Pietro  Bembo

Rime

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[STANZE]

Le seguenti stanze del Bembo recitate per giuoco da lui, e dal Signor Ottavio Fregoso mascherati a guisa di due Ambasciatori della Dea Venere mandati a Madonna Elisabetta Gonzaga Duchessa d'Urbino, e Madonna Emilia Pia sedenti tra molte Nobili Donne e Signori, che nel palagio della detta Città danzando festeggiavano la sera del Carnassale 1507. Ma M. Giovanbatista Lapini Fisicoso (pignolo, ndr.) intronato compose a compiacimento di Madonna Laura Piccolomini de' Turchi le Stanze della Pudicizia a contrapposizione di quelle del Bembo. Le quali Stanze del Lapini furono prima impresse sotto il nome del Cardinal Egidio nel Tomo I. delle Rime scelte, nel Tomo I. delle Stanze di diversi, raccolte da Lodovico Dolce, e nel Tom. VI. delle Rime di molti eccellentissimi Autori. Ma Agostino Ferentilli nella sua Raccolta delle Stanze di diversi Autori Toscani le restituì al suo vero Autore, e afferma essere state composte, come s'è detto, a istanza della Piccolomini.

                            I.

      Nell'odorato e lucido Oriente,
Là sotto 'l puro e temperato cielo
De la felice Arabia, che non sente,
Sì che l'offenda mai, caldo, nè gelo,
Vive una riposata e lieta gente
Tutta di bene amar accesa in zelo,
Come vuol sua ventura, e come piacque
A la cortese Dea, che nel mar nacque.

                           II.

       A cui più ch'altri mai servi e devoti
Questi felici (e son nel ver ben tali)
Han posto più d'un tempio, e fan lor voti
Sopra l'offese de' suoi dolci strali:
E mille a prova eletti Sacerdoti
Curan le cose sante e spiritali,
Ed hanno in guardia lor tutta la legge,
Che le belle contrade amica e regge.

                           III.

      La qual in somma è questa: ch'ogni uom viva
In tutti i suoi pensier seguendo Amore.
Però quando alma se ne rende schiva,
Le mostran quanto grave è questo errore;
E che del vero ben colui si priva,
Ch'al natural diletto indura il core;
E sopra ogn'altro come gran peccato
Commette, chi non ama essendo amato.

                           IV.

      A questo confortando il popol tutto
Onoran la lor Dea con pura fede:
E quanto essa ne trae maggiore il frutto,
Ne torna lor più dolce la mercede:
Ed han già la bell'opra a tal condutto,
Che senza question farne ogniun le crede:
Ond'ella, alquanto pria che 'l dì s'aprisse,
A duo di lor nel tempio apparve, e disse:

                            V.

      Fedeli miei, che sotto l'Euro avete
La gloria mia, quanto pote ire, alzata;
Sì come non bisogna veltro o rete
A fera, che già sia presa e legata;
Così voi d'uopo qui più non mi sete:
Tanto ci son temuta e venerata.
Quel, che far si devea, tutto è fornito:
Da indi in qua si porta arena al lito.

                           VI.

      E se pur fia, che le mie insegne sante
Lasciando, alcun da me cerchi partire,
De l'altre schiere mie, che son cotante,
Sarà trionfo, e non sen potrà gire.
Per voi conven che 'l mio valor si cante
In altre parti, sì che 'l possa udire
La gente, che non l'ave udito ancora,
E per usanza mai non s'innamora.

                           VII.

      Siccome là dove 'l mio buon Romano
Casso di vita fè l'un duce Mauro:
E col piè vago discorrendo al piano
Parte le verdi piaggie il bel Metauro;
Ivi son donne, che fan via più vano
Lo stral d'Amor, che quel di Giove il lauro;
Sol per cagion di due, che la mia stella
Ardir prime chiamar bugiarda e fella.

                          VIII.

      L'una ha 'l governo in man delle contrade,
L'altra è d'onor e sangue a lei compagna.
Queste non pur a me chiudon le strade
Dei petti lor, che pianto altrui non bagna;
Ch'ancor vorrian di pari crudeltade
Dall'Orse a l'Austro, e dall'Indo a la Spagna
Tutte inasprir le donne e i cavalieri:
Tanto hanno i cori adamantini e feri.

                            IX.

