Pietro  Bembo

Rime

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Rime aggiunte - edizione 1753

CANZONE
DI
MADONNA VIRGINIA SALVI
Sanese.

      Mentre che 'l mio pensier dai santi lumi
Prendea fido riposo,
Ben non vid'io, che al mio ben fosse eguale.
Or che 'l ciel vuol, ch'in pace i mi consumi,
E a forza tenga ascoso
Il troppo acerbo e doloroso male,
Piacciavi darme l'ale
Così veloce a ritrovarvi poi,
Che sempre vivo in voi,
E ne piglio cotanta e tal dolcezza,
Che 'l mio cor lasso ogn'altra vista sprezza.

      M'è a noia, ove ch'io miro, se sembianza
Di voi, ben mio, non veggio:
E se di chiari spirti ho sempre intorno
Vago drappel, l'acerba lontananza
Fa, che col duol vaneggio.
Nè gioia, nè piacer fa in me soggiorno
Talchè a voi sempre torno,
Ch'ivi è la mia ricchezza, e 'l mio tesoro,
Ivi le gemme e l'oro
Son, che cotanto l'alma onora e prezza,
Che 'l mio cor lasso ogn'altra vista sprezza.

      Movo talor le piante, ove 'l bel piede
Premendo se ne gìa
Le tenerelle erbette, e i vaghi fiori,
Per veder, s'orma almen di quei si vede;
Ma l'alta speme mia
Nulla ritrova fuorchè i suoi dolori:
E se Ninfe, o Pastori
Veggio, dimando pur, se del Sol mio
San nulla, e mentre un rio
Fan gli occhi mesti, e sono a tale avvezza
Che 'l mio cor lasso ogn'altra vista sprezza,

      Ma che spero io trovare in altri mai
Di voi sembianza vera,
Se l'alma bella, e 'l valoroso velo
Fe senz'eguale il ciel per più mei guai?
Che dunque 'l cor piú spera
Temprar senza voi stesso il caldo e 'l gelo,
Che con grave duol celo
Fra finto riso, e simulato volto?
Non potendo veder vostra bellezza
Il mio cor lasso ogn'altra vista sprezza.

      Se pur altro defio di eterno onore,
Di più lodate imprese
Vi face star da me, cor mio, lontano;
Benchè mi doglio, pur sento 'l valore
Vostro con l'ale stesse
Girsen' poggíando ognor per monte e piano;
Veggio la bella mano
Far con la spada al reo nimico danno,
E con tema ed affanno
Farlo cattivo, onde sua forza spezza,
E 'l mio cor lasso ogn'altra vista sprezza,

      Canzon mia passa i monti,
E ratta vanne al chiaro mio bel Sole;
E dì queste parole.
CINZIA vive a te lungi in tanta asprezza,
Che 'l suo cor lasso ogn'altra vista sprezza.

        RISPOSTA DEL BEMBO
                  Alla Canzone
       DI M. VIRGINIA SALVI.

         CANZONE XI.   (XVIII.)

      Almo mio Sole, i cui fulgenti lumi
Fan chiaro e luminoso
Quant'oggi mirar può vista mortale,
Perchè più lagrimando ti consumi?
Quantunque il volto ascoso
Ti fia, qual chiami in terra senza eguale,
Non fai, che i vanni e l'ale
Ha il bel pensier, e li viaggi suoi
A CINZIA sono, e poi
Ne tragge una sì estrema e gran dolcezza,
Che il mio cor lasso ogn'altra vista sprezza.

      Non pur quella benigna alta sembianza,
Qual con la mente veggio,
Ed in mezzo dell'alma fa soggiorno,
Amareggiar l'acerba lontananza,
Che l'onorato seggio
Ha così bella immago al core intorno,
Il bel sembiante adorno,
E la rara beltà, che in terra adoro
In cui sol vivo e moro,
Gode 'l penser lontan, e sì l'apprezza,
Che 'l mio cor lasso ogn'altra vista sprezza.

      Quantunque in altro clima io giri il piede,
Non però mi disvia
Amor sì li desir, che i primi ardori
Smorzi, e la data mia sincera fede:
La viva speme mia
Sempre ha sostegno di tempi migliori:
Muse, Ninfe, e Pastori
Cantan lodando il degno alto disio;
E mentre il pensier mio
Fermo con l'alma al dolce oggetto avvezza,
Il mio cor lasso ogn'altra vista sprezza.

      Però se di lontan gli amati rai,
E la bellezza altera,
Se la gentil sembianza e 'l chiaro velo
Scorge l'occhio mental più dolce assai,
Che la presenza vera,
Perchè più ti distempra il caldo o 'l gelo?
Poich'è benigno il cielo,
Qual giunge l'alme, rafferena il volto,
Qual fia più grato molto
L'aspettato ritorno alla bellezza,
Che 'l mio cor lasso ogn'altra vista sprezza?

      Non mi scompagna un volontario errore,
Ma un desio d'alte imprese,
Che a te deve aggradir, mi fa lontano
Viver; ma vivo in te vive 'l mio core,
E le mie voglie accese
Passan mari, alti monti, e largo piano,
Ed al bel viso umano
Mille e più volte 'l duol torno fanno
Tempra dunque ogni affanno
CINZIA mia dolce, e 'l duol già rompi e spezza
Che 'l mio cor lasso ogn'altra vista sprezza.

      Canzon ripassa i monti,
E dì pietosamente al mio bel Sole
Queste quattro parole:
Vivi, CINZIA gentil, fuor d'ogni asprezza,
Che 'l mio cor lasso ogn'altra vista sprezza.

          CANZONE XII.   (XIX.)

      Quel vivo Sol, che alla mia vita oscura
Solea far chiaro giorno,
E chetar le tempeste del mio core,
Volge i suoi raggi altrove, e più non cura,
Se alle tenebre torno:
O mia ventura, ove m'hai giunto Amore!
Per doglia non si muore,
Chi vide al mondo mai sì dura sorte?
Sol ho disio di morte,
Nè morir posso, e tempo é di morire,
E cresce la mia vita col desire.

