Giuseppe Bonghi

Biografia
di
Giovanni Boccaccio

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parte prima parte seconda parte terza
adolescenza giovinezza maturità

Giovinezza

Il richiamo paterno

         Agli affanni prodotti dall'amore, preoccupazioni d'altro genere non tardano ad aggiungersi e gravare sull'innamorato poeta, giacché gli affari del padre, che si era separato dalla compagnia dei Bardi, così prosperi fino a quel momento, stavano subendo improvvisamente un tracollo (la stessa Compagnia dei Bardi e dei Peruzzi sta attraversando gravi difficoltà e sarà costretta a fallire nel 1345 per l'insolvenza del re d'Inghilterra). Pertanto Boccaccino, caduto quasi in povertà e rimasto nel frattempo vedovo (Margherita dei Mardoli, che apparteneva a una famiglia ricca e autorevole, muore nel 1338 o '39), finisce col richiamare presso di sé, a Firenze, il figlio improduttivo, che a Napoli era diventato solo una spesa insostenibile. Per questo, nel dicembre 1340, come confermano alcuni documenti, con suo grande dolore, Giovanni deve abbandonare Napoli. Non è un ritorno alle origini e alla propria patria, ma un abbandonare il luogo che lo aveva visto crescere e maturare, un distaccarsi da affetti radicati e profondi ai quali colla mente ricorrerà sempre con struggente nostalgia. Tenterà, nel corso degli anni, di ristabilirsi a Napoli, ma sempre, come affermerà lui stesso, la fortuna gli sarà nemica.
         Dopo tredici anni di soggiorno napoletano, da adolescente e discepolo immaturo diventato uomo esperto dei costumi del mondo, studioso di cultura e ricco di erudizione, poeta e prosatore, eccolo dunque a Firenze, dov'egli, si consola come può con l'arte sua, continuando a scrivere altre opere in volgare, come l'Ameto, la Fiammetta, l'Amorosa Visione, il Ninfale Fiesolano, la Commedia delle Ninfe (Ninfale d'Ameto) che per la prima volta contiene una dedica a un personaggio vero e storicamente accertato: Niccolò di Bartolo del Buono, quasi a dimostrare la sua volontà di entrare a far parte in modo integrante della cultura e della società fiorentina, abbandonando le velleità di un ritorno a Napoli, impossibile in quel momento per i contrasti tra fiorentini ed Angioini. Intanto la sua fama di letterato si diffonde, e mentre si affeziona sempre più a Firenze, non gli mancano di tanto in tanto occasioni per fare qualche viaggio.
         Poche e non sempre sicure o complete le notizie di questo decennio, che comunque presenta una vita domestica abbastanza serena, allietata nel 1344 dalla nascita del fratellastro Jacopo (il padre era convolato a seconde nozze, al più tardi all'inizio del 1343, con una Bice de' Bostichi che compare come sua moglie già in un documento del 21 maggio di quell'anno), dalla nascita nel 1348 della figlia Floriana avuta da una relazione con una donna del tutto sconosciuta, come sconosciuti sono gli altri suoi amori, più o meno importanti, compreso quello provato nel 1353-1354 per una donna che lo rifiuterà, un rifiuto da cui nascerà probabilmente l'opera Il Corbaccio. Ma oltre a Floriana poche e incerte notizie abbiamo intorno ad altri figli, almeno quattro, come si può leggere in "Vittore Branca, Giovanni Boccaccio - profilo biografico, Sansoni Firenze 1977", due maschi (Mario e Giulio, presenti nell'Ecloga XIV: ma sono nomi veri o trasformati come quello di Violante?) e due femmine di cui non si conosce nulla: e i due maschi avevano già qualche anno quando nel '44 o '46 scrive il Ninfale fiesolano.
         Nel novembre 1341 incontra l'amico Acciaiuoli, inviato per trattative politiche a Firenze (che dopo la sconfitta subita dai Pisani il 2 ottobre 1341 aveva chiesto aiuto proprio a Roberto d'Angiò e questi aveva mandato una ambasciata altamente rappresentativa di cui faceva parte anche Gianni Barile, uno dei maggiori nobili di Napoli) e soprattutto per la fondazione della Certosa di Val d'Ema, che sorgerà proprio su un terreno che viene donato dagli Acciaiuoli e il Boccaccio fu uno dei procuratori per il trasferimento dei beni ai due priori dell'Ordine che ne prendono possesso il 13 febbraio 1342; Boccaccino cerca di resistere alle difficoltà economiche facendosi aiutare dal figlio che, pur non avendo passione per l'arte della mercatura, stava diventando un personaggio abbastanza conosciuto nell'ambiente fiorentino; nel 1346 si reca a Ravenna, presso Ostasio da Polenta; l'anno seguente lo vediamo ospite di Francesco degli Ordelaffi, a Forlì, dove conosce il latinista Checco di Melletto; e forse, al seguito dell'Ordelaffi, fa un veloce viaggio a Napoli, quando Fiammetta ormai non c'era già più, e di qui riparte per Firenze ai primi del 1348 quando comincia a infuriare quella peste che mieterà molte vittime, tra cui tanti suoi parenti e amici, tra cui la matrigna Bice dei Bostichi.
         È la terribile pestilenza, così potentemente descritta nell'introduzione alla prima giornata del Decameron:

