Pietro  Bembo

Rime

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[LXXI-CX]

     SONETTO  LV.  (LXXI.)

      LIETA e chiusa contrada, ov'io m'involo
Al vulgo, e meco vivo e meco albergo,
Chi mi t'invidia, or ch'i Gemelli a tergo
Lasciando scalda Febo il nostro polo?

      Rade volte in te sento ira, nè duolo,
Nè gli occhi al ciel sì spesso e le voglie ergo;
Nè tante carte altrove aduno e vergo,
Per levarmi talor, s'io posso, a volo.

      Quanto sia dolce un solitario stato,
Tu m'insegnasti, e quanto aver la mente
Di cure scarca, e di sospetti sgombra.

      O cara selva e fiumicello amato,
Cangiar potess'io il mar e 'l lito ardente
Con le vostre fredd'acque e la verd'ombra.

      SONETTO  LVI.  (LXXII.)

      NE' tigre se vedendo orbata e sola
Corre sì leve dietro al caro pegno;
Nè d'arco stral va sì veloce al segno,
Come la nostra vita al suo fin vola.

      Ma poi, GASPARRO mio, che pur s'invola
Talor a morte un pellegrino ingegno;
Fate sia contra lei vostro ritegno
Quel, ch'Amor v'insegnò ne la sua scola;

      Spiegando in rime nove antico foco,
E i doni di colei, celesti e rari,
Che temprò con piacer le vostre doglie;

      Tal che poi sempre ogni abitato loco
Parli d'ambo duo voi, nè gli anni avari
Se ne portin giamai più che le spoglie.

     SONETTO  LVII.  (LXXIII.)

      Alma, se stata fossi a pieno accorta,
Quando cademmo a l'amorosa impresa,
Non ti saresti così tosto resa
A que' begli occhi, e crudi, che t'han morta.

      Io fui dal novo e gran diletto scorta,
E da la luce inusitata offesa;
Ma non erano già la tua difesa
Sospiri, e guancia sbigottita e smorta.

      Altro non si potea, fuor che piangendo
Chieder mercé: questo fec'io dappoi
Sempre; nè men però languisco ed ardo.

      Gir devevi lontan dai guerrier tuoi,
Stolto, e non sofferir più d'uno sguardo:
Che non si vince Amor, se non fuggendo.

SONETTO  LVIII.  (LXXIV.)

      Cola, mentre voi sete in fresca parte,
A dove il chiaro e gran Benaco stagna;
Qui dentro m'arde, e spesso di fuor bagna
Amor, che mai da me non si diparte:

      E la mia donna, ch'ogni studio ed arte
Ha di natura in sé, sì mi scompagna
D'ogni altro obietto, che talor si lagna
Del sonno il cor, che sol da se la parte.

      Così conven ch'io pensi, e parli, e scriva
Quel, ch'un bel viso ad or ad or m'insegna:
E 'n foco, e 'n pianto, e come ei vuol, mi viva:

      Perché veggiate in me, siccome avegna
Di quel, che Roma ne' teatri udiva,
Che ragion e consiglio Amor non degna.

        SONETTO  LIX.  (LXXV.)

      Poichè 'l vostr'alto ingegno, e quel celeste
Ragionar, e tacer pudico e saggio
Da far cortese un uom fero e selvaggio,
E i leggiadri atti, e l'accoglienze oneste,

      Vi rendon tanto spazio sopra queste
Forme umane escellenti, ch'io non aggio
Stile da colorir ben picciol raggio
De le virtuti al vostro animo preste;

      Se vi s'arroge il corpo, in cui beltade
Poser, quanta pon dar, benigne stelle;
Con quali rime assai potrò lodarvi?

      O de le meraviglie a nostra etade
La maggior di gran lunga, in onorar
vi
Si stancherian le tre lingue più belle.

      SONETTO  LX.  (LXXVI.)

      Se 'n dir la vostra angelica bellezza,
Neve, or, perle, rubin, due stelle, un Sole,
Subbietto abonda, e mancano parole,
A chi sua fama e veritate apprezza;

      Quai versi agguaglieran l'alta dolcezza,
Ch'ogni avaro intelletto appagar sole
Di chi v'ascolta, e l'altre tante e sole
Doti de l'alma, e sua tanta ricchezza?

      Colui, che nacque in su la riva d'Arno
E fece a Laura onor con la sua penna,
Direbbe a se: tu qui giugner non puoi.

      Perché se questo stile solo accenna,
Non compie l'opra e ne fa pruova indarno,
Il mio difetto ven, Donna, da voi.

      CANZONE XV.    (LXXVII.)

     Non si vedrà giammai stanca, nè sazia
Questa mia pena, Amore,
Di renderti, Signore,
Del tuo cotanto onore alcuna grazia:
A cui pensando volentier si spazia
Per la memoria il core,
E vede 'l tuo valore:
Ond'ei prende vigore, e te ringrazia.

      Amor da te conosco quel, ch'io sono
Tu primo mi levasti
Da terra, e 'n cielo alzasti;
E al mio dir donasti un dolce suono:
E tu colei, di ch'io sempre ragiono,
Agli occhi miei mostrasti;
E dentro al cor mandasti
Pensier leggiadri e casti, altero dono.

      Tu se' la tua mercè cagion ch'io viva
In dolce foco ardendo;
Dal quale ogni ben prendo,
Di speme il cor pascendo onesta e viva:
E se giammai verrà, ch'io giunga a riva,
Là 've 'l mio volo stendo;
Quanto piacer n'attendo,
Più tosto no 'l comprendo, ch'io lo scriva.