      Viverò dunque, ed altri indegnamente
In un punto beato
Vive del nutrimento di mia vita?
Non viverò, nè fia mai sì possente
L'empio crudel mio fato,
Che non discioglia l'anima smarrita
Questa pena infinita;
Oprin sua forza le maligne stelle
D'ogni mio ben rubelle;
Che se 'l dolor di vita non mi priva
Non fia già mai, che al mio dispetto i viva.

      O fiera rimembranza del mio bene,
Del mio tempo felice,
Che sì tosto passò, ch'appena il vidi!
Io vidi già fiorir l'alta mia spene:
Poi con svelta radice
In uno istante morta la rividi.
Misero, in cui ti fidi ,
Io son caduto, ch'era al ciel vicino.
Non so per qual destino
Or vo piangendo, or vo traendo guai,
Non per mia colpa, ma che troppo amai.

      Donna leggiadra, e più chiara che 'l Sole,
Che l'età rasserena,
Quando sorride, e quando un sguardo move,
Mostrommi Amor, e femmi udir parole
D'addolcir ogni pena,
E veder atti da far arder Giove;
Fiamma non vista altrove
Subito m'arse 'l core, ed in costei
Girando gli occhi miei
Divenni cieco, e sì da me diviso,
Ch'io non vidi mai morte nel bel viso.

      A poco a poco poi sentì legarmi,
Dico sì dolcemente,
Ch' ebbi in odio la cara libertade:
meco stava Amor per consolarmi,
Mostrandomi sovente
Dui vaghi lumi accesi di pietade;
E 'n la maggior beltade
Un puro e nobil cor pien di mercede,
Pien di fermezza e fede;
Poi mi giurò sull'arco e sulla face,
Sulla faretra darmi eterna pace.

      Quanto la tua promessa, Amor, mi piacque,
Tanto valor non sento,
Ch'io basti a immaginarlo col pensiero:
Smisurata allegrezza al cor mi nacque;
Il Sol il più contento
Non vide in l'uno, nè 'n altro Emispero:
Ond'io divenni altero
Della speranza; che se 'l ver mi esalto,
Allor montai tant'alto,
Che pien di meraviglia fra me stesso
Dicea mirando; sono al cielo appresso.

      Io caddi poi, poichè fui presso al cielo,
Caddi da tanta altezza,
Che la ruina mia non giunse al fine.
E innanzi agli occhi mi fu posto un velo,
Talchè per la chiarezza
Non vidi delle due luci divine
Le rose in sulle spine:
Ogni mia pace mi fu volta in guerra.
Ed allor vidi in terra
L'avara fe caduta e cortesia
E pietà morta della Donna mia.

      Canzon, non so se alcun cerca la doglia
Che sì a morir m'invoglia;
Rispondi, il gran desio senza speranza
È del perduto ben la rimembranza .

            SONETTO V.   (XX.)

      APOLLO, quando a noi si mostran fuore
L'alme luci, e le chiome crespe e bionde,
Deh perchè sì veloce in mezzo l'onde
Ti attuffi, e privi noi di sì dolci ore?

      Forse paventi in te novello amore,
Qual già sentisti in quella, ch'or ti asconde
La data scorza e l'onorata fronde,
Che sprezza Giove irato e 'l suo furore?

      Stolto deh non fuggir quel, ch'altri brama;
Non schivar quel , che tanto piace altrui;
Resta a veder la bella donna meco:

      E se natura, o 'l ciel pur ti richiama
In altra parte, mostra lor, per cui
Fermasti il corso, e fermeransi teco.

          CANZONE XIII.   (XXI.)

      Del procelloso mar rabbuffa l'onde
Or l'austro, or borea, e freddi ghiacci e nevi
Coprono i monti, e sono oscuri e brevi
I giorni, perchè Apol suoi raggi asconde;
Nè potendo aver io sentiero altronde,
Che son senz'ale e piume,
Al vivo e chiaro lume,
Alle rare bellezze alme e gioconde,
Alle man bianche, al volto unico e divo,
CINZIA mia illustre, però tardi arrivo.

          CANZONE XIV.   (XXII.)

      Solingo e vago augello,
Ch'hai sben sparsi i tuoi soavi accenti,
Or odi i miei lamenti:
Io vissi in gioia, or sol del pianger vivo,
Che non già d'altra lasso il cor si appaga.
E quella, ond'io fiorivo,
In vece dei mio ben, del pianto è vaga,
Deh guarda alla mia piaga,
Dolce augellino, e se pietà ti piega,
L'ali amorose spiega,
E va innanzi al mio Sole,
E dolce canterai queste parole:
Da te, da Amor, da tua beltà infinita
Chiede un misero Amante o morte, o vita.

            CAPITOLO IV.   (XXIII.)