         Né fu una bara sola quella che due o tre ne portò insiememente, né avvenne pure una volta, ma se ne sarieno assai potute annoverare di quelle che la moglie e 'l marito, di due o tre fratelli, o il padre e il figliuolo, o così fattamente ne contenieno. E infinite volte avvenne che, andando due preti con una croce per alcuno, si misero tre o quatro bare, dà portatori portate, di dietro a quella: e, dove un morto credevano avere i preti a sepellire, n'avevano sei o otto e tal fiata più. Né erano per ciò questi da alcuna lagrima o lume o compagnia onorati; anzi era la cosa pervenuta a tanto, che non altramenti si curava degli uomini che morivano, che ora si curerebbe di capre; per che assai manifestamente apparve che quello che il naturale corso delle cose non avea potuto con piccoli e radi danni a' savi mostrare doversi con pazienza passare, la grandezza de'mali eziandio i semplici far di ciò scorti e non curanti.
Alla gran moltitudine de'corpi mostrata, che a ogni chiesa ogni dì e quasi ogn'ora concorreva portata, non bastando la terra sacra alle sepolture, e massimamente volendo dare a ciascun luogo proprio secondo l'antico costume, si facevano per gli cimiterii delle chiese, poi che ogni parte era piena, fosse grandissime nelle quali a centinaia si mettevano i sopravegnenti: e in quelle stivati, come si mettono le mercatantie nelle navi a suolo a suolo, con poca terra si ricoprieno infino a tanto che la fossa al sommo si pervenia.
         [.............]
         Che più si può dire (lasciando stare il contado e alla città ritornando) se non che tanta e tal fu la crudeltà del cielo, e forse in parte quella degli uomini, che infra 'l marzo e il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità e per l'esser molti infermi mal serviti o abbandonati né lor bisogni per la paura ch'aveono i sani, oltre a centomilia creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti, che forse, anzi l'accidente mortifero, non si saria estimato tanti avervene dentro avuti? O quanti gran palagi, quante belle case, quanti nobili abituri per adietro di famiglie pieni, di signori e di donne, infino al menomo fante rimaser voti! O quante memorabili schiatte, quante ampissime eredità, quante famose ricchezze si videro senza successor debito rimanere! Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ipocrate o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co' lor parenti, compagni e amici, che poi la sera vegnente appresso nell'altro mondo cenaron con li lor passati!