      Vita gioiosa e cara,
Chi da te non l'impara, Amor, non ave.

CANZONE XVI.   (LXXVIII.)

      Gioia m'abbonda al cor tanta e sì pura,
Tosto che la mia donna scorgo e miro,
Che 'n un momento ad ogni aspro martiro,
In ch'ei giacesse, lo ritoglie e fura:
E s'io potessi un dì per mia ventura
Queste due luci desiose in lei
Fermar, quant'io vorrei;
Su nel ciel non è spirto sì beato,
Con ch'io cangiassi il mio felice stato.

      Dall'altra parte un suo ben leve sdegno
Di sì duri pensier mi copre e 'ngombra,
Che se durasse, poca polve ed ombra
Faria di me, nè poria umano ingegno
Trovar al viver mio scampo, o ritegno:
E sel trovasse, non si prova e sente
Pena giù nel dolente
Cerchio di Stige, e 'n quello eterno foco,
Che posta col mio mal non fosse un gioco.

      Nè fia per tutto ciò, che quella voglia,
Che con sì forte laccio il cor mi strinse,
Quando primieramente Amor lo vinse,
Rallenti il nodo suo, non pur discioglia;
Mentre in piè si terrà questa mia spoglia:
Che la radice, onde 'l mio dolor nasce,
In guisa nutre e pasce
L'anima, che di lui mai non mi pento:
Anzi son di languir sempre contento.

      Canzon, e vo' ben dir cotanto avanti;
Fra tutti i lieti amanti
Quanto dolce in mill'anni Amor comparte,
Del mio amaro non vai la minor parte.

      CANZONE XVII.    (LXXIX.)

      A quai sembianze Amor Madonna agguaglia,
Dirò senza mentire;
Pur ch'altri non s'adire,
O 'n mercede appo lei questo mi vaglia.
Un sasso è forte sì, che non s'intaglia;
Altro per sua natura
Empie, e giamai non sazia occhio, che 'l miri.
Così contenti lascia i miei desiri,
Sazi non già, di quella petra dura,
Che d'ogni oltraggio uman vive secura,
La dolce vista angelica beatrice,
De la mia vita, e d'ogni ben radice.

      Là dove 'l sol più tardo a noi s'adombra,
Un vento si diparte,
Lo qual in ogni parte
I boschi al suo spirar di fronde ingombra,
Che la fredda stagion dai rami sgombra.
Così dello mio core,
Ch'è selva di pensieri ombrosa e folta,
Quand'ogni pace, ogni dolcezza è tolta,
Però che sempre non consente Amore,
Ch'un uom per ben servir mieta dolore;
Del suo dolce parlar lo spirto e l'aura
Subitamente ogni mio mal restaura.

      Nasce bella sovente in ciascun loco
Una pianta gentile,
Che per antico stile
Sempre si volge in ver l'eterno foco.
Or poi che mia ventura a poco a poco
Tanto innanzi mi chiama;
Farò, quasi fanciul, che teme e vole:
Come quel verde si rivolge al sole
E lui sol cerca, e riverisce, ed ama;
S'io potessi adempir l'antica brama,
Similemente ed io sempre ameria
L'alto splendor, la dolce fiamma mia.

    CANZONE XVIII.   (LXXX.)

      Se 'l pensier, che m'ingombra,
Com'è dolce e soave
Nel cor, così venisse in quelle rime;
L'anima saria sgombra
Del peso, ond'ella è grave,
Ed esse ultime van, ch'anderian prime:
Amor più forti lime
Useria sovra 'l fianco
Di chi n'udisce il suono:
Io, che fra gli altri sono
Quasi augello di selva oscuro umile,
Andrei cigno gentile
Poggiando per lo ciel canoro e bianco:
E fora il mio bel nido
Di più famoso ed onorato grido.

      Ma non eran le stelle,
Quando a solcar quest'onda
Primier entrai, disposte a tanto alzarme,
Che perchè Amor favelle,
E Madonna risponda
Là, dove piú non puote altro passarme:
S'io voglio poi sfogarme;
Sì dolce è quel concento,
Che la lingua nol segue,
E par che sì dilegue
Lo cor nel cominciar delle parole:
Nè giammai neve a Sole
Sparve così, com'io strugger mi sento,
Tal ch'io rimango spesso
Com'uom, che vive in dubbio di se stesso.

      Legge proterva e dura,
S'a dir mi sferza e punge
Quel, ond'io vivo; or chi mi tene a freno?
E s'ella oltra mia cura
Dal mondo mi disgiunge
Chi mi dà poi lo stil pigro e terreno?
Ben posson venir meno
Torri fondate e salde:
Ma ch'io non cerchi e brami
Di pascer le gran fami,
Che 'n sì lungo digiuno Amor mi dai;
Certo non farà mai:
Sì fur le tue saette acute e calde,
Di che 'l m io cor piagasti,
Ove negli occhi suoi nascosto entrasti.

      Quanto sarebbe il meglio,
E tuo piú largo onore,
Ch'i' avessi in ragionar di lei qualch'arte:
E siccome di speglio
Un riposto colore
Saglie talor, e luce in altra parte;
Così di queste carte
Rilucesse ad altrui
La mia celata gioia:
E perchè poi si moia,
Non ci togliesse il gir solinghi a volo
Dall'uno all'altro polo;
Là dove or taccio a tuo danno; con cui,
S'io ne parlassi, aria
Voce nel mondo ancor la fiamma mia.