      Dolce e amaro destin, che mi sospinse
Là, dove prima Amor senza contese
Il dolce e amaro nodo al cor m'accinse,
      Dolce e amaro desir, che al cor discese,
Trovando in gli occhi incauti aperta via,
E dolce e amaro il foco, che m'accese
      Dolce e amaro fulgor, che vivo uscia
Dal sguardo micidial, che speme porse
Alla dolce ed amara impresa mia.
      Dolce amaro sperar, che mi soccorse
Nei dolci amari guai; tal che già morto
Del dolce amaro mio mai non m'accorse.
      Dolci e amare parole, che conforto
Diedero alle mie dolci e amare pene,
Che scritte nella fronte e nel cor porto.
      Dolce amaro sembiante, che mantiene
Onde la dolce amara piaga antica,
Ch'ad or ad or via più crescendo viene.
      Dolce amaro pensier, che mi nodrica
Sol di dolce memoria d'un bel viso,
Ma d'una dolce amara mia nemica.
      Dolci amari contenti in breve riso,
Dolci occchi amari pien di fidi inganni,
Che lusingando m'han da me diviso
      Dolce e amaro timor d'uscir d'affanni,
Dolce amaro sperar, non trovar pace,
Dolce e amaro bramar tutti i miei danni.
      Dolce e amaro fuggir quel, che sol piace,
Dolce e amaro chiedendo altrui mercede
Con gli occhi dir quel, che la lingua tace.
      Dolce e amaro ad altrui troppo gran fede
Aver, e agli occhi suoi negar il vero,
E a se stesso giurar quel, che non crede.
      Dolce e amaro voler, che 'l suo pensiero
In libertà d'altrui servo sia messo,
Nè al sue spoglie aver alcun impero.
      Dolce e amaro d'altrui, dolersi spesso,
E veggendosi a torto esser offeso,
Per non odiar chi offende odiar se stesso.
      Dolce e amaro tacendo esser inteso,
E dopo lungo affanno aspro dolore
A conseguir pietà vedersi acceso.
      Dolce e amaro timor d'un predatore,
E avaro del suo ben tener silenzio;
Onde si vede, che 'l stato d'amore
      È qual il mel temprato coll'assenzio.

         CANZONE XV.   (XXIV.)

      Se come qui, la fronte onesta e grave
Del sacro almo Poeta,
Che d'un bel lauro colse eterna palma,
Così vedessi ancor lo spirto e l'alma;
Stella sì chiara e lieta,
Diresti, certo il ciel, certo non ave.
      Tu che vieni a mirar l'onesta e grave
Sembianza del divin nostro Poeta,
Pensa, s'in questa il tuo desir s'acqueta,
Quanto fu il veder lui dolce e soave.

      Da quella, che nel cor scolpita porto,
Vi ritrasse il Pittore ,
Mentre per gli occhi fuore ,
Qual siete dentro, agevolmente ha scorto.

             SONETTO VI.   (XXV.)

      Poich'Amore, Madonna, e la mia sorte
ognor più grave contra a me la fanno,
Ed or con chiuso, or con aperto inganno,
A mal cammino han le mie voglie scorte;

      Svegliati in tua balìa possente e forte ,
Mi dice l'alma, e pon mente al tuo danno;
Di tanto strazio, e di sì lungo affanno
Che t'avanz'altro, che vergogna e morte?

      Io come uom, ch'erra, e dell'error si accorge,
Vorrei tornar alla smarrita strada,
Ma l'uso antico pur oltra mi scorge.

      Allor una pietade assale il core,
Che mentre i vo, nè so, dove mi vada,
Passano gli anni, e non passa il dolore.

       SONETTO VII.   (XXVI.)

      Ne' bei vostr'occhi mai non drizzo 'l guardo,
Che 'l mio corso fatal tutto non miri:
Veggio allor, come attenda i miei desiri
Un fallace sperar, per cui sempr'ardo.

      E per sprezzar un ghiaccio aspro e gagliardo
Indarno infiammi i miei caldi sospiri,
Come a troppa mercede indegno aspiri,
E qual pigro animal segua il fier pardo.

      Ma 'l vostro lume abbaglia indi sì forte,
Che mi fa non veder quel, che m'è aperto,
E cercar vita in una espressa morte.

      E più per scusar me (se scusa merto)
Vostra bellezza incolpo, e la mia sorte,
Che creder non mi fa quel, che m'è certo.

         SONETTO VIII.   (XXVII.)

      Vivo in un dolce, e sì cocente foco,
Ch'Amor m'ha fatto Salamandra ed esca;
Ed un vital venen tanto m'adesca,
Ch'io moro, e morte in me non ave loco.

      Seguo sì crudo e dilettoso gioco,
Che nel proprio martir sempre m'invesca:
il colpo è antico, e la ferita è fresca,
E chi m'uccide, a mio soccorso invoco.

      Voglio quel, che voler non mi è concesso,
E i miei pensier sì spesso inganna Amore,
Che incredulo omai son fatto a me stesso.

      O quante volte m'ha pregato il core,
Che il sleghi, e quando a farlo mi son messo
Se stesso involve, e corre al primo errore.

        CANZONE XVI.   (XXVIII.)

      Luce in amor tant'alto il vostro volto,
Donna sola d'amor fidato nido
Che segno e porto fido
Sol siete alle fortune degli amanti:
E qual s'attrova in mar d'acerbi pianti,
O cinto di martiri,
Purchè gli occhi a voi giri,
Ristorar sente ogni passato danno,
O pace eterna impetra al grave affanno.

      Quanto il mar cinge, o quanto gira il Sole,
Pare a vostre bellezze non si vede,
Che fan tra noi qui fede,
Quant'eccellenza sia nel paradiso,
poich'un sol vostro sguardo, e un vostro riso
Acqueta ogni tempesta;
Ed a virtù si desta,
Chi fiso in voi luce benigna mira:
Beato dunque chi per voi sospira.

           STANZA I.   (XXIX.)

      Donna, se vi diletta ogni mia gioia,
Son più, ch'ogn'altro amante, ora felice;
Signor, se non vi aggrava ogni mia noia,
Son più, ch'ogn'altra, misera e infelice;
Debb'io dunque sperar, anzi ch'io rnoia,
Quello di voi, che delle più si dice?
State pur Signor mio costante e forte,
Che me non cangerà tempo, nè morte.

      CANZONE XVII.   (XXX.)

      Se in pegno del mio amor vi diedi il core,
Madonna, il dì, che a voi prima mi volsi;
Se 'n lui mia fe scorgete a tutte l'ore,
E 'l duol, ond'io mi struggo i nervi e i polsi;
Se la vostra beltà, vostro valore
Son li saldi lacciuoi, che all'alma avvolsi,
E 'l fin de' miei pensieri altieri e casti;
Di poca fede perchè dubitasti.