         E a Firenze si trova l'anno seguente, a causa della morte del padre, avvenuta verso la fine del 1349 e che l'anno prima era sfuggito alla peste. Da ora in poi, anche per i nuovi obblighi verso la famiglia, dovendo accudire ai fratellastri e al patrimonio di famiglia, prende stabile dimora a Firenze e comincia ad amare la città come la sua vera patria, dopo la passione per Napoli, e ne resterà sempre meno insoddisfatto sul piano dell'esistenza quotidiana in genere, anche se su quello della vita politica resteranno profonde le sue riserve morali, per cui non accetterà mai le mutevoli vicissitudini dell'instabile politica democratica fiorentina, perché troppo tendente da ormai oltre cento anni a sacrificare l'interesse del popolo per quello di una ristretta oligarchia. Comunque, in questa perenne incertezza il lievitare continuo della sua reputazione, gli permette di ricevere dai propri concittadini frequenti incarichi e onori, alcuni dei quali graditissimi al suo cuore di poeta, altri perché gli permettono di far fronte alle sue difficili condizioni economiche. E quando al potere ci sono i Guelfi, che gli sono avversi, non viene comunque mai toccato o messo in discussione, ma semplicemente messo da parte e non gli vengono affidati importanti incarichi politici.
         Fra l'agosto e il settembre del 1350 lo troviamo ambasciatore in Romagna per conto del Comune fiorentino (non si sa con quali compiti), e negli stessi giorni si reca a Ravenna con l'incarico, adempiuto certo con lieto animo, ricevuto da parte dei Capitani d'Or S. Michele, di consegnare dieci fiorini d'oro a Beatrice, figlia di Dante Alighieri, religiosa nel monastero di S. Stefano dell'Uliva, un "dono probabilmente sollecitato dallo stesso Boccaccio", che voleva essere anche un omaggio alla memoria del Grande Esule scomparso da quasi trentanni.
         La fama di cui ormai gode gli frutta da parte dei Fiorentini parecchi incarichi pubblici, che egli esegue "con quella serietà e quello scrupolo che gli venivano dalla sua retta coscienza d'uomo e di cittadino, piuttosto che da un vivo interessamento alla vita politica, di fronte alla quale si mantenne sempre un po' come uno spettatore, chiuso com'era nei suoi interessi di letterato: posizione che anticipa quella di tanti letterati del Rinascimento e che è confermata anche dall'appunto mosso da lui all'Alighieri per essersi troppo lasciato assorbire e trasportare dalla passione politica." (Carlo Grabher, Giovanni Boccaccio, UTET, Torino 1941)
         Nel 1351 fa parte autorevole dell'ufficio dei Camerlenghi del Comune, e viene inviato a Napoli come rappresentante della Repubblica nei negoziati con la regina di Napoli, e svolge le trattative col suo grande amico dei tempi del soggiorno napoletano, il Siniscalco Niccolò Acciaiuoli, per la cessione della città di Prato; infine, nel mese di dicembre, veniva inviato ambasciatore nel Tirolo presso il duca Lodovico di Baviera, per proporgli un'alleanza contro Giovanni Visconti. Contemporaneamente attende a scrivere e terminare il Decameron, iniziato con ogni probabilità fin dal 1348, di cui vengono divulgate in un primo tempo le prime tre giornate, e finito nel '53. A quarant'anni aveva raggiunto, con il suo capolavoro, la maturità artistica e il culmine della sua carriera letteraria.
         Nel 1354 viene inviato ad Avignone presso il Papa Innocenzo VI (il cardinale francese Etienne Aubert) e la sua ambasceria ha un sicuro successo tanto che resterà impressa nell'animo del Pontefice. Tornato da Avignone il Comune fiorentino lo manda ai primi di luglio nella sua Certaldo a contrastare Fra Moriale, una specie di capitano di ventura senza scrupoli, organizzando la resistenza dei certaldesi: Fra Moriale verrà poi preso e fatto decapitare da Cola di Rienzo. Queste ambascerie gli procurano non pochi vantaggi economici tanto che può permettersi di regalare al Petrarca il prezioso codice delle Enarrationes in Psalmos di Sant'Agostino che commuove profondamente il poeta aretino
         Verso la metà degli Anni Cinquanta, un profondo turbamento comincia a insinuarsi nel suo animo; quella serenità e quella calma, che gli avevan fruttato, da parte dell'Acciaiuoli, il nome di Johannes tranquillitatum, quasi ch'egli fosse insensibile alla sventure umane, si vennero offuscando, di modo che certi avvenimenti, che per l'innanzi gli avrebbero appena tratto sulle labbra un arguto sorriso, ora lo irritano e lo deprimono. Così il rifiuto oppostogli da una vedova fiorentina (siamo nel 1354, e il Boccaccio, abituato ai successi amorosi, non si era forse reso conto di non esser più giovane) lo punge sul vivo; e mentre in passato egli si sarebbe agevolmente consolato dello smacco, questa volta non sa frenare la delusione che lo porta fino alla collera che gli nasconde il proprio torto; onde, sull'esempio dello scolare Rinieri della celebre novella da lui poco prima composta, sfoga il suo malumore con l'arma pericolosa della vendetta, scrivendo il Corbaccio. In questo libello, con pungenti sarcasmi e con violenza inaudita, egli non s'accontenta di assalire la vedova che lo aveva respinto, ma travolge tutto il sesso femminile nella stizzosa acerbità della sua satira, piacevole comunque a leggersi per la vivacità dello stile e per alcuni gustosi quadretti del costume fiorentino.

