia e da altre infermità, ne rimane rattristato e spossato. Con deliberazione definitiva del 25 agosto 1373, il Comune fiorentino, in seguito ad una petizione di autorevoli cittadini del giugno di quell'anno, gli affida l'incarico di leggere pubblicamente e commentare tutti i giorni la Divina Commedia nella chiesa di S. Stefano di Badia per un anno e con un compenso di cento fiorini d'oro da pagarsi in due semestralità. Nel nome di Dante, ritrova subitamente il suo coraggio e il suo entusiasmo, e si sottopone volonteroso alla grave fatica; ma il commento, viene interrotto dal Boccaccio, all'incirca poco una sessantina di lezioni, che lo conducono solo fino al diciassettesimo verso del canto XVII dell'Inferno. La causa di tale interruzione sarebbe da ricercare non solo nei malanni, che tormentavano il poeta nell'ultimo periodo della vita, ma anche nell'opposizione di alcuni importanti e dotti personaggi che non ritenevano degno e lecito svelare al volgo le «parti occulte» della sublime opera di Dante. Testimonianza di ciò sono due lettere all'amico e "mecenate" Mainardo Cavalcanti e quattro sonetti (CXXII-CXXV) che, secondo l'opinione comune, si è propensi ad assegnare con sicurezza al Boccaccio.
         Nei quattro sonetti s'intuisce quello che deve essere stato il conflitto interiore del Boccaccio che, dopo essersi lasciato indurre a leggere Dante per «vana speranza e vera povertade», per i «prieghi» degli amici e soprattutto per il suo reverente amore verso l'Alighieri, finì - certo per questo amore e per questa reverenza - col dar ragione a chi lo riprovava e col sentir «disdegno» verso se stesso, che aveva «aperti al vulgo indegno» gli alti «concetti » dell'Alighieri (son. CXXIII). Riportiamo, per documentazione, i quattro sonetti con una traduzione in prosa:

                CXXII  

    S'io ho le Muse vilmente prostrate
nelle fornice del vulgo dolente,
e le lor parte occulte ho palesate
alla feccia plebeia scioccamente,
non cal che piú mi sien rimproverate
sí fatte offese, perché crudelmente
Appollo nel mio corpo l'ha vengiate
in guisa tal, ch'ogni membro ne sente.
   Ei m'ha d'uom fatto un otre divenire,
non pien di vento, ma di piombo grave
tanto, ch'appena mi posso mutare.
Né spero mai di tal noia guarire,
sí d'ogni parte circondato m'have;
ben so però che Dio mi può aiutare.

       Se ho umiliato le muse nel gettandole nel fango del volgo e ho rivelato le parti occulte scioccamente alla feccia plebea, non importa più che mi rimproveriate queste offese, preché crudelmente Apollo le ha vendicate nel mio corpo tanto che ogni mia fibra ne risente.
      Egli mi ha fatto diventare come un otre, non pieno di vento, ma pesante come il piombo, tanto che appena mi posso muovere. Né spero di poter guarire da questo malanno tanto si è diffuso nel mio corpo; però so bene che Dio mi può aiutare.

                       CXXIII  

    Se Dante piange, dove ch'el si sia,
che li concetti del suo alto ingegno
aperti sieno stati al vulgo indegno,
come tu di', della lettura mia,
ciò mi dispiace molto, né mai fia
ch'io non ne porti verso me disdegno:
come ch'alquanto pur me ne ritegno,
perché d'altrui, non mia, fu tal follia.
   Vana speranza e vera povertate
e l'abbagliato senno delli amici
e gli lor prieghi ciò mi fecer fare.
Ma non goderan guar di tal derrate
questi ingrati meccanici, nimici
d'ogni leggiadro e caro adoperare.

      Se Dante piange, dovunque egli sia, perché i concetti del suo alto ingegno sono stati svelati al volgo indegno, come tu affermi, dalla mia lettura, ciò mi dispiace molto, né potrà accadere che smetterò di sdegnarmi contro me stesso, anche se un poco mi trattengo perché questa follia non fu mia ma di altri.
      Questo me lo fecero fare una vana speranza e una vera povertà e lo sbagliato intendimento degli amici e le loro preghiere. Ma questi ingrati ignoranti, nemici d'ogni leggiadro lavoro, non godranno di queste rivelazioni.


