Giuseppe Bonghi
Biografia
di
Giovanni Boccaccio
parte prima | parte seconda | parte terza |
adolescenza | giovinezza | maturità |
maturità
Le opere di erudizione della maturità.
In queste opere, il
Boccaccio cerca di penetrare a fondo nel pensiero, nella storia, nella religione e
nell'arte del mondo pagano, mettendo a disposizione di tutti le fatiche sostenute per
comprenderlo, e ordinando metodicamente le molte cognizioni acquistate, senza dimenticare
per altro i fatti più notevoli e i personaggi più rappresentativi dei proprio tempo.
Il Bucolicum carmen, che riunisce
insieme le sedici egloghe composte in diverse occasioni, secondo lo stile ormai
consolidato comune a tutta la poesia bucolica, da Virgilio in poi, di adombrare
avvenimenti personali sotto le artificiose sembianze della vita pastorale; per questo le
egloghe appaiono piene di allusioni per noi oscure, di gravi dubbi religiosi, di calde
espressioni d'entusiasmo verso il Petrarca che gli aveva ispirato l'ambizione di meritarsi
il nome di poeta.
Più originale, più suggestivo e
drammatico è il volume in nove libri De casibus illustrium virorum, dove Boccaccio
immagina che le ombre di grandi personaggi infelici, da Adamo al Duca d'Atene e al
Petrarca, gli apparivano in sogno descrivendogli le proprie sventure e come, dalla più
alta felicità, siano caduti nelle più insopportabili sciagure: questa dolorosa storia
aneddotica avrebbe dovuto acquistare nelle intenzioni dell'autore un'efficacia altamente
educativa.
Pure morale è il fine che l'autore si
propone di conseguire col De claris mulieribus, dedicato ad Andreina contessa
d'Altavilla, sorella del siniscalco Acciaiuoli: una lunga serie di biografie di donne
illustri, dai tempi antichi fino alla regina Giovanna di Napoli, composta sull'esempio e a
complemento dell'opera petrarchesca De viris illustribus, e non priva di una certa
acutezza e leggerezza dettate dal suo amore per la vita nella rappresentazione di certe
figure femminili (la papessa Giovanna, la storia di Paolina romana), in cui risorge col
suo arguto sorriso l'impenitente peccatore del Decameron.
Molto più importante di questa fortunata
operetta è l'ampia enciclopedia De genealogiis deorum, dedicata a Ugo IV re
di Cipro, che ne aveva espresso più volte il desiderio, e costata molti anni di accurate
ricerche. Il copioso materiale mitologico, tratto da numerosi scrittori latini sacri e
profani, e persino dai poemi omerici, viene diligentemente distribuito e disciplinato in
quindici libri, nei quali il Boccaccio costruisce per ogni divinità l'albero genealogico
e tenta di spiegare il recondito significato dei miti per tre diverse vie:
1 - come deificazioni di persone reali,
2 - come rappresentazioni di fenomeni
della natura,
3 - come allegoria d'un ammaestramento
morale.
Questo eclettismo esegetico conduce
inevitabilmente a risultati incerti, e anche a inesattezze ed errori; ma non bisogna
dimenticare che si tratta d'un primo e audace tentativo di compilare un'enciclopedia della
scienza mitologica, con mezzi ancora imperfetti; e perciò quel che v'ha di manchevole è
imputabile ai tempi, mentre ci sembrano altamente encomiabili, non solo il concepimento
d'un così vasto disegno, ma il grande sapere classico posta a disposizione di tutti e la
scrupolosa cura di giungere, in materia così ardua, a soluzioni concrete. Particolarmente
importanti sono gli ultimi due libri, poiché qui, più spesso che altrove, l'autore parla
di sé, delle sue opinioni e relazioni personali, per cui la trattazione si fa più viva e
interessante.
Allo stesso scopo di facilitare la
lettura e la comprensione delle opere classiche, è ispirato il dizionario geografico De
montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus, de nominibus maris,
composto per svagarsi, durante la faticosa compilazione dell'opera principale. In esso
vengono registrati alfabeticamente, nelle diverse sezioni, i nomi dei monti, dei laghi,
dei fiumi ecc., con informazioni più o meno copiose e minute, secondo l'importanza che
l'affetto dei compilatore attribuiva ai diversi luoghi.