L'amicizia col Petrarca

         Se nel 1341, per il richiamo paterno da Napoli, non aveva potuto conoscere di persona il Petrarca, già da lui sinceramente ammirato come un genio, allorché il poeta si recava alla corte del re Roberto, alla vigilia dell'incoronazione in Campidoglio, Boccaccio nell'autunno dell'anno 1350, ha la gioia di salutare e accogliere nella sua Firenze, di passaggio per quella città e diretto da Parma a Roma, nell'occasione del giubileo. Così racconta l'incontro Vittore Branca l'incontro nella sua "Vita di Boccaccio":

         IlPetrarca si era mosso dunque all'inizio dell'autunno da Parma per avviarsi pellegrino al Giu­bileo romano: e ecco fuori le porte di Firenze, in una giornata fredda di primo ottobre ... , si vide ... venire incontro il Boccaccio e offrirgli il dono tradizionale di un anello e fargli dolce violenza per averlo ospite nella sua casa di Borgo Sant'Iacopo ... Attorno a lui il Boccaccio chiamò in quei giorni il fior fiore della cultura fiorentina: anzi tutti Zanobi da Strada, già corrispondente dell'ospite e già nominato segretario dei nuovi sovrani di Napoli (4 novembre '49), il pio e sensibile priore dei Santi Apostoli Francesco Nelli, il giovane e coltissimo Lapo da Castiglionchio che rivelò al maestro le Istituzioni quintilianee e alcuni testi ciceroniani. Ascoltavano, questi clienti devoti, dal nuovo Virgilio dell'Africa e delle egloghe, dal nuovo Livio del De viris, dal poeta coronato in Campidoglio che ritornava a Roma in veste di peccatore penitente e di pellegrino, riflessioni poetiche e morali, notizie letterarie e erudite, cenni e citazioni da testi classici riscoperti e reinterpretati. E ascoltavano anche, come ricorda il Nelli, «carmina ... vocem illam venerandam atque tremendam, motus animi disertissima lingua interprete, extollentem». ... E difatti da Roma, dove era giunto poco dopo la metà di ottobre (il 16 era a Bolsena), il Petrarca, quasi a sta­bilire una primogenitura nell'affetto e nella stima umana e let­teraria, indirizzò «Johanni Bocchaccii de Certaldo discipulo suo» le espressioni epistolari di gratitudine e di amicizia anche per tutta quella piccola società culturale fiorentina. La «familiare» del 2 novembre fu la prima di quelle lettere all'amico che pun­teggeranno assidue i ventiquattro anni seguenti.
         Forse ancora presso il Boccaccio, rinnovando la festa di quei suoi «devoti» fiorentini, il Petrarca sostò in dicembre nel ritorno da Roma, anche per incontrare le autorità del Comune e forse per discutere con loro dei beni già confiscati a suo padre. Rientrato poi nella sua casa di Parma, l'Epifania del '51 indi­rizzò difatti ancora al Boccaccio, con commossa gratitudine, la splendida risposta al suo carme.