      E forse avvenirebbe,
Ch'ogni tua infamia antica,
E mille alte querele acqueteresti:
Ch'uno talor direbbe,
Coppia fedele amica
Quanti dolci pensier vivendo avesti:
Altri, ben strinse questi
Nodo caro e felice,
Che sciolto a noi dà pace.
Or poich'a lui non piace,
Ricogliete voi piagge i miei desiri,
E tu sasso, che spiri
Dolcezza, e versi amor d'ogni pendice
Dal dì, che la mia donna
Errò per voi secura in treccia e 'n gonna.

       E fe gli onesti preghi
Qualche mercede han teco,
Faggio, del mio piacer compagna eterna:
Pietà ti stringa, e pieghi
A darne segno or meco:
E mova dalla tua virtute interna.
Che 'l mio danno discerna:
Sì che s'altro mi sforza,
E di valor mi spoglia;
S'adempia una mia voglia
Dopo tante, che 'l vento ode e disperde:
Così mai chioma verde
Non manchi alla tua pianta, e nella scorza
Qualche bel verso viva,
E sempre all'ombra tua si legga, o scriva.

      Già fai tu ben, siccome
Facean quì vago il cielo
Delle due chiare stelle i santi ardori:
E le dorate chiome
Scoperte dal bel velo
Spargendo di lontan soavi odori
Empiean l'erba di fiori:
E sai come al suo canto
Correano 'nverso 'l fonte
L'acque nel fiume, e 'l monte
Spogliar del bosco intorno si vedea,
Ch'ad ascoltar scendea:
E le fere seguir dietro, e da canto:
E gli augelletti inermi
Sovra in su l'ali star attenti e fermi.

      Riva frondosa e fosca,
Sonanti e gelide acque,
Verdi, vaghi, fioriti, e lieti campi,
Chi fia, ch'oda, e conosca
Quanto di lei vi piacque,
E meco d'un incendio non avvampi?
Chi verrà mai, che stampi
L'andar soave e caro
Col bel dolce costume,
E quel celeste lume,
Che giunse quasi un Sole a mezzo 'l die
Sovra le notti mie?
Lume, nel cui splendor mirando imparo
A sprezzar il destino,
E di salir al ciel scorgo il cammino.

      Quando giunte in un loco
Di cortesia vedeste,
D'onestà, di valor sì care forme?
Quando a sì dolce foco
Di sì begli occhi ardeste?
E so, ch'Amor in voi sempre non dorme
O chi m'insegna l'orme,
Che 'l piè leggiadro impresse?
O chi mi pon tra l'erba,
Ch'ancor vestigio serba
Di quella bianca man, che tese il laccio,
Onde uscir non procaccio,
E del bel fianco, e delle braccia stesse,
Che stringon la mia vita
Sì, che io ne pero, e non ne cheggio aita?

      Genti, a cui porge il rio
Quinci 'l piè torto e molle,
E quindi l'alpe il dritto orrido corno;
Deh or tra voi foss'io
Pastor di quel bel colle,
O guardian di queste selve intorno:
Quanto riluce il giorno,
Del mio sostegno andrei
Ogni parte cercando,
Reverente inchinando
Là 've più fosse il ciel sereno e queto,
E 'l seggio ombroso e lieto.
Ivi del lungo error m'appagherei,
E baciando l'erbetta
Di mille miei sospir farei vendetta.
Tu non mi fai quetar, nè io t'incolpo:
Purchè tra queste frondi,
Canzon mia, dalla gente ti nascondi.

     SONETTO  LXI.  (LXXXI.)

       Frisio, che già da questa gente a quella
Passando vago, e fama in ciascun lato
Mercando, hai poco men cerco e girato
Quanto riscalda la diurna stella;

      Ed or per render l'alma pura e bella
Al ciel, quando 'l tuo dì ti fia segnato,
Nel tuo ancor verde e più felice stato
Ti chiudi in sacra e solitaria cella,

      Eletto ben hai tu la miglior parte,
Che non ti si torrà: fossi anch'io a tale,
Nè mi torcesse empia vaghezza i passi:

      Contra la qual poi ch'altro non mi vale;
Prega 'l Signor per me tu, che mi lassi,
Senza te frale e sconsolata parte.

     SONETTO  LXII.  (LXXXII.)

      Se la via da curar gl'infermi hai mostro
Al mondo, che giacea pien d'alto errore,
Tu Febo, allor quando 'l secol migliore
Lasciò le genti al duro viver nostro;

      Al buon Lombardo, il cui lodato inchiostro
Rende al moderno stil l'antico onore,
Soccorri, che già presso a l'ultime ore
Vede la mesta ripa e 'l nero chiostro.

      Sì dirà poi, sanato, ad ora ad ora,
Come Delo fermasti vaga, e come
Piton morio mercé del tuo forte arco:

      E tutto quel, perché de le tue chiome
È l'arbor sempre verde amico incarco,
Spiegherà in versi, e lodera'l tu ancora.

SONETTO  LXIII.  (LXXXIII.)