Gli avvenimenti della maturità
Mentre attende a
disseppellire i monumenti letterari e le glorie dell'antichità, le strettezze della
povertà lo costringono ad assicurarsi un'esistenza meno disagiata; in queste
preoccupazioni si innesta la visita del Cioni, come abbiamo visto. In questa occasione
riceve dal Petrarca una lettera piena di alte ed equilibrate parole in cui si sente tutta
la saggezza di un personaggio che a lungo ha meditato sui problemi della vita e della fede
e che quindi appartiene a un mondo più sereno e meno legato alla tumultuosità delle
vicende terrene, anche perchè non assillato da problemi economici per l'amicizia di
illustri personaggi di cui gode. Nella lettera dopo aver cercato di liberare il Boccaccio
dall'incubo del mortale annuncio del Cioni, lo prepara a una saggia e pacata
considerazione della morte con l'esortazione a non abbandonare gli studi, che sono il vero
conforto della vecchiaia, con grande delicatezza lo invita ad andare ad abitare con lui;
ed era un invito che mirava a liberare l'amico dalla precaria condizione economica in cui
si trovava.
Per ragioni di altrettanto profonda
delicatezza Boccaccio ricusa il generoso invito e preferisce dirigersi a Napoli, presso
Niccolò Acciaiuoli, che lo aveva chiamato e fatto invitare dal comune amico Francesco
Nelli (che morirà di peste nel 1363), già priore della chiesa dei Santi Apostoli a
Firenze, ed ora spenditore del gran siniscalco (che era appunto l'Acciaiuoli):
ritorna così a Napoli nell'ottobre del '62, con la speranza di trovare una sistemazione
decorosa (simile a quella del Petrarca col Duca di Milano); ma il cattivo trattamento
ricevuto anche questa volta dal vanitoso mecenate e dallo stesso Nelli, lo fa ben presto
pentire di aver intrapreso a cuor leggiero un così lungo viaggio; il Boccaccio, che aveva
un altissimo senso della dignità, si sente profondamente offeso non solo come persona
abituata a una vita decorosa, ma anche come letterato e uomo di studio che si vede
trattato allo stesso modo di un qualunque parassita: accolto in una stanza polverosa e
sporca, piena di ragnatele e dimenticato per quasi tre mesi dall'Acciaiuoli e dal Nelli,
come dimenticato addirittura fu a Tripergoli, una località vicino Baia, dove l'Acciaiuoli
aveva una villa dove, quando tutti lasciarono la villa per tornare a Napoli, rimase solo,
chiuso fuori dall'abitazione, con un fante e con le suoi poche e povere cose (soprattutto
libri), "sanza le cose necessarie al vivere e sanza niuno consiglio", come
scriverà in una infuocata e risentita lettera di rimprovero a Francesco Nelli.
Indignatissimo ai primi di marzo del 1363
abbandona, dopo soli sei mesi, Napoli, per raggiungere a Venezia (nel Palazzo Molin sulla
Riva degli Schiavoni che il Maggior Consiglio aveva assegnato allo scrittore che si era
impegnato a creare e incrementare la pubblica biblioteca con delibera del 4 settembre
1362) il suo Petrarca, dove giunge alla fine di giugno e dopo essere passato ad ammirare
ancora una volta la bellissima biblioteca di Montecassino. Dopo tre mesi di dolce vita in
comune, confortato dallo studio e da elevate conversazioni, se ne torna, non più a
Firenze, ma nella solitudine di Certaldo, donde scriverà un'erudita e lunghissima Epistola
consolatoria a messer Pino de' Rossi, esiliato da Firenze per una congiura contro lo
stato.