      Sì leggiadre cagioni al mio languire
Scorgo, s'oso mirar ne' bei vostri occhi,
Che soave mi fanno ogni martire,
Per cui tanto piacer nel petto fiocchi:
Dolci mi son di voi gli sdegni e l'ire:
Dolce, che 'n me le sue quadrella scocchi
Amor, sì dolci fiamme al cor mandasti:
Di poca fede perchè dubitasti?

      Fermo son di soffrir ogni aspra doglia,
Ch'Amor m'affida all'amorosa impresa.

[Manca il resto del M.S.]

          SONETTO IX.   (XXXI.)

      Paolo v'invita qui, Signor mio caro,
A goder seco un bello e dolce loco,
E poi con lui vi prego anch'io non poco,
Non ci siate di voi stesso avaro.

      Il sito sopra ogni altro ameno e raro,
E la dimora d'infinito gioco
N'accendon di vedervi un dolce foco,
Per far con voi questo giorno più chiaro.

      Logge alte adombran peregrini chiostri,
Per cui passando l'aura dolce estiva
Porge diletto a' spirti afflitti nostri.

      Dolce mormorio di fontana viva
Par dir: chiamate qui gli amici vostri
Però conven, Signor, ch'io ve ne scriva.

      CAPITOLO V.    (XXXI.)

