Pietro  Bembo

Rime

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SONETTI
D I
DI VARJ SOGGETTI
A M. PIETRO BEMBO
O IN SUA LODE E MORTE

*      *       *      *       *      *       *

Di BENEDETTO MORESINI.

      Quando mia sorte il vederti m'impetra
Come suol spesso, convien ch'io sospiri
E che pietate a maledir mi tiri
Amori, gli strali, l'arco, e la faretra

      E tanta crudeltà, che non si spetra
In far, che verso te gli occhi suoi giri,
E mite in vista una volta ti miri
Questa tua dura Donna, anzi tua petra.

      Poi veggio sì mutata tua figura,
Ch'io dico fra me stesso, forse Amore
Non è quel, che li preme così 'l fianco:

      Chi fa, fe n'è cagion altra paura?
Però di questo dubbio trammi fore,
E dimmi, perchè fe' si smorto e bianco.

Di VERONICA GAMBARA

      A l'ardente desio, ch'ognor m'accende
Di seguir nel cammin, ch'al ciel condace,
Sol voi mancava, o mia ferena luce,
Per discacciar la nebbia, che m'offende.

      Or poi che 'l vostro raggio in me risplende;
Per quella strada, ch'a ben far n'induce,
Vengo dietro di voi fidato duce:
Che 'l mio voler più oltra non si stende.

      Bassi pensieri in me non han più loco:
Ogni vil voglia è spenta, e sol d'onore,
E di rara virtù l'alma si pasce,

      Dolce mio caro ed onorato foco:
Poscia che dal gentil vostro calore
Eterna fama e vera gloria nasce.

Di VITTORIA COLONNA.

      Ahi quanto fu al mio Sol contrario il fato,
Che con l'alta virtù dei raggi suoi
Pria non v'accese: che mill'anni e poi
Voi sareste più chiaro, ei più lodato.

      Il nome suo col vostro stile ornato,
Che dà scorno agli antichi, invidia a noi;
A mal grado del tempo avreste voi
Dal secondo morir sempre guardato.

      Potess'io almen mandar nel vostro petto
L'ardor, ch'io sento; o voi nel mio l'ingegno,
Per far la rima a quel gran merto eguale.

      Che così terno, il ciel ne prenda a sdegno;
Voi, perchè avete preso altro suggetto;
Me, che ardisco parlar d'un lume tale.

Di GIO: GIORGIO TRISSINO

      BEMBO, voi sete a quei bei studi intento,
Ch'acquistan vita all'uom, quand'egli è morto;
E come buon nocchier, ch'è giunto in porto,
Più noiar non vi può contrario vento.

      Io pur mi trovo in mar pien di spavento;
Che 'l lito è lunge, ed il viaggio è torto:
Però mi volgo al ciel, avendo scorto
Ogni soccorso uman fallace e lento.

      O fortunato, che sì cari frutti
Cogliete omai delle fatiche vostre,
Che. le faran gradir mill'anni, e mille:

      Quando fia mai, ch'un bel seren si mostre
Agli occhi miei? quando saranno asciutti?
O quando notti avran dolci e tranquille?

DEL MEDESIMO.

      Mai non poteo l'acerbo mio tormento,
Che nacque in me dall'incredibil torto
Di quella Donna, ond'io mi disconforto,
Quetarsi un'ora, o un picciol suo momento.

      Or dalle vostre rime al cuor mi sento
Giunger tanto disio, tanto diporto,
Che le mie piaghe ancor pallido e smorto,
Vo medicando, e il mio dolore allento.

      O ben creati versi, che i destrutti
Spiriti miei nell'amorose chiostre
Sanate, empiendo lor d'alte faville.

      Nullo amaro pensier fia mai, che giostre
Con tal piacer, nè crudel vista, o lutti,
Sicch'io per gli occhi miei lagrime stille.

Di FRANCESCO MARIA MOLZA.

      La bella Donna, ch'io sospiro e canto,
Di cui non diede il ciel più ricco pegno,
Piove pur, come suol, ira e disdegno
Dagli occhi vaghi, e dal bel viso santo.