         Da allora si stringe fra i due Grandi della nostra Letteratura un'affettuosa amicizia, che durerà fino alla morte, importante per entrambi, ma proficua soprattutto per il Boccaccio, di nove anni più giovane, che molto aveva da apprendere dallo spirito meditativo e austero e dalla cultura dell'insigne amico, ch'egli del resto non si stancherà mai di chiamare e considerare, con devota umiltà, suo maestro, suo pater magister.
         Profonda perciò è la sua contentezza, quando, alcuni mesi dopo, all'inizio del 1351, gli viene affidato dal Comune fiorentino un delicato incarico: recarsi a Padova dal Petrarca, come latore di una lettera della Signoria, con cui si prometteva al grande Poeta la restituzione dei beni paterni e gli si offriva una cattedra nello Studio fiorentino. Alla proposta Petrarca oppone un rifiuto netto e ragionato, non esente da qualche dubbio: più importante era la sua cara indipendenza, che sempre e dovunque, da Avignone a Milano, dai Papi ai Visconti, sempre era stata rispettata; ma andando a Firenze si sarebbe sottomesso alla disinvolta volubilità dei politici dominanti: e che fosse volubile lo dimostravano gli ultimi cento anni di storia cittadina. Anche se tale proposta non viene accettata, essa però offre ai due grandi artisti l'occasione per approfondire la reciproca conoscenza.
         Il Boccaccio ammirava nel Petrarca non solo il carattere morale, ma la dottrina e la genialità poetica, ne rispettava la chiarezza dell'ingegno e della espressione delle idee, per il quale nulla era «ambiguo e oscuro» ma ogni cosa era chiara e spiegabile. Egli riconosceva il Petrarca come suo maestro, come si esprimerà nella lettera a Niccolò Orsini del 1372, affermando di dovergli molto di quanto valeva. L'amicizia del Petrarca ha avuto, quindi, una importanza notevole sull'uomo Boccaccio, non tanto sull'artista, che proprio in quegli anni stava componendo il suo capolavoro. Dopo il 1354 coll'avanzare dell'età, colla crisi economico-familiare, colla morte di una amatissima figlioletta (Violante, che aveva forse appena 5 anni) avuta in una relazione con una donna sconosciuta, colla sua vita da single, come si direbbe oggi, Boccaccio ha bisogno di trovare una condizione sociale e mentale senza difficoltà economiche e da uomo saggio, visto che ormai è diventato il personaggio centrale della cultura e dell'arte letteraria in Firenze e dintorni.
         L'amicizia tra i due scrittori è stata sempre schietta e nobile oltre che salda per tutta la durata della loro vita, e si è basata sul comune amore per la poesia e per gli studi eruditi, oltre che su una reciproca stima personale. Poche volte i due poeti hanno avuto l'occasione di incontrarsi, ma ogni incontro era pieno di tutto ciò che l'amicizia e l'amore per lo studio poteva mettere in comune tra due uomini, fino a creare un percorso di vita ideale, per molti aspetti comune e diverso. E durante i lunghi periodi durante i quali erano costretto a restare lontani, la loro comunanza era rinsaldata dalle lettere reciproche e dal reciproco scambio di libri che spesso il Boccaccio copiava per l'amico. Lo spirito pensoso e razionale, ma anche intimo e tormentato del Petrarca ha influito sulla crisi interiore che lentamente stava maturando nell'anima del certaldese. quando
         Le lettere che scriveva all'amico Petrarca trattava anche di quotidiani avvenimenti, oltre che degli studi, e rivelano la complessa maturità e spiritualità dell'autore; esse creavano nell'anima di Boccaccio un'eco profonda, specialmente quando questi dalla seconda metà degli anni Cinquanta in poi, cominciò a ripiegarsi in se stesso e ad essere più sensibile al tema della vanità e della instabilità delle cose umane; le lettere del Petrarca toccavano, insieme a questi temi, anche un austero senso della vita e della morte che gli dava la capacità di non temere i colpi della fortuna avversa. E questi stessi temi erano arricchiti da altri altrettanto importanti, come la passione per gli studi e i giudizi spesso acuti su autori antichi e moderni, e i consigli e i suggerimenti su avvenimenti quotidiani o su personaggi del tempo che Boccaccio avrebbe incontrato nelle sue ambascerie fiorentine: da tutto questo possiamo ricavare il fermento di un'anima alla perenne ricerca sia di sapienza che di quella verità che introduce a una vita che non può essere quella che viviamo quotidianamente.
         Il Petrarca si presentava al Boccaccio, quindi, non solo come un grande poeta e una guida sicura negli studi, ma anche come maestro di vita, che con il suo anelito verso una superiore umanità, con il suo spirito meditativo e il suo religioso tormento (il dissidio interiore) spingeva l'autore del Decameron verso una concezione austera della vita e a trovare quell'equilibrio sempre così difficile da realizzare anche per il Petrarca tra elementi terreni ed elementi spirituali.
         I due amici si incontreranno ancora negli anni 1359, 1363, 1368.

Un decennio tra pubblico e privato e la visita del Ciani.