Ormai, per le opprimenti angustie della
povertà, che aveva ricominciato a soffrire proprio in quegli anni, e anche per desiderio
di quiete operosa, Boccaccio riscopre il paesello dei padri che comincia a riscuotere
tutte le sue simpatie; e da Certaldo non si muoverà più, se non per andare di tanto in
tanto a Firenze, a seconda delle parti politiche dominanti, chiamatovi a coprire qualche
ufficio pubblico, ch'egli, del resto, da quei reggitori ambiziosi e turbolenti accettava
mal volentieri, e più per avere occasione di qualche guadagno, che per cupidigia di
onori, dai quali l'animo suo ormai rifuggiva. Così nell'agosto 1365, correndo voce che
l'imperatore Carlo IV si accinge a venire in Italia, il Comune Fiorentino gli affida, come
a personalità di alto prestigio, un incarico molto difficile e delicato: ambasciatore ad
Avignone presso il Papa Urbano V, che era quel Guglielmo di Grimoard che Boccaccio già
conosceva, per tentare con ogni mezzo di scongiurare quella minaccia, e, dopo aver
liberato Firenze da ogni calunnia e provato la sua fedeltà alla Chiesa, non a parole, ma
ricordando gli aiuti anche recenti e i sacrifici sopportati per il Pontificato,
documentandoli con fatti registrati nelle «cronache», offrirgli una solenne scorta
d'onore, qualora si decidesse a rientrare in Roma, ben più sostanziosa di quella attesa
dall'Imperatore Carlo IV, formata da cinque galee armate e, come «fedelissima scorta»,
cinquecento barbute (soldati con corazza ed elmo detto barbuta) con lo stemma del Comune.
Lasciata controvoglia Firenze (soprattutto per motivi di salute) il 21 agosto, facendo
tappa a Genova per un'altra missione ufficiale presso il Doge per le vessazioni di questi
contro la famiglia Grimaldi, arriva prima della fine del mese ad Avignone; il soggiorno è
piacevole, allietato dai numerosi amici e conoscenti che ritrova, come Francesco Bruni
(era il segretario apostolico), che subito, senza farlo attendere, lo introduce presso il
Papa aiutato anche da Philippe de Cabassoles amico del Petrarca e già Gran Cancelliere
della Corte angioina di Napoli fra il 1343 e il 1347. L'ambasceria ottiene un grande
successo, tanto che Firenze gli darà altri importanti incarichi. Nel mese di Novembre
può rientrare in patria, ritirandosi a Certaldo dove lo raggiunge la notizia della morte
dell'odiato-amato Niccola Acciaiuoli (avvenuta l'8 novembre)
Due anni dopo, viene di nuovo mandato
come ambasciatore a Viterbo e a Roma, sempre presso Urbano V, che gli rivolge grandi lodi
per aver saputo compiere il suo mandato così brillantemente.
Quello stesso anno 1367, dopo essere
stato a Ravenna, decide di giungere fino a Venezia, sperando di trovarvi il Petrarca, che
però è assente, trovandosi a Pavia, dove si era recato su invito del suo mecenate, il
Visconti Duca di Milano; lo accolgono cordialmente la figlia del poeta, Francesca, col
marito Francescuolo da Brossano, e a Venezia lo raggiunge la notizia che Urbano V era
arrivato in Italia:
Nella primavera infatti Urbano V, rompendo indugi e resistenze dei cardinali e dei dignitari, dei principi e del Re di Francia, era partito da Avignone; e, dopo una sosta a Marsiglia, sbarcato in Italia si era fermato a Viterbo (9 giugno '67). La fausta notizia era certo pervenuta al Boccaccio a Venezia; e, al suo ritorno, dai dirigenti della politica fiorentina dovette esser messo al corrente dei particolari della difficile vicenda e essere consultato sull'argomento, dati i felici contatti avuti da lui due anni prima col Pontefice e con la sua Corte. Forse già in questi colloqui nacque nella Signoria l'idea di inviare a congratularsi con Urbano V a nome del Comune fiorentino una persona così autorevole e notoriamente gradita: ché per i rapporti indiretti e diretti a Napoli e a Avignone, per le comuni alte amicizie da Francesco Bruni a Filippo di Cabassoles , per i sogni generosi di nuove crociate (che facevano esaltare al Boccaccio re Ugo di Cipro e facevano incoraggiare a Urbano V il figlio di Ugo, Pietro), per il ritorno a Roma e la politica italiana, il pio e austero Urbano V appare veramente il papa più conosciuto e amato dal Boccaccio.