      Ben devria farvi onor d'eterno esempio
Napoli vostra; e 'n mezzo al suo bel monte
Scolpirvi, in lieta e coronata fronte
Gir trionfando, e dar i voti al tempio:

      Poi che l'avete a l'orgoglioso ed empio
Stuolo ritolta, e pareggiate l'onte;
Or ch'avea più la voglia e le man pronte
A far d'Italia tutta acerbo scempio.

      Torceste 'l voi, Signor, dal corso ardito:
E foste tal, ch'ancora esser vorrebbe
A por di qua da l'alpe nostra il piede.

      L'onda Tirrena del suo sangue crebbe;
E di tronchi restò coperto il lito:
E gli augelli ne fer secure prede.

   CANZONE XIX.  (LXXXIV.)

      Se lo stil non s'accorda col desio,
Che d'onorarvi ad or ad or m'invoglia;
Ei presto, ardente, e quel freddo e restio,
Non sia per ciò, Signor, chi me ne toglia:
Che non è questo suo difetto o mio.
Ma 'l gran splendor de la virtute vostra,
Che più m'abbaglia, quanto più la miro,
Ovunqu'io vado, agli occhi miei si mostra
Tal, che d'ogni suo ardir l'anima spoglia,
E col primo penser un altro giostra:
Ond'io per tema indietro il passo giro,
E con la mia speranza ne sospiro.

     SONETTO  LXIV.  (LXXXV.)

      Anima, che da' bei stellanti chiostri,
Cinta de' raggi sì del vero amore,
Scendesti in terra, che fuor d'ogni errore
Ten vai secura degli affetti nostri;

      Con altre voci omai, con altri inchiostri
Moverò più sovente a farti onore,
Poi che se' giunta, ove fia 'l tuo valore
In altro pregio, che le perle e gli ostri.

      Dirò di lei, ch'a quella gelosia,
Onde Roma miglior cadde, rassembra:
O vendetta di Dio, chi te ne oblia?

      Poi seguirò, che se ben ti rimembra
D'Ercole e di Giason, questa é la via
Di gir al ciel ne le terrene membra.

      SONETTO   LXV.  (LXXXVI.)

      Tosto che 'l dolce sguardo Amor m'impetra,
Forse perch'io più volentier sospiri,
Parmel indi veder, che l'arco tiri,
E spenda tutta in me la sua faretra.

      Ma se Madonna mai tanto si spetra,
Che tinta di pietà ver me si giri;
Signor mio caro allor, pur ch'io la miri,
Fa me d'uom vivo una gelata pietra.

      Poi com'io torni a la prima figura,
Io no 'l sento per me: sassel Amore,
Che come veltro mi sta sempre al fianco.

      Ma 'l sangue accolto in sé dalla paura
Si ritien dentro, e teme apparir fore:
Però son io così pallido e bianco.

SONETTO  LXVI.  (LXXXVII.)

      Già vago, or sovr'ogni altro orrido colle;
Poi che 'l bel viso, in cui volse mostrarsi
Quanto ben qui fra noi potea trovarsi,
Luce ad altro paese, a te si tolle;

      Dura quell'acqua e questa selce molle
Fia, prima ch'io non senta al cor girarsi
La memoria del dì, quando alsi ed arsi
Nel bel soggiorno tuo, come 'l ciel volle.

      Por si può ben nemica e dura sorte
Fra noi talora, e 'l nostro vital lume;
Romper no a l'alma il penser vivo e forte;

      Che speri, o tema, o goda, o si consume,
Torna sempre a quel giorno; e le sue scorte
Sono due stelle, e gran desio le piume.

     SONETTO  LXVII.  (LXXXVIII.)

      Mostrommi entro a lo spazio d'un bel volto
E sotto un ragionar cortese, umile,
Per farmi ogni altro caro esser a vile,
Amor, quanto può darne il ciel, raccolto.

      Da indi in qua con l'alma al suo ben volto,
Lunge vicin già per antico stile
Scorgo i bei lumi e odo quel gentile
Spirto e d'altro giamai non mi cal molto.

      Fortuna, che sì spesso indi mi svia,
Tolga agli occhi, agli orecchi il proprio obietto,
E 'n parte le dolcezze mie distempre:

      Al cor non torrà mai l'alto diletto,
Ch'ei prova di veder la donna mia,
Ovunque io vado, e d'ascoltarla sempre.

   SONETTO  LXVIII.  (LXXXIX.)

     Caro sguardo sereno, in cui sfavilla,
Quanta non vide altrove uom mai bellezza;
Parlar saggio, soave, onde dolcezza
Non usata fra noi deriva e stilla,

      Solo di voi pensando si tranquilla
In me la tempestosa mente avvezza
Mirarvi, udirvi, e ciò più ch'altro apprezza,
Lodando Amor, che col suo strale aprilla.

      Amor la punse: e poi scolpio l'adorna
Fronte, e i begli occhi, e scrisse le parole
Dentro nel cor via più che 'n petra salde:

      Perch'ella, com'augel, ch'a parte vole,
Ond'ha suo cibo, a lor sempre ritorna
Con l'ali del desio veloci e calde.

          CANZONE XX.  (XC.)

      Se non fosse il penser, ch'a la mia donna
Per tanta via mi porta,
Sì lunge non avrei la vita scorta.

      I' miro ad or ad or nel suo bel viso,
Com'io le fossi presso:
E veggo lampeggiar quel dolce riso,
Che mi furò a me stesso:
Ciò ne le lontananze, che sì spesso
Fan la mia gioia corta,
A morte mi sottragge e riconforta.