      Tornava la stagion, che discolora
Per l'Oriente le più basse stelle
Destando Febo al mover dell'Aurora?
      Allor che scosso fuor delle gonnelle
Buon antico nocchier si leva e mira,
Se vede nube in cielo, o in mar procelle;
      E se vento fecondo non gli aspira,
Dolente e sonnacchioso all'agio riede
E con Nettuno e con Eolo s'adira.
      Quando 'l pensier, ch'allor dee trovar fede,
Perchè 'l corpo, che 'l turba, gli è men grave,
Se dormendo giammai vero si vede
      M'aperse il cor con dilettosa chiave,
E trassel fuor del suo carcer terreno,
Che tenea chiuso un sonno alto e soave.
      E per far ben quel dì lieto e sereno,
Come fusse, nol so, ma giunse teco
O petto di valor e grazia pieno.
      Parta la stanza nostra un largo speco
Rinchiuso, e freddo assai, ma pien di fiori,
Che quando il dì tramonta, caggion seco.
      Dentro per un usciuol, che all'uscir fuori
Mostrava faticoso giù nel basso,
Scorgeva 'l Sol i suoi raggi minori.
      Quivi nel mezzo ignudi, ad un gran sasso
M'appoggiav'io; e tu sedevi in erba,
I pien di noia, e tu pensoso e lasso.
      Ma ria fortuna ogni dolcezza acerba ,
Che così ragionammo varie cose,
E la memoria or lasso non le serba.
      Pur dirò quel, ch'a me non si nascose,
Dopo che 'l vidi, e qui Talia m'aiuti,
Se d'aiutarmi unquanco mai dispose.
      Qual uom, che parli, ed in un punto ammuti
Per poca novità, che poi si cuoce
D'aver sì presto i suoi sensi perduti;
      Tal mi fec'io, allor che dalla foce
Fu giù nel dirimpetto un'ombra scorta,
Che col pensier m'interruppe la voce.
      Ma poichè volsi gli occhi in ver la porta,
Ecco una donna a noi queta venire
Con lento passo, e con maniera accorta.
      I volea per vergogna indi fuggire,
Sentendomi così scoperto e nudo,
E con un cenno tu mi desti ardire.
      Pur feci a me ver lei del sasso scudo,
Gridando: non venir, se sei amica,
Con parole e con viso altero e crudo.
      Fermossi ella sull'uscio, e molto antica
Mi parve in vista, e di pensieri onesti,
Ma vile a' panni, ed all'andar mendica.
      Chinò giù gli occhi rugiadosi e mesti
Soavemente, e seco stette alquanto,
Dicendo, omai convien, che tu ti desti.
      Poi cominciò: s'io non tenessi il pianto,
Farei per la pietà degli occhi un fiume,
Così m'addoglia il vostro inganno tanto.
      Qual forza, qual vaghezza, o qual costume
V'ha di voi stessi sì posti in obblio,
Che non vogliate un tratto veder lume?
      Che si fa quì tra così van desio,
O Figli ciechi? a che tanta tristizia?
Che giova al proprio ben farsi restio?
      Ad ozio vano darsi, ed a pigrizia,
Che altro è se non odiar fe stesso,
Quando da lor ogni danno s'inizia?
      Mirate gli anni vostri, che sì spesso
Cangian stato dal ghiaccio alle viole,
U' foste sempre, e sete pur quel stesso.
      Tra quanto bagna 'l mar, e scalda il Sole,
Eccede l'uom ogni cosa creata,
Se sottopor a se se stesso vuole.
      L'aer sospeso, e la terra fermata,
E sparse furon l'acque sol per lui,
Ciò che si vola, si calca, e si nata.
      Ben è del tutto misero colui,
Che non cura di se, nè del suo stato,
Nè pensa, che farò, che son, che fui.
      E l'intelletto, che dal ciel gli è dato,
Lasci, che caschi pur senza far frutto,
Come vi foglia in selva, o fiore in prato.
      Or voi del viver vostro che costrutto
Trovate, e di voi stessi in questo fondo,
Dove ogni riso si converte in lutto?
      Il gran pianeta, e 'l bel lume fecondo
Della sorella, e l'altre luci erranti,
Che san parer sì vago il vostro mondo;
      E gli animali sì diversi e tanti,
Le contrade vicine e le lontane,
E 'l variar di lingue e di sembianti.
      Sassi, selve, erbe, mar, fiumi, e fontane,
E ciò che nasce, e muore insieme, è nulla
A chi spende il suo tempo in cose vane,
      Colui muor nelle fasce e nella culla,
Che vive vaneggiando ogni sua etate
E pur di vento sempre si trastulla.
      Vengavi di voi stessi al cor pietate,
Innanzi che sen vadi Primavera;
Che così ne può andar anche la State.
      Non fate, come suol la maggior schiera,
Che senza saper, come già son vecchi,
Menano 'l dì pur da mattina a sera:
      Aprite a' buon consigli ambo gli orecchi,
Come si deve, anzi spronate il core,
Pria che ragion sotto al senso s'invecchi.
      Che penitenza tardi e van dolore
Vi torneranno un dolce in mille amari,
Se indurerete in così falso errore.
      Uscite fuor del fango de' Volgari,
Ove ogni netto e candido Armellino
Convien per forza ch'a giugner impari.
      Venite meco, che assai bel destino
Par che vi chiami, e guiderovvi in parte,
Ove un altro è, che ha già fatto il cammino.
      Quei, ch'ebber fama delle antiche carte,
Mi seguir tutti, onde poi le lor lode
Fur colle mie per ogni loco sparte.
      Or dorme in mezzo 'l vizio, e così gode
L'umana industria, ed ha sì grave il sonno,
Che per gridar che facci ella non ode.
      Quando primieramente si fondonno
Nel mondo ancor non suo le belle mura,
Che poi crescendo fin al ciel s'alzonno,
      Non di marcir in ozio ogni lor cura
Poser gli antichi buon primi Romani,
Ch'oggi tanto si cerca e si procura;
      Ma di tener tra studi onesti e sani
Un viver queto, e senza magistero,
Utili e parchi, non fastosi e vani.
      Non ardiva sperar sì largo impero
Il Tevre ancor, e fuor delle sue rive
Nol vedea Roma andar superbo e fiero.
      Nè si faceano ancor le genti schive
Di seder sopra un cespo, e ragionarsi.
Lungo un bel mormorar dell'acque vive.
      Dalle foglie e dal fien solea levarsi
I Senator, e gir dietro all'aratro,
Poi di corna e d'ulive contentarsi.
      Era il lor operoso e bel teatro
L'erbetta verde, e le fere i lor greggi:
Loggie alte un querco, un pin frondoso ed atro,
      Che sciolti da' giudizi e dalle leggi,
Ch'a poco a poco hann'or tanti argomenti,
E par che'1 mondo ancor non fi correggi,
      Viveano insieme al ben cornune intenti,
Non meno che al privato oggi si soglia,
E potean di suo stato andar contenti.
      Or non sa che si facci, o che si voglia
La gente sciocca e cieca, e vive in fallo;
Nè di sì grave danno è chi si doglia.
      Che contra al buon costume han fatto callo
Gli uomini infermi, e del suo ben nemichi
Fattisi servi di Sardanapallo.
      Non badate voi dunque, o cari amichi,
Movete, andate, e camminate drieto
Per l'orme impresse da' buon Padri antichi.
      Che 'l tempo se ne va veloce e queto
Co' vostri giorni, anzi corre, anzi vola ,
Degl'inganni del mondo altero e lieto.
      O felice quell'alma, che s'invola
Pria che la sera, o la notte l'aggiungi,
Fuor di questa volgar misera scuola.
      Dove s'impara, come l'uom s'allungi
Dal pregio vero, e non chini la testa,
Per cercar strada, che a buon porto aggiungi.
      Qui tacque, e come suol, se in gran tempesta
Dorme nocchier, che dormendo non sente
Dolor della ruina manifesta:
      Ma poichè nelle angoscie si risente,
E vede il gran periglio, e trema e duolsi;
E questo è men ficuro e più dolente;
      Così mi fè tremar le vene e i polsi
Vera paura delle cose conte,
Poichè 'n me stesso alquanto mi raccolsi.
      Ella mirommi,e scorse per la fronte
Il mio pensier, siccome gemma cara,
Che splendi sotto un vetro, o fuor d'un fonte.
      Poi disse sorridendo: assai m'è cara
La coscienza, che così ti punge,
Onde 'l tuo buon voler mi si dichiara.
      E se 'n cor giovanil valor s'aggiunge,
Non ti smarrir, figliuol mio, che ancor forse
Le vostre voci s'udiran da lunge;
      Questi, che con un cenno ti soccorse
Nel mio venir, quando la mente offesa
Trista vergogna di se stesso morse,
      Fia il tuo fido Piritoo: all'alta impresa
Movi pur tu; che a lui, s'io non m'inganno,
Più di te già, che di se stesso pesa.
      Sicuri seco i tuoi giorni faranno,
Felici i suoi con quella Ippodamia,
Che Minerva e Diana cessa gli hanno.
      Così detto, ella, e 'l sonno fuggir via.

         SONETTO X.   (XXXII.)

      Dunque son pur que' duo begli occhi spenti,
Laddove pose ogni sua face Amore,
Onde mosse lo strale, onde l'ardore,
Ch'arse e piagò tante anime dolenti.

      Dunque a' più chiari e preziosi accenti,
Che mai s'udiro, alla beltà, al valore,
Posto è silenzio, e fine in sì brev'ore
Alle grazie, al costumi, agli ornamenti.

      Le Ninfe d'Adria, in cui più non si mostra
Leggiadro effetto senza la lor Dea,
Son quasi prato senza fiori ed erba;

      E dicon: ben puoi gir morte superba,
Che in un sol punto hai spento quanto avea
Di bello e di gentil la patria nostra .

         SONETTO XI.   (XXXIII.)

      Per tor in tutto agl'immortali il vanto
D'ogni beltà, d'ogni real costume,
E far la terra omai senza il gran lume,
Cieca, piena d'orror, colma di pianto;

      Con quel fuo negro e spaventoso manto,
Ch'ogni cosa mortal copre e rassume,
Velò a Madonna l'uno e l'altro lume
Quella crudel, che 'l mondo teme tanto.