La Signoria però attese a inviare la sua ambasceria quando, dopo l'estate, il Papa si trasferì a Roma (16 ottobre); e difatti ai primi di novembre si procedette alla nomina del Boccaccio (cui fu aggiunto Giacomino Giani). Dovette partire immediatamente e svolgere questa sua missione nel corso del novembre, se già del primo dicembre è il «breve» di congedo del Papa alla Signoria, con alti elogi dell'ambasciatore. Questi non si era limitato probabilmente all'ufficiale incarico gratulatorio, ma si era nuovamente reso interprete del pensiero della Signoria sull'inopportunità di una discesa dell'Imperatore in Italia; e aveva personalmente ancora sollecitato una larga concessione di indulgenze per i certaldesi che avessero contribuito a riparare la chiesa dei Santi Michele e Iacopo. Certamente anche questa volta l'aiutò Francesco Bruni, col quale dovette, come due anni prima, intrattenersi familiarmente e col quale parlò di un giovane amico, Coluccio Salutati, allora cancelliere a Todi e che pochi mesi dopo sarà collaboratore del Bruni stesso. È naturale incontrasse anche alla Corte prelati e dignitari coi quali aveva intrecciato o intrecciava allora rapporti amichevoli, e il valoroso difensore del Pontefice nel soggiorno viterbese, Niccolò Orsini (che vedremo a lui legato devotamente negli anni seguenti.
Ma non lungo dovette essere il soggiorno romano se già il 20 dicembre il Boccaccio era ritornato in patria, come indica in una epistola Coluccio Salutati, che fervidamente lo ringraziava di avergli scritto da Roma col Bruni e si scusava di non aver compiuto una visita di omaggio ( Ep., I 19). Probabilmente la brevità della dimora a Roma fu determinata sia dalla semplicità della missione, sia dai doveri che a Firenze il Boccaccio aveva assunto in quei mesi: era stato infatti nominato, per il quadrimestre novembre '67 febbraio '68, ancora all'ufficio della Condotta per verificare il servizio e le assenze dei mercenari. Forse, aumentato il numero delle milizie per la temuta discesa di Carlo IV, si volle ricorrere a chi già nel '55 e nel '65 aveva in circostanze simili fatte esperienze positive e era per le sue recenti missioni politicamente al corrente della situazione generale. Per tale incarico il Boccaccio dovette restare quell'inverno quasi stabilmente a Firenze e tornare a vivere a Certaldo solo nella primavera (probabilmente nel marzo). (Vittore Branca, op. cit.)
Né qui si arrestano i
viaggi del Boccaccio. Nonostante il ricordo della brutta accoglienza ricevuta
dall'Acciaiuoli, Napoli lo tenta ancora una volta nel '70, ed egli vi si trasferisce. Ma
viene ancora una volta deluso da un amico di giovinezza, Niccolò di Montefalcone, e
ricusa le offerte fattegli dal conte Ugo di Sanseverino, a nome proprio e della regina
Giovanna, ancorché confermate dal terzo marito della sovrana, Giacomo di Maiorca; per la
stessa delusione, non acconsente a stabilirsi presso il conte palatino Niccolò Orsini,
nelle terre che questi possiede tra Roma e la Toscana. Le offerte non lo lusingano più,
nè lo fanno soffrire come nel 1362 le illusioni perdute di una decorosa sistemazione:
preferisce il ritorno nella sua dolce terra di Certaldo, dove infatti lo ritroviamo nel
1371, oppresso dal bisogno, ma tutto intento a compiere i suoi poderosi lavori di
erudizione.
E proprio una lettera del gennaio 1371,
indirizzata da Napoli a Niccolò da Montefalcone, ci fa conoscere una nuova delusione
subita dal Boccaccio nei riguardi di un altro amico. Egli si era recato a Napoli,
"lasciando indignato la patria Firenze", non si sa per quale ragione, e là
aveva incontrato appunto Niccolò da Montefalcone, il quale, amico di gioventù e allora
abate (o semplice monaco?) del monastero Santo Stefano del Bosco in Calabria fondato dal
celebre S. Bruno di Calabria, lo aveva invitato presso il suo convento. Niccolò gli aveva
descritto «l'amena solitudine dei boschi» di cui diceva circondato il suo convento,
«l'abbondanza dei libri, i limpidi fonti, la santità del luogo e le cose confortevoli e
l'abbondanza di ogni cosa e la benignità del clima», tanto che il Boccaccio aveva avuto
«non solo il desiderio di vedere» quel luogo, ma anche forse un piccolo desiderio di
rifugiarvisi «se la necessità lo avesse richiesto». Ma all'improvviso Niccolò dopo
tante affettuosità scompare silenziosamente e il Boccaccio, profondamente deluso, gli
rivolge amare parole tra le quali si affaccia la triste riflessione che egli «è povero e
i poveri non hanno amici». È vero che nel frattempo al Boccaccio pervengono offerte di
ospitalità da parte di illustri personaggi, come Ugo di Sanseverino, Giacomo di Maiorca e
Niccolò Orsini, conte di Nola, che l'avrebbe voluto suo ospite in uno dei castelli che
possedeva tra Roma e la Toscana; ma egli, probabilmente per non affrontare nuove
delusioni, rifiuta tutto con cortesia e anche con affetto e torna in Toscana e forse
subito a Certaldo, che abbandonerà solo nell'ottobre del '73 per recarsi a Firenze.