                        CXXIV

   Già stanco m'hanno e quasi rintuzzato
le rime tua accese in mia vergogna;
e quantunque a grattar della mia rogna
io abbia assai nel mio misero stato,
pur ho tal volta, da quelle sforzato,
risposto a quel che la tua penna agogna,
la qual non fu temperata a Bologna,
se ben ripensi il tuo aspro dettato.
   Detto ho assai che io cruccioso sono
di ciò che stoltamente è stato fatto,
ma frastornarsi non si puote omai.
Però ti posa ed a me dà perdono,
ch'io ti prometto ben che 'n tal misfatto
piú non mi spingerà alcun giammai.

    Le tue rime, accese per mia vergogna, mi hanno già stancato e quasi umiliato, e quantunque nel mio misero stato io abbia da pensare a tante cose tristi, pure talvolta, forzato proprio da quelle, ho risposto a ciò che desiderano le tue parole, che certamente non sono state affinate a Bologna se pensi bene alle cose aspre che hai scritto.
    Ho dotte molte volte che sono dolente delle cose che sono state fatte stoltamente, ma ormai non si possono annullare. Per questo fermati, e donami il tuo perdono, perché io ti prometto che nessun altro potrà spingermi più a compiere un tale misfatto.


                             CXXV

   Io ho messo in galea senza biscotto
l'ingrato vulgo, e senza alcun piloto
lasciato l'ho in mar a lui non noto,
ben che sen creda esser maestro e dotto:
onde el di su spero veder di sotto
del debol legno e di sanità voto;
né avverrà, perch'ei sappia di nuoto,
che non rimanga lì doglioso e rotto.
   Ed io, di parte eccelsa riguardando,
ridendo, in parte piglierò ristoro
del ricevuto scorno e dell'inganno;
e tal fiata, a lui rimproverando
l'avaro senno ed il beffato alloro,
gli crescerà e la doglia e l'affanno.

   Ho messo in una nave senza cibo (in un'impossibile impresa) il volgo ingrato e l'ho lasciato senza nocchiero in un mare a lui sconosciuto, benché si crede di essere dottore e maestro: e spero di vedere la nave sottosopra e senza salvezza; né accadrà, benché sappia nuotare, ch'egli rimanga dolente e stanco.
    Ed io, guardando tutto dall'alto, ridendo, in parte sarò vendicato per l'umiliazione ricevuta e per l'inganno; e talvolta, rimproverandogli lo scarso senno e la poesia schernita, gli crescerà il dolore e l'affanno.

 

La morte

         Dopo il 1371 le condizioni di salute del Boccaccio vanno peggiorando di giorno in giorno e a questo contribuiscono non poco le amarezze per una condizione di vita difficile in cui la povertà la faceva da padrona; dalla fine del 1373, come abbiamo visto, non gli mancano neppure biasimi e aspre critiche, fra le quali si distinguevano quelle di Lapo da Castiglionchio, un personaggio di discreta cultura che faceva parte del partito Guelfi che in quegli anni dominavano la politica fiorentina, che lo accusava di prostituire le Muse dando in pasto il Poema Sacro al volgo ignorante: e questi rivali erano o persone che avevano una concezione gelosamente aristocratica della Letteratura o temevano irriverenze e deviazioni di carattere teologico e religioso: comunque temevano di perdere di mano il filo della gestione del potere che si sarebbe sfilacciato per la diffusione della cultura.
         Cosicché, stremato di forze, avvilito d'animo, e convinto anche lui che non era opera saggia somministrare tale capolavoro a quegli «ingrati meccanici, nemici d'ogni leggiadro e caro adoperare», a un certo punto decide che è giusto smettere la lettura del Poema dantesco. Siamo nei primi mesi del 1374: il convincimento, comunque, non avrebbe potuto arrivare per mezzo dell'avversione di un Lapo da Castiglionchio o altri consimili personaggi minori, ma per mezzo di un autorevole personaggio, sia sul piano della cultura che su quello del livello sociale cui apparteneva, e doveva essere veramente importante se sentiamo nei sonetti una sorta di rispetto e una certa progressiva remissività nei suoi confronti.
         Le sue condizioni di salute, intanto, peggiorano notevolmente e impegnano allo stremo il suo già magro patrimonio, tanto che in gennaio deve vendere il podere di Pulicciano per 120 fiorini d'oro. Ormai si può permettere di muoversi e di camminare con gravi stenti e difficoltà; alcuni pietosi amici si prendono cura di trasportarlo a Certaldo, di accudirlo con grande affetto.
Il ritiro di Certaldo gli permette, se non altro, di superare indenne la pestilenza del 1374. Il 28 agosto fa stendere da ser Tinello da Passignano il suo definitivo testamento, in cui si ricorda anche della "servente povera e ignorante Bruna Gango da Montemagno" mentre si stringevano intorno a lui gli amici superstiti della gioventù. Poche sono le notizie che abbiamo intorno ai suoi ultimi mesi di vita; e fra queste gliene giunge una che, per colmo di amarezza, arriva con un ritardo di tre mesi, con una lettera del 19 ottobre di Francescuolo da Brossano, il triste annunzio che il suo Petrarca si era spento nella sua solitaria casetta di Arquà sui colli Euganei, nella notte fra il 18 e 19 luglio 1374. Per l'amico scomparso scrive il sonetto CXXVI col quale si chiude il suo canzoniere:

   Or sei salito, caro signor mio,
nel regno, al qual salire ancor aspetta
ogn'anima da Dio a quell'eletta,
nel suo partir di questo mondo rio;
or se' colà, dove spesso il desio
ti tirò già per veder Laüretta;
or sei dove la mia bella Fiammetta
siede con lei nel cospetto di Dio.
   Or con Sennuccio e con Cino e con Dante
vivi, sicuro d'etterno riposo
mirando cose da noi non intese.
Deh, s'a grado ti fui nel mondo errante,
tirami drieto a te, dove gioioso
veggia colei che pria d'amor m'accese.

         Non molti mesi dopo, il 21 dicembre 1375, anche il Boccaccio si spegne, e, come aveva disposto per testamento, il suo corpo viene sepolto nella chiesa dei SS. Michele e Iacopo, mentre la sua libreria finisce nelle mani di fra Martino da Signa, nel convento di S. Spirito a Firenze.
         Due ammiratori ne piangono la grave perdita: Franco Sacchetti e Coluccio Salutati. Mentre quest'ultimo componeva in versi l'epitaffio che si legge tuttora sul cenotafio di Certaldo, l'altro vedeva tristemente, con la scomparsa del Boccaccio, la fine d'ogni poesia:

Or è mancata ogni poesia,
e vote son le case di Parnaso;
po' che morte n'ha tolto ogni valore.

Questo l'epitaffio del Salutati, che qualcuno però dice scritto dallo stesso Boccaccio.

HAC SUB MOLE IACENT CINERES AC OSSA JOHANNIS,
MENS SEDET ANTE DEUM MERITIS ORNATA LABORUM
MORTALIS VITAE; GENITOR BOCCACIUS ILLI,
PATRIA CERTALDUM, STUDIUM FUIT ALMA POESIS

(Sotto questa pietra giacciono le ceneri e le ossa di Giovanni, l'anima sta davanti a Dio ornata dei meriti dei travagli della vita mortale, ebbe come genitore Boccaccio, Certaldo come patria, occupazione prediletta fu la divina poesia)

         Con questo alto e disinteressato amore per la poesia, si identifica pure la sua candida reverenza per Dante e Petrarca, che della Poesia gli apparivano la somma incarnazione, e con questo stesso amore aspira alla gloria con un senso già umanistico della esistenza, ma che non raggiungerà appieno nella sua vita lasciandogli qualche rammarico doloroso.
E certamente a quei fiorentini, più inclini all'amore per la cultura che per la politica, che alla morte di Dante e poi del Petrarca vedevano seguire, a così breve distanza, anche quella del Boccaccio - la terza delle tre grandi corone - doveva sembrare nella tristezza dell'ora, e non a torto, che ogni luce d'arte e di poesia fosse tramontata per sempre, giacché non appariva chi potesse degnamente sostituirli.

Il carattere

         Alieno dalle turbolenze delle fazioni e dai bassi intrighi della politica, ch'egli sinceramente deplorava, il Boccaccio si era dimostrato un cittadino per bene e aveva servito con disinteresse e intelligenza la propria patria, tutte le volte che n'era stato richiesto e che gli interessi dei tempi e delle parti politiche lo avevano reso necessario, andando poi a nascondere la sua povertà e i penosi acciacchi della vecchiaia nella dolce solitudine di Certaldo. La modestia e la sua dirittura morale sono stati sempre lontani da ogni forma di presunzione e allo stesso tempo esenti dall'invidia.
         Fervido ammiratore di Dante e del Petrarca, egli mai ha tralasciato qualche propizia occasione per onorarli, mentre in tutti i suoi scritti non si trova una parola di ostentazione per sé stesso e per l'opera propria, che pure è stata grande e piena di meriti duraturi. Le sole parole di rimprovero, ch'egli due volte si è permesso di rivolgere coraggiosamente al poeta aretino, sono state cagionate dal fatto, ingiusto e doloroso all'animo suo, di saperlo stabilito a Milano alla corte di Giovanni Visconti, grande nemico dei Fiorentini, e di non vederlo partecipe della propria illimitata ammirazione per l'Alighieri. E appunto, per indurre l'amico a meglio conoscere, ad apprezzare, ad amare l'esule glorioso, si faceva premura di mandargli un esemplare della Commedia, accompagnando il dono con una calda epistola latina di elogio per l'autore, la quale non rimase senza risposta. Ma, del proprio Decameron, egli forse non ha mai fatto il più piccolo accenno, nei frequenti colloqui e nella loro ininterrotta corrispondenza epistolare, se il Petrarca, nel tradurre in latino il racconto di Griselda, dichiarava di aver conosciuto il libro per caso, e solo in quell'anno, che doveva essere per lui l'ultimo della vita.
         Invece, nella scoperta dell'antichità e nel fervido amore per le lettere latine, i due amici hanno proceduto sempre d'accordo, scambiandosi libri, informazioni e suggerimenti d'ogni genere, con una collaborazione assidua e cordiale che non sarebbe mai venuta meno.
         Per quanto riguarda l'abilità nell'uso e nella comprensione della lingua di Virgilio e di Cicerone, nell'originalità del pensiero e nelle eleganze formali della poesia, il Boccaccio si è sentito sempre un discipulus, trattando il Petrarca come un pater magister anche se fra i due non c'erano che nove anni di differenza.