      E vanno argomentando, che si deve
Castitate pregiar più che la vita,
Mostrando ch'a Lucrezia non fu greve
Morir per questa, onde ne fu gradita:
Tal che la gloria mia, come al Sol neve,
Si va struggendo: e se la vostra aita
Non mi riten quel regno a questo tempo;
Tutto il mi vedrò torre in piciol tempo.

                          X.

      Però vorrei ch'andaste a quelle fere
Solo ver me, là ov'elle fan soggiorno:
E le traeste a le mie dolci schiere,
Prima che faccia notte, ov'ora è giorno;
Rotti gli schermi, ond'elle vanno altere,
E mille volte a me fer danno e scorno;
Dando lor a veder, quanto s'inganni
Chi non mi dona il fior de' suoi verdi anni.

                          XI.

      Accingetevi dunque all'alta impresa:
Io v'agevolerò la lunga via.
Non vi sarà la terra al gir contesa;
Ché infino a lor per tutto ho signoria.
E perché 'l mar non possa farvi offesa;
Lo varcherete ne la conca mia:
O prendete i miei cigni, e 'l mio figliuolo,
Che regga il carro, e sì ven gite a volo.

                          XII.

      Così detto disparve, e le sue chiome
Spirar nel suo sparir soavi odori:
E tutto il ciel, cantando il suo bel nome,
Sparser di rose i pargoletti Amori.
Strinsersi intanto i sacerdoti, e come
Fu 'l sol de l'Oceano Indico fuori,
Senza dimora giù per cammin dritto,
Presa lor via n'andar verso l'Egitto.

                          XIII.

      Le piramidi e Menfi poi lasciate
Stolta, che 'l bue d'altari e tempio cinse;
Vider le mura da colui nomate,
Che giovenetto il mondo corse e vinse;
E Rodo, e Creta; e queste anco varcate,
E te, che da l'Italia il mar distinse;
E più che mezzo corso l'Appennino,
Entrâr nel vostro vago e lieto Urbino.

                          XIV.

      E son or questi, ch'io v'addito e mostro,
L'uno e l'altro di laude e d'onor degno.
E perch'essi non sanno il parlar nostro,
Per interprete lor seco ne vegno:
E 'n lor vece dirò, come che al vostro
Divin conspetto uom sia di dire indegno:
E se cosa udirete, che non s'usi
Udir tra voi; la Dea strana mi scusi.

                          XV.

      O Donna in questa etade al mondo sola,
Anzi a cui par non fu giammai, nè fia;
La cui fama immortal sopra 'l ciel vola
Di beltà, di valor, di cortesia,
Tanto che a tutte l'altre il pregio invola;
E voi, che sete in un crudele e pia
Alma gentil dignissima d'impero,
E che di sola voi cantasse Omero:

                         XVI.

      Qual credenza d'aver senz'Amor pace,
Senza cui lieta un'ora uom mai non ave,
Le sante leggi sue fuggir vi face,
Come cosa mortal si fugge e pave?
E lui, ch'a tutti gli altri giova e piace,
Sole voi riputar dannoso e grave?
E di Signor mansueto e fedele,
Tiranno disleal farlo, e crudele?

                        XVII.

      Amor è graziosa e dolce voglia,
Che i più selvaggi e più feroci affrena:
Amor d'ogni viltà l'anime spoglia,
E le scorge a diletto e trae di pena:
Amor le cose umili ir alto invoglia:
Le brevi e fosche eterna e rasserena;
Amor è seme d'ogni ben fecondo,
E quel, ch'informa, e regge, e serva il mondo.

                        XVIII.

      Però che non la terra solo e 'l mare,
E l'aere e 'l foco e gli animali e l'erbe,
E quanto sta nascosto, e quanto appare
Di questo globo, Amor, tu guardi e serbe;
E generando fai tutto bastare
Con le tue fiamme dolcemente acerbe:
Ch'ancor la bella machina superna
Altri che tu non volve e non governa.

                          XIX.

      Anzi non pur Amor le vaghe stelle,
E 'l ciel di cerchio in cerchio tempra e move;
Ma l'altre creature via più belle,
Che senza madre già nacquer di Giove,
Liete, care, felici, pure e snelle,
Virtù, che sol d'Amor descende e piove,
Creò da prima ed or le nutre e pasce,
Onde 'l principio d'ogni vita nasce.

                          XX.