         Il 2 novembre 1360 Papa Innocenzo VI, presso in quale in Avignone Boccaccio era stato ambasciatore di Firenze nel 1354, concedeva "al diletto figlio Giovanni dato da Boccaccio di Certaldo, chierico fiorentino" ampia dispensa perché potesse ricevere "tutti gli ordini... e il beneficio ecclesiastico"; Boccaccio era quindi già chierico e, avendo studiato diritto canonico, ottiene una concessione ampia e onorifica, un beneficio di non piccola importanza, anche se nessun documento diretto ci attesta la cosa.
         Sempre nel 1360, forse all'inizio dell'estate, giunge a Firenze Leonzio Pilato, dall'orrido aspetto e dalla faccia con la barba ispida, dall'aspetto che apparentemente sembra distratto, come distratto sembrava sul rispetto delle più elementari norme morali e di comportamento. Boccaccio, col suo solito candido entusiasmo per la cultura, lo invita e lo ospita in casa sua, e capisce che era veramente dottissimo nella lingua greca e conosceva la storia greca e le favole come se fosse un grande archivio; Briga allora per farlo nominare lettore di greco nello Studio fiorentino (1360-62), e facendosi arrivare, con non lieve spesa, un codice da Padova, lo spinge a tradurre i poemi d'Omero, seguito dall'ammirazione degli amici del circolo fiorentino e approfittando per proprio conto della favorevole occasione per approfondire volonterosamente la scarsa conoscenza che aveva di quella lingua, e per arricchire di nuove citazioni il suo trattato De genealogiis. Il 18 ottobre iniziano le lezioni, che dureranno per circa due anni fino all'ottobre 1362, ma ben presto di leva un coro di critiche anche abbastanza aspro, soprattutto rivolte al fatto che quelle lezioni erano inservibili per coloro che volevano commerciare con l'oriente; ma l'autorità del Boccaccio riesce a tenere "fermo il carattere culturale e letterario dell'iniziativa (Branca)". Ed era comunque una autorità politicamente non ben ferma in quei tempi dopo che la faziosità della Parte Guelfa sin dal 1358 aveva conquistato il potere effettivo sulla città facendo approvare una legge iniqua fonte di turbamenti civili, contro la quale invano nel 1360 ci fu una specie di colpo di mano che, una volta scoperto, portò alla morte parecchi nobili cittadini e all'esilio altri, fra cui alcuni amici (come Niccolò di Bartolo del Buono cui aveva dedicato la Comedia delle Ninfe e Pino de' Rossi al quale invierà La famosa Epistola consolatoria tra la fine del 1361 e l'inizio dell'anno seguente) dello stesso Boccaccio che fino al 1365 non avrà nessun incarico pubblico.
         Erano, quindi, anni intensi di studio da un lato, e di dolore dall'altro, che avevano messo a dura prova il suo spirito, agitato da preoccupazioni religiose, come ci è attestato da alcune sue egloghe latine di questo periodo, e dai suoi rapporti con la Chiesa che abbiamo appena accennati. In questo contesto un fatto ancor più grave viene a sconvolgere l'equilibrio del suo spirito: nella primavera del '62, va a fargli visita a Firenze, in gran mistero, il monaco Gioacchino Ciani, il quale, da parte del certosino senese Pietro Petroni, morto qualche anno prima in odore di santità, si faceva premura d'informarlo di certe rivelazioni avute da quel sant'uomo, prima di morire: per esse, lo spensierato scrittore avrebbe dovuto aspettarsi la morte entro poco tempo e quindi avrebbe dovuto prepararvisi seriamente, rinunziando alle seduzioni della poesia profana, per dedicarsi tutto ad argomenti più elevati di religione e di morale. Il povero Boccaccio rimane come fulminato da questo avviso, ch'egli, nel turbamento dell'animo suo, non dubitava fosse ispirato dalla misericordia divina; la paura della morte lo invade a tal punto, che viene tentato di dare alle fiamme tutte le sue carte e di finirla con la gloria di questo mondo. Fortunatamente, ha la prudenza di consigliarsi col suo grande amico Petrarca che gli risponde con tale nobiltà e opportunità di argomenti, da dissipare ogni timore e farlo persistere negli studi prediletti.
         Tuttavia, d'allora in poi, il pensiero della morte, sentita come cosa naturale e inevitabile, e degli studi concepiti come un continuo perfezionamento dell'anima, rimane come un pensiero costante nella mente del Boccaccio, che si convince sempre più a seguire l'esempio del Petrarca dedicandosi quasi del tutto a studi umanistici e di erudizione. Per questo, fatta eccezione per i pochi scritti volgari in onore di Dante, da lui sempre profondamente sentito e venerato, egli non scrive più che in latino, cominciando dal Bucolicum carmen, per venire al De casibus illustrium virorum, al De claris mulieribus, al trattato mitologico De genealogiis e al dizionario geografico De montibus.

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Ultimo aggiornamento: 12 luglio 2000