      Così è mancato ogni tuo ricco fregio,
Patria gentil, e del tuo grave danno
Fatta è compagna ogni lontana parte.

      E quando fia, che scarca dall'affanno
Ti veggia mai? che sì felice pregio
E' don, che raro il ciel quaggiù comparte.

        SONETTO XII.   (XXXIV.)  

      Se le sorelle, che ne vider prima
Nascendo liete, vi dan fama e onore,
Non vi avesser disdetto quel liquore,
Di che 'l mondo oggi fa sì poca stima;

      Dato v'arei con qualche ornata rima
Più spesso pegno del mio caldo Amore;
Ma se io taccio, è suo, non mio l'errore,
Ch'elle del mio poter son poste in cima.

      Però fe pur talor avvien, ch'io scriva,
Fallo Amor, non Apollo, che m'insegna,
Com'anco nel suo foco e lauro viva.

      Qui i vedrete voi ben, che fera insegna,
Segue chi ama, e già fu ch'io sentiva:
Ora al suo proprio mal l'alma s'ingegna.

       CANZONE XVIII.   (XXXV.)

      Una leggiadra e candida Angioletta
Cantar a par delle Sirene antiche;
Altre poi d'onestate e pregio amiche
Seder all'ombra in grembo dell'erbetta
Vid'io pien di spavento,
Perch'esser mi parea pur su nel Cielo,
Tal di dolcezza velo
Avvolse il bel piacer agli occhi miei:
E già voleva dir: sentite o Dei
Sempre quel, ch'ora i sento,
Quando m'accorsi, ch'elle eran donzelle;
Taccio l'oneste parolette schive
Da far innamorar un uom selvaggio;
Taccio quel presto e saggio
Sfavillar di due vaghe e chiare stelle,
E l'accorte novelle,
E 'l ballar pronto, leggiadretto e nuovo,
Del cui pensier pur sol lieto mi truovo.
Ma l'atto dolce e strano
D'una pietosa mano
In altri fogli ancor convien ch'i scrive.
Amor, così si vive;
Così aggrada il ferir di tua faetta;
Ma troppo è breve ohimè quel, che diletta.

       CANZONE XIX.   (XXXVI.)

      Come poss'io celato
Tener, Madonna, il foco, se l'umore
Ch'uscia per gli occhi fore, è già mancato,
E non è chi difesa faccia al core?
Che s'egli avvien, ch'Amore
Rinforzi in me l'ardore,
Morrò vivendo, e eterno fia 'l dolore.

      Io non so già, che forte
Mi desse il cielo allor, quand'a soffrire
Per voi venni in quest'aspra ed empia morte,
Che 'n vita provo, e raddoppia il martire:
Almen potessi io dire,
Senza perder l'ardire,
S'a voi dispiace, o piace il mio morire .

      Che se, Donna, e' vi spiace
Veder del proprio albergo l'alma fora,
Dal cor levate il foco aspro e tenace:
E se vi piace, che mia vita ancora
Finisca innanzi l'ora,
fate, ch'io tosto mora:
Che 'in doglia star non lice un, che v'adora.

     SONETTO XIII.    (XXXVII.)

      Quel dolce avventuroso e chiaro giorno,
Che 'l mio lungo desio condusse a riva,
Di riveder la mia terrestre diva,
Che fa di se il ciel lieto, e 'l mondo adorno:

      Amorose faville all'alma intorno
Accende sì, che 'n dubbio è, s'ella viva,
Mentre ch'Amor di se vuol pur, ch' io scriva,
Ora ch'a lui così col pensier torno.

      Però s'alcuna volta innanzi a lei
M'abbaglian quelle doi sue luci sante,
Nè mi lascian ben dir quel, ch' i' vorrei;

      Non maraviglia: che pur troppo avante
Ardisce allor; ma ella i pensier miei
Da se fa tutti, e le mie ragion tante.

   SONETTO XIV.    (XXXVIII.)

      Guidommi Amor in parte, ond'io vedea
Quella, che sol veder sempre vorrei,
Specchiarsi lieta, che dagli occhi miei,
E fuor d'ogn'altra vista esser credea.

      I' son pur bella, a se stessa parea
Sovente dir, per quel ch'io scorsi in lei:
Poi que' suoi crini a me sì dolci e rei,
Che 'l vento sparse, in bei modi accogliea.

      Io che son troppo di tal vista ingordo,
Lasso, come non so, pur mi scopersi,
Ond'ella si ritrasse vergognando.

      Così in un punto ogni mio ben dispersi,
Nè 'l trovai, per andarlo ricercando:
E tremo ancor, qualor me ne ricordo.

        CANZONE XX.   XXXIX.)

      Quel dì, che gli occhi apersi
Per mia fera ventura,
Donne, a mirar vostre bellezze in prima
E l'ora ch'io soffersi -
Nè cofa era più dura
D'ogni mia libertate porvi in cima;
Potea ben morte con l'acuta lima
Romper degli anni miei
Il fil, che gli attorcea,
Nè pur torcer dovea,
Per non lasciarmi a dì sì oscuri e rei,
Nè a sì penosa vita,
Ch'io ardo sempre, e indarno chieggio aita.

      Lasso, ben sapevo io,
Che perigliosa usanza
Era ad uom porre in donna ogni sua fede;
Ma al cor già pien d'obblio
Porse tanta speranza
Il vostro sguardo, ove mia mente siede,
Che ratto, come quel, che troppo crede,
Incontro al mio mal corsi;
E fu tanto l'inganno,
Che per maggior mio danno
Poco di quel pensier vostro m'accorsi;
Nè posso ormai dar volta,
Ch'ogni arbitrio e ragion m'avete tolta

      Son al fin dei mio giorno ,
Ch'Amor vi fece accorta
Del stato mio, che da voi sola pende
Festi al cor vostro intorno
Di pietà fredda e morta
Un ghiaccio, che a' miei prieghi non si rende,
Perchè al desio, ch'assai per se s'accende
Con sì pietosi guardi,
Giugnesti aperto foco;
O arti! o fero gioco!
L'accorgermi or del vostro inganno è tardi,
Ch' Amor gli usati schermi
Tolto m' ha tutti, e lasciato il dolermi.