L'arte del Boccaccio

         La fama del Boccaccio, meglio che all'opera sua infaticabile di precursore dell'Umanesimo, e di compilatore di dotte scritture latine, ormai sorpassate dall'avanzamento degli studi e certo inferiori di merito a quelle del Petrarca, rimane durevolmente affidata alle sue opere in volgare, le quali rivelano con maggiore spontaneità e originalità le qualità del suo ingegno e certa sua modernità di tendenze.
         Boccaccio era dotato d'un temperamento impetuoso e generoso, facile alla collera, ma altrettanto facile a calmarsi, d'una fantasia agilissima, di uno spirito d'osservazione a cui nulla sfuggiva, con una particolare disposizione a cogliere mirabilmente il lato più drammatico, passionale e ridicolo d'ogni persona. Con lo studio assiduo e nello speciale ambiente in cui ha trascorso i suoi anni migliori, quelli della fanciullezza, ha coltivato queste felici attitudini; per cui ne è venuto fuori un singolarissimo impasto di arguzia fiorentina e di accomodante epicureismo napoletano, quella vivissima disposizione all'indulgenza un po' beffarda e alla spassosa giocondità, che lo rendono un descrittore malizioso e arguto della società, ma poco austero e pungente, adatto a maneggiare l'arma delicata del riso e dell'ironia, che divertono, piuttosto che la sferza della satira, che flagella e corregge i costumi.
         Studium fuit alma poesis, è scritto sulla sua tomba da Coluccio Salutati (Stignano in Valdinievole 1331 - Firenze 1406), che raccoglie e valorizza l'eredità di Petrarca e dello stesso Boccaccio; ma, in realtà, se della poesia è stato un fervente e fin troppo prolifico cultore, quasi mai ha raggiunto però le vette, cui eran giunti Dante e Petrarca, come egli stesso ebbe più volte a riconoscere sinceramente: e non già per aver perduto, a causa dell'ostinata avversione paterna, i suoi anni migliori dietro al commercio o agli studi legali, ma solo perché al mondo poetico di lui hanno fatto difetto le elevatissime idealità dell'Alighieri, e l'abito alla finissima analisi interiore, che ebbe il Petrarca insieme alla grande capacità di utilizzare il particolare e tecnicissimo mezzo linguistico.
         Tuttavia, è riuscito ad affermare in modo meraviglioso la propria individualità di scrittore, in quel mondo della realtà, dominata dall'intelligenza umana, ch'egli più profondamente sentiva e di cui diventa in vario modo il pittore originale, meglio nella prosa che nella poesia, e in questa, solo dove occorresse raccontare, descrivere, rappresentare contrasti di affetti e lotte interiori. Così, in Boccaccio, lasciato ai propri istinti fin dalla tenera età e cresciuto in una città gaudente e voluttuosa come Napoli, dove l'attaccamento alla vita terrena e la facile sottomissione alle leggi di natura si affermano e trionfano gioiosamente sul triste mistero della morte, si afferma la grandezza artistica della narratività; ond'egli, più ancora dell'Alighieri e del Petrarca, si trascinerà dietro le future generazioni, con i suoi romanzi e in parte coi suoi poemi, ma soprattutto col suo capolavoro, in cui la commedia umana, anche al di là delle intenzioni dell'autore, si pone accanto agli altri due grandi fiorentini.

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Ultimo aggiornamento: 12 luglio 2000