      Nè men, dove ch'io vada, odo ed intendo
Le sue sante parole:
E 'n tanto acqueto i miei tormenti, e prendo
Vigor, siccome suole
Chiuso fioretto in sul mattin dal Sole:
Fida de l'alma scorta,
E freno al duol, ch'a morte mi trasporta.

         CANZONE XXI.  (XCI.)

     Perchè 'l piacer a ragionar m'invoglia,
E di sua propria man mi detta Amore,
Nè dall'un, nè dall'altro ardisco aitarmi;
Sgombrimisi del petto ogni altra voglia,
E sol questa mercede appaghi il core,
Tanto ch'io dica, e possa contentarmi.
Ch'aver dinanzi sì bel viso parmi,
Sì pure voci, e tanto alti pensieri,
Che perch'io mai non speri
Per forza di mio ingegno, o per altr'arte
Cose leggiadre e nove,
Che 'n mill'anni volgendo il ciel non piove,
Qual io e sento al cor stender in carte;
Pur le mie ferme stelle
Portan ad or ad or, ch'io ne favelle.

      Era nella stagion, che 'l ghiaccio perde
Dalle viole, e 'l Sol cangiando stile
La faccia oscura alle campagne ha tolta,
Quando tra 'l bel cristallo, e 'l dolce verde
Mi corse al cor la mia donna gentile,
Che correr vi dovea sol una volta.
Mia ventura in quel punto avea disciolta
La treccia d'oro: e quel soave sguardo
Lieto cortese e tardo
Armavan sì felici e cari lumi;
Che quant'io vidi poi
Vago amoroso e pellegrin fra noi,
Rimembrando di lor, tenni ombre e fumi:
E dicea fra me stefsso,
Amor senz'alcun dubbio è qui da presso.

      Ben diss'io 'l ver: che come 'l dì col Sole,
Così con la mia donna Amor ven sempre,
Che da' begli occhi mai non s'allontana.
Poi sentì ragionando dir parole,
E risonar in sì soavi tempre,
Che già non mi sembrar di lingua umana.
Correa da parte una bella fontana,
Che vide l'acque sue quel dì più vive
Avanzar per le rive:
E 'n contro i raggi delle luci sante
Ogni ramo inchinarsi
Del bosco intorno, e più frondoso farsi:
E fiorir l'erbe sotto le sue piante:
E quetar tutti i venti
Al suon de' prirni suoi beati accenti.

      Quante dolcezze con amanti unquanco
Non eran state certo infin quel giorno,
Tutte fur meco, e non le scorsi a pena.
Vincea la neve il vestir puro e bianco
Dal collo a'piedi: e 'l bel lembo d'intorno
Avea virtù da far l'aria serena.
L'andar toglieva l'alme alla lor pena,
E ristorava ogni passato oltraggio.
Ma 'l parlar dolce e saggio,
Che m'avea gú da me stesso diviso,
E i begli occhi, e le chiome,
Che fur legami alle mie care some,
Delle cose parean di paradiso
Scese quaggiuso in terra
Per dar al mondo pace, e torli guerra.

      Deh se per mio destin voci mortali,
E son di donna pur queste bellezze,
Beato chi l'ascolta, e chi la mira
Ma se non son chi mi darà tante ali,
Ch'io segua lei, s'avven ch'ella non prezze
Di star, là 've si piagne e si sospira?
Così pensava: e 'n quanto occhio si gira,
Vidi un, che 'l dolce volto dipingea
Parte, e parte scrivea
Nell'alma dentro le parole e 'l suono
Dicendo: queste omai
Penne da gir con lei tu sempre arai.
Allor mi scossi, e qual io qui mi sono,
Tal la mia donna bella
M'era nel petto, in vifo, ed in favella.

      Rimanti qui, Canzon, poichè dell'alto
Mio tesoro infinito
Così poveramente t'hai vestito.

      CANZONE XXII.  (XCII.)

      Se nella prima voglia mi rinvesca
L'anima desiosa, e pur un poco
Per levarmi da lei l'ale non stende;
Meraviglia non è: di sì dolc'esca
Movono le faville, e nasce il foco,
Ch'a ragionar di voi, Donna, m'accende,
Voi sete dentro: e ciò che fuor risplende,
Esser altro non può, che vostro raggio.
Ma perch'io poi non aggio
In ritrarlo ad altrui le rime accorte,
Ben ha da voi radice
Tutto quel, che per me se ne ridice
Ma le parole son debili e corte:
Che se fosser bastanti,
Ne 'nvaghirei mille cortesi amanti.

      Però che da quel dì, ch'io feci in prima
Seggio a voi nel mio cor, altro che gioia
Tutto questo mio viver non é stato.
E se per lunghe prove il ver s'estima,
Quantunque ch'io mi viva, o ch'io mi moia,
Non spero d'esser mai se non beato:
Sì fermo è 'l pié del mio felice stato.
E certo sotto 'l cerchio della luna
Sorte goiosa alcuna,
Ed un ben quanto 'l mio non si ritrova.
Che s'altri è lieto alquanto,
Immantenente poi l'assale il pianto:
Ma io non ho dolor, che mi rimova
Dalla mia festa pura,
Vostra mercè, Madonna, e mia ventura.