      Dell'ombra sua, che di lei seguo, intanto
Queto i miei spirti, e 'n ciò paghi li tegno:
E sì forte è l'error, cui dietro vegno,
Ch' io stesso del mio mal mi glorio e vanto

      Così mentre ch'i ardo, e ciò non mostro,
Ne rende il buon vicin chiara sembianza
Di quel d'Arpino, o seco giostra spesso.

      Io tolto dentro al bel cortese vostro
Stile, Signor, omai prendo baldanza
Ancor da terra sollevar me stesso.

DEL MEDESIMO.

      BEMBO, che dietro all'onorata squilla,
Ch'uscì d'Atene, senza par movete,
E speme eguale al gran desio porgete,
Ch'ornar Vinegia vostra arde e sfavilla;

      L'altra, che già cantò Turno, e Camilla,
Se 'n tutto avverso a' prieghi miei non sete,
Dopo lungo intervallo rivolgete
Là, onde nuovo studio dipartilla.

      E poi che meco d'un medesmo scempio
Sinistro fato a pianger vi condanna;
Fate a morte in ciò voi chiaro disnore.

      Io, dietro a quel Signor crudele ed empio,
Che per lungo uso il mio veder appanna,
Spendo pur, com'io soglio, i giorni e l'ore.

Di BENEDETTO VARCHI

      BEMBO, il ciel non potea tutto, e le stelle
Più saldo nome e maggior gloria darmi,
Che far dal vostro eterno stil cantarmi;
Perchè 'l mondo di me sempre favelle.

      O dolci, inaspettate, alte novelle,
Perch'io, che 'nfino a qui solea spregiarmi
Quasi in odio a me stesso, or voglio amarmi,
Quai fian le sorti mie benigne, o felle.

      Lo studio de' duo buon vince d'assai
Se stesso, volto, ond' io via più gli onoro
Al comun ben, che langue in nuovi guai,

      Questi, e 'l caro MARTEL, ch'io saluti
A nome vostro, o mio nobil tesoro,
Fur di voi sempre, ed or son più, che mai.

DEL MEDESIMO IN LODE.

      Non hanno il BEMBO le tue rive, il BEMBO,
Che primo i vaghi tuoi negletti fiori
Tessendo, ti rendeo gli antichi onori,
Talchè sempre s'udrà risonar BEMBO.

      BEMBO udirassi, e sia ben caro al BEMBO,
Benchè 'l Greco e 'l Latin tanto l'onori,
Esser cantato ancor dai Toschi cori
Saliti in pregio sol mercè del BEMBO.

      Intaglia BEMBO entro le foglie, e BEMBO
Entro le scorze, e ne' più duri massi
BEMBO si legga, e per l'arene BEMBO.

      Perchè mai sempre al gran nome del BEMBO.
Le selve BEMBO, e BEMBO i fiumi, e i sassi
Rimbombin BEMBO in lunga voce, BEMBO.

DEL CASA.

      L'altero nido, ov'io sì lieto albergo
Fuor d'ira e di discordia acerba e ria,
Che la mia dolce terra alma natia,
E Roma, dal penser parto e dispergo;

      Mentr'io colore alle mie carte aspergo
Caduco; e temo estinto in breve sia,
E con lo stil, ch'ai buon tempi fioria,
Poco da terra mi sollevo ed ergo;

      Meco di voi si gloria, ed è ben degno;
Poichè sì chiare ed onorate palme
La voce vostra alle sue lodi accrebbe;

      Sola, per cui tanto d'Apollo calme,
Sacro Cigno sublime, che farebbe
Oggi altramente d'ogni pregio indegno.

DEL MEDESIMO IN MORTE.

      Or piangi in negra veste, orba e dolente
VENEZIA, poi che tolto ha morte avara
Dal bel tesoro, onde ricca eri e chiara,
Sì preziosa gemma e sì lucente.

      Nella tua magna, illustre, inclita gente,
Che sola Italia tutta orna e rischiara,
Era alma a Dio diletta, a Febo cara,
D'onor amica, e 'n bene oprar ardente.