Gli studi, il carteggio col Petrarca e
quello con Mainardo Cavalcanti, che già lo aveva soccorso a Napoli nel soggiorno del '62,
che si era recato in Toscana per sposarsi, sono le sue più importanti occupazioni,
insieme a una grave malattia nella seconda metà di agosto del 1372, con violenti attacchi
di febbre e dolori lancinanti che gli fanno credere di essere ormai giunto agli estremi
giorni della sua vita; ma un medico riesce a risolvere la situazione con energici salassi.
Il Boccaccio sente, comunque, a circa sessanta anni di età, questa malattia come
l'annuncio di una fine ormai prossima.
Il passare degli anni, insieme alle
ristrettezze economiche che non gli permettono un confortevole tenore di vita soprattutto
nei mesi invernali, influisce negativamente sulla sua salute, per cui il gaio autore del Decameron
si riduce in tale stato, da non poter fare altro che dolersi continuamente delle
sofferenze, che non gli danno mai tregua. Colpito gravemente dalla scabbia e da altre
infermità, ne rimane rattristato e spossato. Con deliberazione definitiva del 25 agosto
1373, il Comune fiorentino, in seguito ad una petizione di autorevoli cittadini del giugno
di quell'anno, gli affida l'incarico di leggere pubblicamente e commentare tutti i giorni
la Divina Commedia nella chiesa di S. Stefano di Badia per un anno e con un
compenso di cento fiorini d'oro da pagarsi in due semestralità. Nel nome di Dante,
ritrova subitamente il suo coraggio e il suo entusiasmo, e si sottopone volonteroso alla
grave fatica; ma il commento, viene interrotto dal Boccaccio, all'incirca poco una
sessantina di lezioni, che lo conducono solo fino al diciassettesimo verso del canto XVII
dell'Inferno. La causa di tale interruzione sarebbe da ricercare non solo nei malanni, che
tormentavano il poeta nell'ultimo periodo della vita, ma anche nell'opposizione di alcuni
importanti e dotti personaggi che non ritenevano degno e lecito svelare al volgo le
«parti occulte» della sublime opera di Dante. Testimonianza di ciò sono due lettere
all'amico e "mecenate" Mainardo Cavalcanti e quattro sonetti (CXXII-CXXV) che,
secondo l'opinione comune, si è propensi ad assegnare con sicurezza al Boccaccio.