      E se duro destin a ferir viemmi
Con più forza talor, di là non passa
Dalla spoglia, ond'io vo caduco e frale.
Che 'l piacer, di che Amor armato tiemmi,
Sostien il colpo, e gir oltra no 'l lassa,
Là 've sedete voi, che 'l fate tale.
Però s'io vivo a tempo, che mortale
Fora ad altrui, non è per proprio ingegno.
Io per me nacqui un segno
Ad ogni stral delle sventure umane:
Ma voi sete il mio schermo:
E perch'i fia di mia natura infermo,
Sotto 'l caso di me poco rimane.
Lasso, ma chi può dire
Le tante guise poi del mio gioire?

      Che spesso un giro sol degli occhi vostri,
Una sol voce in allentar lo spirto
Mi lassa in mezzo 'l cor tanta dolcezza,
Che nol porian contar lingua, nè inchiostri.
Nè così 'l verde serva lauro, o mirto,
Com'ei le forme d'ogni sua vaghezza.
Ed ho sì l'alma a questo cibo avvezza,
Ch'a lei piacer non può, nè la desvia
Cosa, che voi non sia,
O co 'l vostro penser non s'accompagne;
E quando il giorno breve
Copre le rive e le piagge di neve,
E quando 'l lungo infiamma le campagne,
E quando aprono i fiori,
E quando i rami poi tornan minori.

      Gigli, calta, viole, acanto, e rose,
E rubini, e zaffiri, e perle, ed oro
Scopro, s'io miro nel bel vostro volto
Dolce armonia delle più care cose
Sento per l'aere andar, e dolce coro
Di spiriti celesti, s'io n'ascolto
Tutto quel, che diletta, inseme accolto,
E posso col piacer, che mi trastulla,
Se di voi penso, è nulla:
Nè giurerei, ch'Amor tanto s'avanzi,
Perch'ha la face e l'arco,
Quanto per voi mio prezioso incarco:
Ed or mel par veder, ch'a voi dinanzi
Voli superbo, e dica:
Tanto son io, quanto m'è questa amica.

      Nè tu per gir, Canzon, ad altro albergo,
Del mio ti partirai,
Se, quanto rozza fei, conoscerai.

      CANZONE XXIII.  (XCIII.)

      Da poich'Amor in tanto non si stanca
Dettarmi quel, ond'io sempre ragioni,
E 'l piacer più che mai dentro mi punge;
Ancor dirò, ma se del vero manca
La voce mia; Madonna il mi perdoni,
Che 'n tutto dal nostr'uso si disgiunge.
E come salirei, dov'ella aggiunge,
Io basso e grave, ed ella alta e leggera?
Basti mattino e sera
L'alma inchinarle, quanto si convene:
E qualche pura scorza
Segnar, allor che 'l gran desio mi sforza,
Del suo bel nome, e le più fide arene;
Acciò che 'l mar la chiami,
Ed ogni selva la conosca ed ami

      Questo faccia 'l desir in parte sazio,
Che vorria alzarsi a dir della mia donna;
Ma tema di cader lo tene a freno.
E se per le sue lode unqua mi spazio,
Ch'è ben d'alto valor ferma colonna,
Non è però, ch'io creda dirne a pieno.
Ma perch'altrui lo mio stato sereno
Cerco mostrar, che sol da lei deriva;
Forza è talor, ch'io scriva,
Com'ogni mio penser indi si miete:
O di quella soave
Aura, che del mio cor volge la chiave:
O pur di voi che 'l mio sostegno sete,
Stelle lucenti e care,
Se non quando di voi mi sete avare.

      Voi date al viver mio l'un fido porto:
Che come il Sol di luce il mondo ingombra,
E la nebbia sparisce innanzi al vento;
Così mi vien da voi gioia e conforto;
E così d'ogni parte si disgombra
Per lo vostro apparir noia e tormento.
L'altro è, quando parlar Madonna sento,
Che d'ogni bassa impresa mi ritoglie,
E quel laccio discioglie,
Che gli animi stringendo a terra inclina:
Tal ch'io mi fido ancora,
Quandi sarò di questo carcer fora,
Far di me stesso alla morte rapina:
E 'n più leggidra forma
Rimaner degli amanti esempio e norma.

      Il terzo è 'l mio solingo alto pensero,
Col qual entro a mirarla, e cerco, e giro
Suoi tanti onor, che sol un non ne lasso:
E scorgo il bel semblante umile altero,
E 'l riso, che fa dolce ogni martiro,
E 'l cantar, che potria mollir un sasso.
O quante cose qui tacendo passo,
Che mi stan chiuse al cor sì dolcemente.
Poi raffermo la mente
In un giardin di nuovi fiori eterno:
Ed odo dir nell'erba,
Alla tua donna questo si riserba:
Ella potrà qui far la fiate e 'l verno.
Di cota' viste vago
Pascomi sempre, e d'altro non m'appago,

      E chi non sa, quanto si gode in cielo
Vedendo Dio per l'anime beate,
Provi questo piacer, di ch'io li parlo.
Da quel dì innanzi mai caldo, nè gelo
Non temerà, nè altra indignitate
Ardirà della vita unque appressarlo:
E purch'un poco mova a salutarlo
Madonna il dolce e grazioso ciglio;
Più di nostro consiglio
Non avrà uopo, e vincerà il destino:
Che quelle vaghe luci
A salir sopra 'l ciel gli saran duci,
E mostreranli il più diritto cammino:
E potrà gir volando,
Ogni cofa mortal sotto lasciando.