      Nè però ch'io mi dogli,
Queta quel fero ardore,
Ch'è in me, quanto in orgoglio e scema e cresce;
Anzi par che raccogli
Nel cor per nuovo errore
Più fiamma allor, che più lamento n'esce;
E perchè del mio mal nulla gl'incresce,
Del vostro duro affetto
Convien ch'io mi lamenti,
Onde perciò che i venti
Non portan, lasso, sempre ogni mio detto;
Tanta pena ne sento,
Che per dolermi doppia il mio lamento:

      Nè perch'io non m'avveggia
Or or del mio fallire,
Volgo la lingua a ragionar di voi;
Ma l'alma, che vaneggia,
Col possente desire
Mi spinge a quel, ch'è tutto suo mal poi;
Qual'erbe, o arti maghe han forza in noi,
Taccin l'antiche carte,
Ch'io son pur quale io soglio;
E contro a quel, ch'io voglio,
Con qua' voci non so, nè con qual arte,
A se mi tira e mena
Questa del lito mio nuova Sirena.

      E pur che 'n lei talora
De' miei lunghi martiri
Pietà scaldasse il fuo freddo pensiero,
Non torrei d'esser fuora
Degli usati sospiri,
Per trovar al mio corso altro sentiero;
Ma sdegno sotto suo concetto altiero
M'affligge in modo sempre,
Ch'or bestemmio mia sorte,
Or vo chiedendo morte,
Che le mie acerbe voglie omai distempre;
Ella par, che non m'oda,
Ma con Madonna del mal nostro goda.

      Canzon, se fie persona,
Che per pietà t'ascolte,
Dirai, ben quante volte
I piango quel, che per te si ragiona.

       CANZONE XXI.   (XL.)

      Debb'io mai sempre Amore,
Viver lontan da quella,
Ne' cui begli occhi impenni e spieghi l'ali?
Devrà mai sempre il core
Lontan dalla sua stella
Esser albergo d'infiniti mali?
So pur, che molto vali,
Quando il fier arco tendi;
Però se mai ti cale
Di me, nè prego valse,
Rendi alla vista il vago obbietto, rendi,
Acciocch'io poffa 'l viso
Mirar, cui senza, son da me diviso.

      Che senza l'alma vista
Io son come terreno,
Ove non scaldi il Sol, negletto e incolto;
E la mia vita trista
Sento venirsi meno,
Tanta è la doglia, ov'io mi trovo involto;
Nè a me lo mondo tolto
Sì mi dorrei, com'io
Viver lontan mi doglio
Da quella, per cui soglio
D'ogn'altra vista aver eterno obblio:
Ch'un suo bel sguardo solo
Di terra può levarmi in cielo a volo.

      Deh dimmi Amor, che fora
Senza lei la tua forza,
L'arco, gli srali, e le facelle ardenti?
Le. tue quadrelle indora
Il suo chiar raggio, e sforza
Seguirti le più sagge e salde menti:
Gli sguardi suoi cocenti
Ti danno eterno impero
Sovra' mortali, e puoi
Oprar ciò, che tu vuoi;
Tal è virtù fra 'l vivo bianco e nero.
Fammi dunque sentire,
Come dinanzi a lei si suol gioire.

      Fin qui son stato in vita,
Sperando pur un giorno
Sul Mincio ritrovarmi alle grat'onde.
Or la mia speme è gita?
Che troppo ahimè soggiorno,
E par, ch'eterna notte omai m'adombre;
Poi temo non si sgombre
Dal bianco e casto petto
Quella memoria, ch'ivi
Talor tu mi scolpivi,
Quand'era appresso al sommo mio diletto;
Che pria morir vorrei,
Che di me fusse obblio, Amor, in lei.

      Però, Signor, se brami,
Ch'io segua il tuo vessillo,
Cui da culla seguir fui destinato;
Fa che quest'occhi grami
Il limpido e tranquillo
Lume conforti, che mi fa beato.
Che dico (ahi sfortunato)
Tanto sperar non oso.
Ma prego sol, che sia
Dinanzi a lei la mia
Fede scolpita, e 'l stato mio penoso;
Se questo amor mi dai,
Qual dolcezza pareggia li miei guai?

      Questo bastar mi de' Canzon mia rozza,
Se del fervir mi fido,
Nanzi a begli occhi Amor compone un nido.

          CANZONE XXII.   (XLI.)

      Or che solingo sono
Fra querce, olmi, ed abeti,
Ove d'Insubria il piano il Lambro inonda;
Ben potrò il roco suono
De' miei martir segreti
Scoprir col pianto, che negli occhi abbonda;
Sol Echo mi risponda,
E 'l fin de' mesti accenti
Sotto, quest'ombre chiuda,
Che 'l cor mi trema e suda,
Ch'altri non oda i duri miei lamenti,
E sia scoperto al mondo
L'altro mio duol profondo.

      Fuggite dunque augelli,
Che per le fronde andate,
I vostri dolci amor cantando ogn' ora.
Fuggite pesci snelli,
Che 'n questo gorgo state,
E belle schiere di periglio fora,
Che 'l mio tormento fora
Forse cagion di darvi
Fra le chiare acque pena,
E la vostra serena
Pace potrei col mio gridar turbarvi;
Che l'aspro mio martire,
Chi l'ode, fa languire.