Nei quattro sonetti s'intuisce quello che
deve essere stato il conflitto interiore del Boccaccio che, dopo essersi lasciato indurre
a leggere Dante per «vana speranza e vera povertade», per i «prieghi»
degli amici e soprattutto per il suo reverente amore verso l'Alighieri, finì - certo per
questo amore e per questa reverenza - col dar ragione a chi lo riprovava e col sentir
«disdegno» verso se stesso, che aveva «aperti al vulgo indegno» gli alti «concetti »
dell'Alighieri (son. CXXIII). Riportiamo, per documentazione, i quattro sonetti con una
traduzione in prosa:
CXXII S'io ho le Muse vilmente prostrate Se ho umiliato le
muse nel gettandole nel fango del volgo e ho rivelato le parti occulte scioccamente alla
feccia plebea, non importa più che mi rimproveriate queste offese, preché crudelmente
Apollo le ha vendicate nel mio corpo tanto che ogni mia fibra ne risente. |
CXXIII Se Dante piange, dove ch'el si sia, Se Dante piange, dovunque
egli sia, perché i concetti del suo alto ingegno sono stati svelati al volgo indegno,
come tu affermi, dalla mia lettura, ciò mi dispiace molto, né potrà accadere che
smetterò di sdegnarmi contro me stesso, anche se un poco mi trattengo perché questa
follia non fu mia ma di altri. |
|
CXXIV Già stanco m'hanno e quasi rintuzzato Le tue rime, accese per mia vergogna,
mi hanno già stancato e quasi umiliato, e quantunque nel mio misero stato io abbia da
pensare a tante cose tristi, pure talvolta, forzato proprio da quelle, ho risposto a ciò
che desiderano le tue parole, che certamente non sono state affinate a Bologna se pensi
bene alle cose aspre che hai scritto. |
CXXV Io ho messo in galea senza biscotto Ho messo in una nave senza cibo (in
un'impossibile impresa) il volgo ingrato e l'ho lasciato senza nocchiero in un mare a lui
sconosciuto, benché si crede di essere dottore e maestro: e spero di vedere la nave
sottosopra e senza salvezza; né accadrà, benché sappia nuotare, ch'egli rimanga dolente
e stanco. |
La morte
Dopo il 1371 le
condizioni di salute del Boccaccio vanno peggiorando di giorno in giorno e a questo
contribuiscono non poco le amarezze per una condizione di vita difficile in cui la
povertà la faceva da padrona; dalla fine del 1373, come abbiamo visto, non gli mancano
neppure biasimi e aspre critiche, fra le quali si distinguevano quelle di Lapo da
Castiglionchio, un personaggio di discreta cultura che faceva parte del partito Guelfi che
in quegli anni dominavano la politica fiorentina, che lo accusava di prostituire le
Muse dando in pasto il Poema Sacro al volgo ignorante: e questi rivali erano o
persone che avevano una concezione gelosamente aristocratica della Letteratura o temevano
irriverenze e deviazioni di carattere teologico e religioso: comunque temevano di perdere
di mano il filo della gestione del potere che si sarebbe sfilacciato per la diffusione
della cultura.
Cosicché, stremato di forze, avvilito
d'animo, e convinto anche lui che non era opera saggia somministrare tale capolavoro a
quegli «ingrati meccanici, nemici d'ogni leggiadro e caro adoperare», a un certo punto
decide che è giusto smettere la lettura del Poema dantesco. Siamo nei primi mesi del
1374: il convincimento, comunque, non avrebbe potuto arrivare per mezzo dell'avversione di
un Lapo da Castiglionchio o altri consimili personaggi minori, ma per mezzo di un
autorevole personaggio, sia sul piano della cultura che su quello del livello sociale cui
apparteneva, e doveva essere veramente importante se sentiamo nei sonetti una sorta di
rispetto e una certa progressiva remissività nei suoi confronti.
Le sue condizioni di salute, intanto,
peggiorano notevolmente e impegnano allo stremo il suo già magro patrimonio, tanto che in
gennaio deve vendere il podere di Pulicciano per 120 fiorini d'oro. Ormai si può
permettere di muoversi e di camminare con gravi stenti e difficoltà; alcuni pietosi amici
si prendono cura di trasportarlo a Certaldo, di accudirlo con grande affetto.
Il ritiro di Certaldo gli permette, se non altro, di superare indenne la pestilenza del
1374. Il 28 agosto fa stendere da ser Tinello da Passignano il suo definitivo testamento,
in cui si ricorda anche della "servente povera e ignorante Bruna Gango da
Montemagno" mentre si stringevano intorno a lui gli amici superstiti della gioventù.
Poche sono le notizie che abbiamo intorno ai suoi ultimi mesi di vita; e fra queste gliene
giunge una che, per colmo di amarezza, arriva con un ritardo di tre mesi, con una lettera
del 19 ottobre di Francescuolo da Brossano, il triste annunzio che il suo Petrarca si era
spento nella sua solitaria casetta di Arquà sui colli Euganei, nella notte fra il 18 e 19
luglio 1374. Per l'amico scomparso scrive il sonetto CXXVI col quale si chiude il suo canzoniere:
Or sei salito, caro signor mio, nel regno, al qual salire ancor aspetta ogn'anima da Dio a quell'eletta, nel suo partir di questo mondo rio; or se' colà, dove spesso il desio ti tirò già per veder Laüretta; or sei dove la mia bella Fiammetta siede con lei nel cospetto di Dio. Or con Sennuccio e con Cino e con Dante vivi, sicuro d'etterno riposo mirando cose da noi non intese. Deh, s'a grado ti fui nel mondo errante, tirami drieto a te, dove gioioso veggia colei che pria d'amor m'accese. |
Non molti mesi dopo,
il 21 dicembre 1375, anche il Boccaccio si spegne, e, come aveva disposto per testamento,
il suo corpo viene sepolto nella chiesa dei SS. Michele e Iacopo, mentre la sua libreria
finisce nelle mani di fra Martino da Signa, nel convento di S. Spirito a Firenze.