      Questa Angel novo fatta, al ciel ne vola
Suo proprio albergo, e 'mpoverita e scema
Del fuo pregio sovran la terra lassa.

      Ben ha, QUIRINO, ond'ella plori e gema
La patria vostra, or tenebrosa e sola,
E del nobil fsuo BEMBO ignuda e cassa.

BERNARDO TASSO.

      BEMBO, che d'ir al ciel mostri il cammino
Per mille strade; e con spedito volo
Ricerchi or questo, ed or quell'altro polo,
Come canoro augello, e pellegrino;

      Io pur vorrei al tuo volo vicino
Venir battendo l'ali; e talor solo
Co' chiari studi a tutt'altro m'involo;
E nol consente il mio fero destino.

      Ma se mi stanco, e s'al mio.tardo ingegno
Caggion le penne; almen coll'occhio audace
Cerco l'orme seguir, ch'a dietro lassi

      E tanto il mio lavoro a me più piace,
Quanto delle tue dita è fatto degno,
Che vo cogliendo, ovunque volgi i passi.

DEL MEDESIMO.

      Poi ch'ogni lume di giudizio avete
In voi BEMBO rinchiuso; e con la mente
Di mille alte virtù chiara e lucente
Il nostro vaneggiar saggio scorgete;

      Perchè non, come un Sol chiaro, accendete
Le luci dell'ingegno nostro spente?
Ch'a voi conviensi, come all'Oriente,
Portarne il giorno, e far le genti liete?

      Fora Febo men bel, se in se raccolto
Tenesse il lume; e non rendesse mai
La luce al mondo, alle cose i colori;

      E terren molle seminato e colto
Senz'il favor degli Apollinei rai
Produrria stecchi; e non frutti, nè fiori

Di BERNARDO CAPPELLO.

      Se quella, onde sì dolce ogni tormento
Parer vi fece Amor, e crudo fato,
Tolto vi siete, e non perciò l'irato
Suo sembiante di vita anco v'ha spento;

      BEMBO, non vi distolga altro spavento
Del bel cammin, ch'avete incominciato:
Che 'n porto col favor del divin fiato
La vostra navicella entrar già sento:

      Ed ornato di Lauro e bianca Oliva
Grazie render a Dio, che la fè forte
A fuggir le tempeste, in cui periva.

      Si vedrà 'l mondo poi, ch'ancor deriva
Da nostra elezion felice forte:
E ch'amor more, u' la ragion è viva.

DEL MEDESIMO.

      Non dall'Alpe lontan siede un bel colle
Tra duo torrenti, e dal più vago piano,
Che bagni Piave alla sinistra mano,
Sovra ogn'altro superbo il capo estolle.

      Qui mi sto solo; e mentre a voi si tolle
Di voler vostro il dolce viso umano
Cotanto amato; e 'l parlar saggio e piano,
Che ben render vi denno il petto molle;

      La crudeltà della mia Donna piango,
BEMBO, che presso al quintodecim'anno
Vede pur, ch'io per lei mi spolpo e snervo;

E non s'acqueta, anzi m accresce affanno;
Ed io d'amarla ancor non mi rimango:
A tal mi adduce il mio destin protervo.

DEL MEDESIMO IN MORTE.

      Nè tanto pianse mai futura sposa
Estinto il desiato fuo consorte;
Nè di buon figlio diede acerba morte
Tal doglia a madre tenera e pietosa;

      Qual diè a Venezia e Roma il BEMBO; e cosa
Più non sia senza lui, che ne conforte:
Dell'una ci nacque; e l'altra di sue scorte
Virtuti molte fiamma arse amorosa .

      Chi più ne mostrerà con saggi inchiostri,
Come ir si possa nostra lingua armando
Sì, ch'ella a par delle più degne giostri?

      Prendi tu Febo , e tu Minerva bando
Dal mondo, in cui fur spenti gli onor vostri,
Tosto ch'ei spiegò l'ale al ciel tornando.

DEL MEDESIMO IN MORTE.

      Che più, lasso, di ben fra noi si vede,
Poi ch'è morto il gran BEMBO in cui fioria
Virtute, ond'ei segnò l'urnana via,
Per iscorgerne al ciel con saldo piede?