      Questa per vie sovra 'l penser divine
Scendendo pura giù ne le nostre alme,
Tal che state sarian dentro al confine
De le lor membra quasi gravi salme,
Fatto ha poggiando altere e pellegrine
Gir per lo cielo; e gloriose ed alme
Più che pria rimaner dopo la morte,
Il lor destin vincendo e la lor sorte.

                        XXI.

      Questa fè dolce ragionar Catullo
Di Lesbia, e di Corinna il Sulmonese:
E dar a Cinzia nome, a noi trastullo
Uno, a cui patria fu questo paese:
E per Delia e per Nemesi Tibullo
Cantar: e Gallo, che se stesso offese,
Via con le penne de la fama impigre
Portar Licori dal Timavo al Tigre.

                       XXII.

      Questa fe' Cino poi lodar Selvaggia,
D'altra lingua maestro, e d'altri versi:
E Dante, acciòcchè Bice onor ne traggia,
Stili trovar di maggior lumi aspersi:
E perché 'l mondo in reverenzia l'aggia,
Sì come ebb'ei; di sì leggiadri e tersi
Concenti il maggior Tosco addolcir l'aura,
Che sempre s'udirà risonar Laura.

                       XXIII.

      La qual or cinta di silenzio eterno
Fora, siccome pianta secca in erba;
S'a lui, ch'arse per lei la state e 'l verno,
Come fu dolce, fosse stata acerba;
E non men l'altre illustri, ch'io vi scerno;
E qual si mostrò mai dura e superba
Verso quei, che potea sovra 'l suo nido
Alzarla a volo, e darle vita e grido.

                       XXIV.

      Questa novellamente ai padri vostri
Spirò desio; di cui, come a Dio piacque,
Per adornarne il mondo, e gli occhi nostri
Bear de la sua vista, in terra nacque
L'alma vostra beltà; nè lingue, o 'nchiostri
Contar porian, nè vanno in mar tant'acque,
Quanta Amor da' bei cigli alta e diversa
Gioia, pace, dolcezza, e grazia versa.

                         XXV.

      Cosa dinanzi a voi non può fermarsi,
Che d'ogni indegnità non sia lontana:
Ch'al primo incontro vostro suol destarsi
Penser, che fa gentil d'alma villana:
E se potesse in voi fiso mirarsi,
Sormonteriasi oltra l'usanza umana:
Tutto quel, che gli amanti arde e trastulla,
A lato ad un saluto vostro è nulla.

                        XXVI.

      Quanto in mill'anni il ciel devea mostrarne
Di vago e dolce, in voi spiegò e ripose,
Volendo a suo diletto esempio darne
De le più care sue bellezze ascose.
Chi non sa, come Amor soglia predarne,
O pur di non amar seco propose,
Fermi ne' be' vostr'occhi un solo sguardo;
E fugga poi, se può, veloce, o tardo.

                       XXVII.

      Rose bianche e vermiglie ambe le gote
Sembran, colte pur ora in paradiso;
Care perle e rubini, ond'escon note
Da far ogni uom da se stesso diviso:
La vista un Sol, che scalda entro e percote;
E vaga primavera il dolce riso.
Ma l'accoglienza, il senno, e la virtute
Potrebbon dare al mondo ogni salute;

                      XXVIII.

      Se non fosse il penser crudele ed empio,
Che v'arma incontro Amor di ghiaccio il petto,
E fa d'altrui sì doloroso scempio;
E priva del maggior vostro diletto
Voi con l'altre, a cui noce il vostro esempio;
Sì come noce al gregge simplicetto
La scorta sua, quand'ella esce di strada;
Che tutto errando poi conven, che vada.

                        XXIX.

      Così più d'un error versa dal fonte
Del vostro largo e cupo e lento orgoglio:
E s'io avessi parole al voler pronte,
Pianger farei ben aspro e duro scoglio.
Che non si dolse al caso di Fetonte
Febo, quant'io per voi, Donne, mi doglio.
Pur mi consola, che, qual io mi sono,
Amor mi detta, quanto a voi ragiono.

                         XXX.

      E per bocca di lui chiaro vi dico,
Non chiudete l'entrata ai piacer suoi:
Se 'l ciel vi si girò largo ed amico,
Non vi gite nemiche e scarse voi:
Non basta il campo aver lieto ed aprico,
Se non s'ara, e sementa, e miete poi:
Giardin non colto in breve divien selva,
E fassi lustro ad ogni augello e belva.