      Ove ne vai, Canzon, s'ancora è meco
L'una compagna e l'altra?
Già non sei tu di lor più ricca, o scaltra.

     SONETTO  LXIX.  (XCIV.)

     Felice imperador, ch'avanzi gli anni
Con la virtute, e rendi a questi giorni
L'antico onor di Marte, e 'n pregio il torni,
E per noi riposar te stesso affanni;

      Per cui spera saldar tanti suoi danni
Roma, e fra più che mai lieti soggiorni
Sentir ancor sette suoi colli adorni
Di tuoi trionfi, e 'l mondo senza inganni:

      Mira 'l Settentrion, Signor gentile;
Voce udirai, che 'n fin di là ti chiama,
Per farti sopra 'l ciel volando ir chiaro.

      Sì vedrem poi del nostro ferro vile
Far secol d'oro, e viver dolce e caro:
Questo fia nostro, tuo 'l pregio e la fama.

        SONETTO  LXX.  (XCV.)

       Amor, mia voglia e 'l vostro altero sguardo,
Ch'ancor non volse a me vista serena:
Mi danno, lasso, ognor sì grave pena,
Ch'io temo, no 'l soccorso giunga tardo.

      Al foco de' vostr'occhi qual esca ardo,
A cui l'ingordo mio voler mi mena:
E se ragion alcun tempo l'affrena,
Amor poi 'l fa più leve e più gagliardo.

      Così mi struggo e pur, s'io non m'inganno,
Sete sol voi cagion, ch'io mi consume,
E mia voglia ed Amor lor dritto fanno:

      Che potreste mutar l'aspro costume
De le luci, ond'io vo per minor danno
A morte, come al mar veloce fiume.

      SONETTO  LXXI.  (XCVI.)

      Quando 'l mio sol, del qual invidia prende
L'altro, che spesso si nasconde e fugge,
Levando ogni ombra, che 'l mio bene adugge,
Vago sereno agli occhi miei risplende;

      Sì co' suoi vivi raggi il cor m'accende,
Che dolcemente ei si consuma e strugge:
E come fior, che 'l troppo caldo sugge,
Potria mancar, che nulla nel difende.

      Se non ch'al suo sparir m'agghiaccio, e poi
Con vista d'uom, che piange sua ventura,
Passo in una marmorea figura.

      Medusa, s'egli è ver, che tu di noi
Facevi petra, assai fosti men dura
Di tal, che m'arde, strugge, agghiaccia e indura.

      SONETTO  LXXII.  (XCVII.)

      O superba e crudele, o di bellezza
E d'ogni don del ciel ricca e possente,
Quando le chiome d'or caro e lucente
Saranno argento, che si copre e sprezza;

      E de la fronte, a darmi pene avvezza,
L'avorio crespo e le faville spente;
E del sol de' begli occhi vago ardente
Scemato in voi l'onor e la dolcezza;

      E nello specchio mirerete un'altra:
Direte sospirando, eh lassa, quale
Oggi meco penser? perché l'adorna

      Mia giovenezza ancor non l'ebbe tale?
A questa mente o 'l sen fresco non torna?
Or non son bella: allora non fui scaltra.

SONETTO  LXXIII.  (XCVIII.)

     Sogno, che dolcemente m'hai furato
A morte, e del mio mal posto in oblio,
Da qual porta del ciel cortese e pio
Scendesti a rallegrar un dolorato?

      Qual angel hai là su di me spirato,
Che sì movesti al gran bisogno mio?
Scampo a lo stato faticoso e rio,
Altro che 'n te non ho lasso trovato.

      Beato se, ch'altrui beato fai:
Se non ch'usi troppo ale al dipartire,
E 'n poca ora mi toi quel, che mi dai.

      Almen ritorna, e già che 'l camin sai,
Fammi talor di quel piacer sentire,
Che senza te non spero sentir mai.

     SONETTO  LXXIV.  (XCIX.)

      Se 'l viver men che pria m'è duro e vile,
Nè più d'Amor mi pento esser suggetto,
Nè son di duol, come io solea, ricetto;
Tutto questo è tuo don, sogno gentile.

      Madonna più che mai tranquilla umile,
Con tai parole e 'n sì cortese affetto
Mi si mostrava, e tanto altro diletto,
Ch'asseguir no 'l poria lingua nè stile.

      Perché, dicea, la tua vita consume?
Perché pur del signor nostro ti lagni?
Frena i lamenti omai, frena 'l dolore;

      E più cose altre: quando il primo lume
Del giorno sparse i miei dolci guadagni,
Aperti gli occhi, e traviato il core.

           SONETTO  LXXV.  (C.)

      Giaceami stanco, 'l fin de la mia vita
Venia, nè potea molto esser lontano,
Quando pietosa, in atto onesto e piano
Madonna apparve a l'alma, e diemmi aita.

      Non fu sì cara voce unquanco udita,
Nè tocca, dicev'io, sì bella mano,
Quant'or da me; nè per sostegno umano
Tanta dolcezza in cor grave sentita.

      E già negli occhi miei feriva il giorno
Nemico degli amanti, e la mia speme
Parea qual Sol velarsi che s'adombre.

      Gissene appresso il sonno: ed ella inseme
Co' miei diletti, e con la notte intorno,
Quasi nebbia sparì che 'l vento sgombre.

         SONETTO  LXXVI.  (CI.)