      Febo, ch'al Mincio, e poscia all'Arno diede
L'onor, ch'a Smirna avea donato pria,
Te fece per costui, Venezia mia,
Delle tre lingue più gradite erede

      Piangil tu dunque; e teco il pianga inseme
La Chiesa, e Roma, che tal frutto n'ebbe,
Ch'avrà mill'anni ad invidiarne il seme.

      Il mondo il pianga, ch'ei già vivo accrebbe
Tanto in gloria, quanto or manca di speme:
E goda il ciel, cui del ben nostro increbbe.

Di GIROLAMO QUIRINI.

      A che turbi la mia pace infinita
Tu, che tanto mi amasti, avendo a sdegno,
Ch'io cittadina del celeste regno,
Viva felice e gloriosa vita?

      Il pianger dunque la mia dipartita
È'per comodo tuo, cui per sostegno
Lasciai d'ambe duo noi sì caro pegno,
Ond'è nostra memoria stabilita.

      Ciò far io potei in vita, or dopo morte
Resta a te farmi col purgato stile
Chiara nel mondo, non col pianto onore

      Questo mi par udir l'alma gentile
Dirvi dal Ciel, che nel mondano errore
Fu vostra bella, e cara e fida scorta.

Di TRIFON GABRIELLO.

      Mentre che forse tu col vago piede
Cerchi ora l'una, ed ora l'altra parte
Del bel paefe, che Appennin diparte,
E Tebro, ed Arno, e Pò rigando fiede;

      Io BEMBO, ove il sepolcro posa e fiede
Del Lirico Toscan, volgendo carte,
Spendo i miei giorni, e lagrimando partc
L'angoscia delle genti, che si vede.

      Ma se tutto 'l voler mio fosse pieno,
Ch'ancora trovo in questo la mia stella
A me contraria, come in altre cose;

      Tu non faresti ad ora fuor del seno
Degli Antenorei, dove la tua bella
Villa Bozza tra fronde si nascose.

Di LATINO JUVENALE.

      Le belle carte, che sì dolcemente,
BEMBO, vergò la vostra dotta mano
Rendon tant'armonia presso e lontano,
Che n'andrà il suono alla futura gente.

      La donna, ch'è per voi chiara e lucente,
Ond'invidia non ha lei, che 'l Toscano
Poeta canta in stil alto e sovrano,
Ch'è non men vostro dir raro eccellente.

      Sappia ogn'uom, ch'io vorrei ben farvi onore
O con la voce, o con la stanca penna,
Se pur tanto potesse o l'una, o l'altra:

      Ma lasso m'ave a tal condotto Amore,
Che l'una è fioca, e l'altra appena accenna
Cosa, che 'ntenda l'anima più scaltra.

Di ANGELO COLOZIO.

      BEMBO, or ch' è giunto a più beata riva
Lo tuo d'esto empio mar felice legno,
E nel ciel tocchi il destinato segno,
Ove da pochi a gran pena s'arriva;

      Suol dolsi Etruria, che sia ignuda e priva
D'un sì nobil tesor, sì ricco pegno.
Con temer, che non mai novo altro ingegno
Dolci rime d'Amor più conti, o scriva.

      Canoro Cigno, che del Tebro all'onde
Lasci cantando le già bianche spoglie;
Ch'ancor del suon n'han gioia ambe le spondc.

      Già tua man sacra il serto, e 'l premio coglie
D'alberi eterni, e non di quelle fronde,
Che ne dà primavera, e 'l verno toglie.


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Edizione telematica  a cura di: Giuseppe Bonghi, 1999
Revisione, Edizione HTML e impaginazione a cura di: Giuseppe Bonghi, Aprile 1999
Tratto da: Rime di Pietro Bembo, corrette, illustrate ed accresciute con le annotazioni di Anton-Federico Seghezzi, e la vita dell'autore novellamente rifatta sopra quella di Monsig. Lodovico Beccatelli. Edizione seconda - In Bergamo )(  MDCCLIII appresso Pietro Lancellotti Con Licenza de' Superiori

© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe Bonghi - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 03 maggio, 1999