                        XXXI.

      È la vostra bellezza quasi un orto;
Gli anni teneri vostri aprile e maggio:
Alor vi va per gioia e per diporto
Il Signor, quando può, sed egli è saggio:
Ma poi che 'l Sole ogni fioretto ha morto,
O 'l ghiaccio a le campagne ha fatto oltraggio;
No 'l cura, e stando in qualche fresco loco,
Passa il gran caldo, o tempra il verno al foco.

                        XXXII.

      Ahi poco degno è ben d'alta fortuna,
Chi ha gran doni e cari, e schifa usarli.
A che spalmar i legni, se la bruna
Onda del porto dee poi macerarli?
Questo Sol, che riluce, o questa Luna
Lucesse in van, non si devria pregiarli.
Giovenezza e beltà, che non s'adopre,
Val, quanto gemma, che s'asconda e copre.

                       XXXIII.

      Qual fora un uom, se l'una e l'altra luce
Di suo voler in nessun tempo aprisse;
E 'l senso de le voci, a l'alma duce
Tenesse chiuso sì, che nulla udisse;
E 'l piè, che 'l fral di noi porta e conduce,
Mai d'orma non movesse, e mai non gisse;
Tal è proprio colei, che bella e verde
Neghittosa tra voi siede e si perde.

                          XXXIV.

      Non vi mandò qua giù l'eterna cura,
A fin che senz'Amor tra noi viveste:
Nè vi diè sì piacevole figura,
Perché in tormento altrui la possedeste:
Se stata fosse ad ogni priego dura
Ciascuna madre, or voi dove sareste?
Il mondo tutto, in quanto a se distrugge,
Chi le paci amorose adombra e fugge.

                       XXXV.

      Come, a cui vi donate voi, disdice,
Sed egli a voi di se si rende avaro;
Così voi, donne, a quei, che v'hanno in vice
Di sole alla lor vita dolce e chiaro,
Mostrarvi acerbe e torbide non lice;
E quelle men, cui più l'onesto è caro:
Che s'io sostenni te, mentre cadevi,
Debbo cadendo aver chi mi rilevi.

                      XXXVI.

      Il pregio d'onestate amato e colto
Da quelle antiche poste in prosa e 'n rima;
E le voci, che 'l vulgo errante e stolto
Di peccato e disnor sì gravi estima;
E quel lungo rimbombo indi raccolto,
Che s'ode risonar per ogni clima;
Son fole di romanzi, e sogno ed ombra,
Che l'alme simplicette preme e 'ngombra.

                      XXXVII.

      Non è gran meraviglia, s'una, o due
Sciocche donne alcun secol vide ed ebbe,
A cui sentir d'amor caro non fue;
E 'ndarno viver gli anni poco increbbe:
Come la Greca, ch'a le tele sue
Scemò la notte, quanto 'l giorno accrebbe,
Misera, ch'a se stessa ogni ben tolse,
Mentre attender un uom vent'anni volse.

                      XXXVIII.

      Il qual errando in questa e 'n quella parte,
Solcando tutto 'l mar di seno in seno,
A molte donne del suo Amor fè parte,
E lieto si raccolse loro in seno:
Che ben sapea, quanto dal ver si parte
Colui, ch'al legno suo non spiega il seno,
Mentr'egli ha 'l porto a man sinistra e destra,
E l'aura della vita ancor gli è destra.

                       XXXIX.

      Come avrian posto al nostro nascimento
Necessità d'Amor natura, e Dio;
Se quel soave suo dolce concento,
Che piace sì, fosse malvagio e rio?
Se per girar il Sole, ir vago il vento,
In su la fiamma, al chin correre il rio,
Non si pecca da lor; nè voi peccate,
Quando 'l piacer, per cui si nasce, amate.

                          XL.

      Mirate quando Febo a noi ritorna,
E fa le piaggie verdi e colorite;
Se dove avolger possa le sue corna,
E sé fermar, non ha ciascuna vite;
Essa giace, e 'l giardin non se n'adorna;
Nè 'l frutto suo, nè l'ombre son gradite:
Ma quando ad olmo od oppio alta s'appoggia,
Cresce feconda e per Sole e per pioggia.

                          XLI.