Due ammiratori ne piangono la grave
perdita: Franco Sacchetti e Coluccio Salutati. Mentre quest'ultimo componeva in versi
l'epitaffio che si legge tuttora sul cenotafio di Certaldo, l'altro vedeva tristemente,
con la scomparsa del Boccaccio, la fine d'ogni poesia:
Or è mancata ogni poesia, e vote son le case di Parnaso; po' che morte n'ha tolto ogni valore. |
Questo l'epitaffio del Salutati, che qualcuno però dice scritto dallo stesso Boccaccio.
HAC SUB MOLE IACENT CINERES AC OSSA JOHANNIS, MENS SEDET ANTE DEUM MERITIS ORNATA LABORUM MORTALIS VITAE; GENITOR BOCCACIUS ILLI, PATRIA CERTALDUM, STUDIUM FUIT ALMA POESIS |
(Sotto questa pietra giacciono le ceneri e le ossa di Giovanni, l'anima sta davanti a Dio ornata dei meriti dei travagli della vita mortale, ebbe come genitore Boccaccio, Certaldo come patria, occupazione prediletta fu la divina poesia)
Con questo alto e
disinteressato amore per la poesia, si identifica pure la sua candida reverenza per Dante
e Petrarca, che della Poesia gli apparivano la somma incarnazione, e con questo stesso
amore aspira alla gloria con un senso già umanistico della esistenza, ma che non
raggiungerà appieno nella sua vita lasciandogli qualche rammarico doloroso.
E certamente a quei fiorentini, più inclini all'amore per la cultura che per la politica,
che alla morte di Dante e poi del Petrarca vedevano seguire, a così breve distanza, anche
quella del Boccaccio - la terza delle tre grandi corone - doveva sembrare nella tristezza
dell'ora, e non a torto, che ogni luce d'arte e di poesia fosse tramontata per sempre,
giacché non appariva chi potesse degnamente sostituirli.
Il carattere
Alieno dalle turbolenze
delle fazioni e dai bassi intrighi della politica, ch'egli sinceramente deplorava, il
Boccaccio si era dimostrato un cittadino per bene e aveva servito con disinteresse e
intelligenza la propria patria, tutte le volte che n'era stato richiesto e che gli
interessi dei tempi e delle parti politiche lo avevano reso necessario, andando poi a
nascondere la sua povertà e i penosi acciacchi della vecchiaia nella dolce solitudine di
Certaldo. La modestia e la sua dirittura morale sono stati sempre lontani da ogni forma di
presunzione e allo stesso tempo esenti dall'invidia.
Fervido ammiratore di Dante e del
Petrarca, egli mai ha tralasciato qualche propizia occasione per onorarli, mentre in tutti
i suoi scritti non si trova una parola di ostentazione per sé stesso e per l'opera
propria, che pure è stata grande e piena di meriti duraturi. Le sole parole di
rimprovero, ch'egli due volte si è permesso di rivolgere coraggiosamente al poeta
aretino, sono state cagionate dal fatto, ingiusto e doloroso all'animo suo, di saperlo
stabilito a Milano alla corte di Giovanni Visconti, grande nemico dei Fiorentini, e di non
vederlo partecipe della propria illimitata ammirazione per l'Alighieri. E appunto, per
indurre l'amico a meglio conoscere, ad apprezzare, ad amare l'esule glorioso, si faceva
premura di mandargli un esemplare della Commedia, accompagnando il dono con una calda
epistola latina di elogio per l'autore, la quale non rimase senza risposta. Ma, del
proprio Decameron, egli forse non ha mai fatto il più piccolo accenno, nei
frequenti colloqui e nella loro ininterrotta corrispondenza epistolare, se il Petrarca,
nel tradurre in latino il racconto di Griselda, dichiarava di aver conosciuto il libro per
caso, e solo in quell'anno, che doveva essere per lui l'ultimo della vita.