      Dico, che poichè quella
Lasciai, di cui la vista,
Quando s'innalza, al Sol i raggi adombra,
Parmi, che mi si svella
Del petto il cor, e trista
Sia la mia vita, tanto duol l'ingombra.
Nè mai da me si sgombra
L'alto martir, che 'l giorno
Ebbi al partir, ch'io fei,
Quando salir vedei
Negli occhi il pianto, e mesto il viso adorno
Farsi, e così pietoso,
Che ripensar non l'oso.

      Che 'n mezzo a que' begli occhi,
Che son del mondo il Sole,
Restai partendo eternamente preso.
Che dove avvien, che tocchi
Il vago lume, suole
Legar ogn'alma in vivo foco acceso;
Ma poi che m'è conteso
Quel dolce fguardo umile,
Nè vivo son, nè morto,
Privo d'ogni conforto,
E l'alma ha tolto di lagnarsi un stile,
Che per l'acerbe pene
Vie più crudel diviene.

      Di lagrimar mai sempre
Dunque cagion avemo,
Alma, più non veggendo il nostro obbietto.
Però fin che mi stempre
Morte nel giorno estremo,
Umidi gli occhi sian, e molle il petto:
Che 'l sommo mio diletto
È star in pianto e doglia,
Tal che 'l giorno e la notte
Le lagrime interrotte
Mai non mi dian, ma sempre il cor si doglia,
E la penosa vita
Più non ritrovi aita.

      Ahi lasso, s'io sapea,
Senza i begli occhi suoi
Morir il dì, che 'l Mincio abbandonai,
Il dì, che mi tenea
Gli occhi negli occhi, e poi
Sospirandio asciugava i dolci rai;
Io non moria giammai
O tal fentiva gioia
Quivi morendo il core,
Che l'alma a uscir di fore
Sentir non mi lasciava alcuna noia;
Ch'innanzi al suo bel viso
Non mor chi 'l mira fiso.
Ma perchè sempre stanzi
Novo duol meco, ond'io
Non fperi aver mai più tranquillo stato,
Non pote a lei dinanzi
Partir il spirto mio,
Ch'allor partendo si partia beato;
Or lasso travagliato
Sono dal Mincio lunge,
Nè di vederla spero:
Così mi molce Amor, così mi punge;
E stommi travagliando,
Temendo, ardendo, amando.

      Mesta Canzon, ch'in ripa al Lambro fosti
Tra lagrime raccolta
Qui resterai sepolta.

FINE  DELL'EDIZIONE  1753

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Per concludere riportiamo l'ultima Canzone presente fra le Rime rifiutate dell'edizione U.T.E.T. curata dal Dionisotti con questa annotazione: « Per la composizione e il testo di questa canzone cfr. Rime, XLVIII, LVI. Essa è fuori luogo anche in un'appendice di Rime rifiutate, ma qui si ristampa per mettere sott'occhio almeno in un caso tutti i documenti del travaglio compositivo del Bembo. L'ordine è il seguente: partendo da XLVIII si arriva a questa nell'edizione 1505 degli Asolani, indi a LVI nell'edizione 1530 delle Rime, dove anche XLVIII è recuperato. Negli Asolani del 1505 la canzone era recitata nel primo libro da Perottino con la seguente premessa: " Errando ieri in quest'ora del giorno, involatomi da costoro, solo, per queste vicine piagge fuor di strada, e venendomi un soletario tortorin veduto, che a me, quasi pieno di doglia, sì come a doloroso, parea venire, in cotal guisa lacrimando gli parlai ".»

                           XIV.

      Solingo augello, se piangendo vai
La tua perduta dolce compagnia,
Meco ne ven, che piango anco la mia:
Insieme potrem far i nostri lai.
Ma tu la tua forse oggi troverai;
Io la mia quando? e tu pur tuttavia
Ti stai nel verde; i' fuggo ove che sia
Chi mi conforte ad altro ch'a trar guai,
Nè sentir posso chi non piagne o geme.
E te s'un dolor preme,
Può ristorar un altro piacer vivo,
Ma io d'ogni mio ben son casso e privo.

      Casso e privo soli io d'ogni mio bene,
Che men' spogliò lo mio avaro destino,
E come or vedi nudo e peregrino
Vo misurando i campi e le mie pene.
Ben poss'io dir che poche ore serene
E breve è stato il mio dolce camino:
Così foss'io d'ogni altro al fin vicino,
Ma quel dì per mio danno unqua non vene,
E mi riserba a tenebre più nove.
Ma se pietà ti move
Vola tu là, dove questo si vôle
E sciogli la tua lingua in tai parole:

      A pie de l'alpi, che parton Lamagna
Dal bel paese ove 'l suo padre nacque,
Con le fere, con gli arbori e con l'acque
Ad alta voce un uom d'Amor si lagna.
Dolor lo ciba, e del suo pianto bagna
L'erba e le piaggie, e da che pria li piacque
Penser di voi, quanto mai disse o tacque
Va rimembrando, e 'n tanto ogni campagna
Empie di gridi, u' pur che 'l pie lo porte,
E sol desio di morte
Mostra negli occhi, e 'n bocca ha 'l vostro nome,
Giovene ancor al volto ed a le chiome.

      Che parli, o sventurato?
A cui ragioni? a che cosi ti sfaci?
E perché non più tosto piagni e taci?


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Edizione telematica  a cura di: Giuseppe Bonghi, 1999
Revisione, Edizione HTML e impaginazione a cura di: Giuseppe Bonghi, Aprile 1999
Tratto da: Rime di Pietro Bembo, corrette, illustrate ed accresciute con le annotazioni di Anton-Federico Seghezzi, e la vita dell'autore novellamente rifatta sopra quella di Monsig. Lodovico Beccatelli. Edizione seconda - In Bergamo )(  MDCCLIII appresso Pietro Lancellotti Con Licenza de' Superiori

© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe Bonghi - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 maggio, 1999