      Pasce la pecorella i verdi campi,
E sente il suo monton cozzar vicino:
Ondeggia, e par ch'in mezzo l'acque avvampi
Con la sua amata il veloce Delfino:
Per tutto, ove 'l terren d'ombra si stampi,
Sosten due rondinelle un faggio, un pino.
E voi pur piace in disusate tempre
Viver solinghe e scompagnate sempre.

                          XLII.

      Che giova posseder cittadi e regni;
E palagi abitar d'alto lavoro;
E servi intorno aver d'imperio degni;
E l'arche gravi per molto tesoro;
Esser cantate da sublimi ingegni;
Di porpora vestir, mangiar in oro;
E di bellezza pareggiar il Sole;
Giacendo poi nel letto fredde e sole?

                         XLIII.

      Ma che non giova aver fedeli amanti,
E con loro partire ogni pensero,
I desir, le paure, i risi, i pianti,
E l'ira e la speranza, e 'l falso, e 'l vero:
Ed or con opre care, or con sembianti
Il grave de la vita far leggero;
E se di rozze in atto e 'n pensier vili,
Sovra l'uso mondan scorte e gentili?

                         XLIV.

      Quanto esser vi dee caro un uom, che brami
La vostra molto più che la sua gioia?
Ch'altro che 'l nome vostro unqua non chiami?
Che sol pensando in voi tempri ogni noia?
Che più che 'l mondo in un vi tema ed ami?
Che spesso in voi si viva, in se si moia?
Che le vostre tranquille e pure luci
Del suo corso mortal segua per duci?

                          XLV.

      O quanto è dolce, perch'Amor lo stringa,
Talor sentirsi un'alma venir meno:
Saper come duo volti un sol depinga
Color: come due voglie regga un freno:
Come un bel ghiaccio ad arder si constringa:
Come un torbido ciel torni sereno:
E come non so che si bea con gli occhi,
Perché sempre di gioia il cor trabocchi.

                         XLVI.

      Puossi morta chiamar quella, di cui
Face d'Amor nessun pensero accende:
Nè dice: che son io lassa? che fui?
Nè giova al mondo, e se medesma offende:
Nè si ten cara, nè vuol darsi a lui,
Che già molt'anni sol un giorno attende:
Nè sa, con l'alma nella fronte espressa
Altrui cercar, e ritrovar se stessa.

                        XLVII.

      Però che voi non sete cosa integra,
Nè noi, ma è ciascun del tutto il mezzo:
Amor è quello poi, che ne rintegra,
E lega e strigne, come chiodo al mezzo:
Onde ogni parte in tanto si rallegra,
Che suoi diletti e gioie non han mezzo:
E s'uom durasse molto in tale stato,
Compitamente diverria beato.

                       XLVIII.

      Così voi vi trovate altrui cercando:
E fate nel trovar paghe e felici.
Dunque perché di voi ponete in bando
Amor, se son di tanto ben radici
Le sue quadrella? or danno in guerreggiando
Qual maggior posson farvi alti nemici,
Che torvi il regno? e questo assai più vale:
E voi lo vi togliete, e non vi cale.

                        XLIX.

      Ond'io vi do sano e fedel consiglio;
Non vi torca dal ver falsa vaghezza.
Se non si coglie, come rosa, o giglio,
Cade da se la vostra alma bellezza.
Vien poi canuta il crin, severa il ciglio,
La faticosa e debile vecchiezza.
E vi dimostra per acerba prova,
Che 'l pentirsi da sezzo nulla giova.

                          L.

      Ancor direi: ma temo, non tal volta,
Vi gravi il lungo udire; oltra ch'io vedo
Questa selva d'Amor farsi più folta,
Quant'io parlando più sfrondar la credo.
Dunque vostra mercè, che sempre è molta,
Darete agli oratori omai congedo.
L'altro, ch'a dir rimane, essi diranno,
Quando la lingua vostra appresa aranno.


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Edizione telematica  a cura di: Giuseppe Bonghi, 1999
Revisione, Edizione HTML e impaginazione a cura di: Giuseppe Bonghi, Aprile 1999
Tratto da: Rime di Pietro Bembo, corrette, illustrate ed accresciute con le annotazioni di Anton-Federico Seghezzi, e la vita dell'autore novellamente rifatta sopra quella di Monsig. Lodovico Beccatelli. Edizione seconda - In Bergamo )(  MDCCLIII appresso Pietro Lancellotti Con Licenza de' Superiori

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Ultimo aggiornamento: 03 maggio, 1999