Invece, nella scoperta dell'antichità e
nel fervido amore per le lettere latine, i due amici hanno proceduto sempre d'accordo,
scambiandosi libri, informazioni e suggerimenti d'ogni genere, con una collaborazione
assidua e cordiale che non sarebbe mai venuta meno.
Per quanto riguarda l'abilità nell'uso e
nella comprensione della lingua di Virgilio e di Cicerone, nell'originalità del pensiero
e nelle eleganze formali della poesia, il Boccaccio si è sentito sempre un discipulus,
trattando il Petrarca come un pater magister anche se fra i due non c'erano che
nove anni di differenza.
L'arte del Boccaccio
La fama del Boccaccio,
meglio che all'opera sua infaticabile di precursore dell'Umanesimo, e di compilatore di
dotte scritture latine, ormai sorpassate dall'avanzamento degli studi e certo inferiori di
merito a quelle del Petrarca, rimane durevolmente affidata alle sue opere in volgare, le
quali rivelano con maggiore spontaneità e originalità le qualità del suo ingegno e
certa sua modernità di tendenze.
Boccaccio era dotato d'un temperamento
impetuoso e generoso, facile alla collera, ma altrettanto facile a calmarsi, d'una
fantasia agilissima, di uno spirito d'osservazione a cui nulla sfuggiva, con una
particolare disposizione a cogliere mirabilmente il lato più drammatico, passionale e
ridicolo d'ogni persona. Con lo studio assiduo e nello speciale ambiente in cui ha
trascorso i suoi anni migliori, quelli della fanciullezza, ha coltivato queste felici
attitudini; per cui ne è venuto fuori un singolarissimo impasto di arguzia fiorentina e
di accomodante epicureismo napoletano, quella vivissima disposizione all'indulgenza un po'
beffarda e alla spassosa giocondità, che lo rendono un descrittore malizioso e arguto
della società, ma poco austero e pungente, adatto a maneggiare l'arma delicata del riso e
dell'ironia, che divertono, piuttosto che la sferza della satira, che flagella e corregge
i costumi.
Studium fuit alma poesis, è
scritto sulla sua tomba da Coluccio Salutati (Stignano in Valdinievole 1331 - Firenze
1406), che raccoglie e valorizza l'eredità di Petrarca e dello stesso Boccaccio; ma, in
realtà, se della poesia è stato un fervente e fin troppo prolifico cultore, quasi mai ha
raggiunto però le vette, cui eran giunti Dante e Petrarca, come egli stesso ebbe più
volte a riconoscere sinceramente: e non già per aver perduto, a causa dell'ostinata
avversione paterna, i suoi anni migliori dietro al commercio o agli studi legali, ma solo
perché al mondo poetico di lui hanno fatto difetto le elevatissime idealità
dell'Alighieri, e l'abito alla finissima analisi interiore, che ebbe il Petrarca insieme
alla grande capacità di utilizzare il particolare e tecnicissimo mezzo linguistico.
Tuttavia, è riuscito ad affermare in
modo meraviglioso la propria individualità di scrittore, in quel mondo della realtà,
dominata dall'intelligenza umana, ch'egli più profondamente sentiva e di cui diventa in
vario modo il pittore originale, meglio nella prosa che nella poesia, e in questa, solo
dove occorresse raccontare, descrivere, rappresentare contrasti di affetti e lotte
interiori. Così, in Boccaccio, lasciato ai propri istinti fin dalla tenera età e
cresciuto in una città gaudente e voluttuosa come Napoli, dove l'attaccamento alla vita
terrena e la facile sottomissione alle leggi di natura si affermano e trionfano
gioiosamente sul triste mistero della morte, si afferma la grandezza artistica della
narratività; ond'egli, più ancora dell'Alighieri e del Petrarca, si trascinerà dietro
le future generazioni, con i suoi romanzi e in parte coi suoi poemi, ma soprattutto col
suo capolavoro, in cui la commedia umana, anche al di là delle intenzioni dell'autore, si
pone accanto agli altri due grandi fiorentini.
© 2000 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: bonghi@fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 12 luglio 2000