     Mentre 'l fero destin mi toglie, e vieta
Veder Madonna, e tiemmi in altra parte;
La bella imagin sua veduta in parte
Il digiun pasce, e i miei sospiri acqueta.

      Però s'a l'apparir del bel pianeta,
Che tal non torna mai, qual si diparte,
Ebbi conforto all'alma dentro, e parte
Ristetti in vista desiosa e lieta;

      Fu, perch'io 'l miro in vece ed in sembianza
De la mia donna, che men fredda, o ria,
O fugace di lui non mi si mostra:

      E più ne avrò, se piacer vostro fia,
Che 'l sonno de la vita, che gli avanza,
Si tenga Endimion la Luna vostra.

       SONETTO  LXXVII.  (CII.)

      Perché sia forse a la futura gente,
Com'io fui vostro ancora, eterno segno,
Queste rime, devoto, e questo ingegno
Vi sacro, e questa mano e questa mente.

      E se non più per tempo, o del presente
Secolo speme, e mio fido sostegno,
A così riverirvi, e darvi pegno
Del mio verace amor divenni ardente;

      Farò qual peregrin, desto a gran giorno,
Che 'l sonno accusa, e raddoppiando i passi
Tutto 'l perduto del cammin racquista.

      Ma o pur non da voi si prenda a scorno
Il mio dir roco, e i versi incolti e bassi;
Io per mirar nel Sol perda la vista.

      SONETTO  LXXVIII.  (CIII.)

     Questa del nostro lito antica sponda,
Che te, Venezia mia, copre e difende;
E mentre il corso al mar frena e suspende,
La fer mai sempre, e la percote l'onda;

      Rassembra me: che se 'l dì breve sfronda
I boschi o se le piagge il lungo accende;
Mi bagna riva, che dagli occhi scende,
Riva, ch'aperse Amor larga e profonda.

      Ma non perviene a la mia donna il pianto,
Che d'intorno al mio cor ferve e ristagna,
Per non turbar la sua fronte serena.

      La qual vedesse sol un giorno, quanto
Per lei dolor dì e notte m'accompagna;
Assai fora men grave ogni mia pena.

       SONETTO  LXXIX.  (CIV.)

      La sera, che scolpita nel cor tengo:
Così l'avess'io viva entro le braccia:
Fuggì sì leve, ch'io perdei la traccia,
Nè freno il corso, nè la sete spengo.

      Anzi così tra due vivo e sostengo
L'anima forsennata, che procaccia
Far d'una tigre sciolta preda in caccia,
Traendo me, che seguir lei convengo.

      E so ch'io movo indarno, o penser casso,
E perdo inutilmente il dolce tempo
De la mia vita, che giammai non torna.

      Ben devrei ricovrarmi, or ch'i m'attempo
Ed ho forse vicin l'ultimo passo:
Ma piè mosso dal ciel nulla distorna.

      SONETTO  LXXX.  (CV.)

      Mentre di me la verde abile scorza
Copria quel dentro, pien di speme e caldo;
Vissi a te servo, Amor, sì lieto e saldo,
Che non ti fu a tenermi uopo usar forza.

      Or che 'l volger del ciel mi stempra, e sforza
Con gli anni e più non sono ardito e baldo
Com'io solea, nè sento al cor quel caldo,
Che scemato giammai non si rinforza;

      Stendi l'arco per me, se vuoi, ch'io viva,
Nè ti dispiace aver chi l'alte prove
De la tua certa man racconti e scriva.

      Non ho sangue e vigor da piaghe nove
Sofferir di tuo strale: omai l'oliva
Mi dona, e spendi le saette altrove.

       SONETTO  LXXXI.  (CVI.)

     Se tutti i miei prim'anni a parte a parte
Ti diedi, Amor, nè mai fuor del tuo regno
Posi orma, o vissi un giorno; era ben degno
Ch'io potessi attempato omai lasciarte:

      E da' tuoi scogli a più secura parte
Girar la vela del mio stanco legno:
E volger questi studi e questo ingegno
Ad onorata impresa, a miglior arte.

      Non son, se ben me stesso, e te risguardo,
Più da gir teco; i grave, e tu leggero;
Tu fanciullo e veloce, i vecchio e tardo:

      Arsi al tuo foco, e dissi: altro non chero.
Mentre fui verde e forte: or non pur ardo
Secco già e fral, ma incenerisco e pero.

   CANZONE XXIV. (CVII. sestina)

     I più soavi e riposati giorni
Non ebbe uom mai, nè le più chiare notti,
Di quel ch'ebb'io; nè 'l più felice stato,
Allor ch'io cominciai l'amato stile
Ordir con altro pur, che doglia e pianto,
Da prima entrando all'amorosa vita.

      Or è mutato il corso alla mia vita,
E volto il gaio tempo e i lieti giorni,
Che non sapean, che cosa fosse un pianto,
In gravi travagliate e fosche notti:
Co '1 bel suggetto suo cangiar lo stile,
E con le mie venture ogni mio stato.

      Lasso non mi credea di sì alto stato
Giammai cader in così bassa, vita
Nè di sì piano in così duro stile.
Nè 'l Sol non mena mai sì puri giorni,
Che non sian dietro poi tante altre notti:
Così vicino al rifo è sempre il pianto.

      Ben ebbi al riso mio vicino il pianto,
Ed io non mel sapea: che 'n quello stato
Così cantando, e 'n quelle dolci notti
Forse avrei posto fine alla mia vita,
Per non tardar al fel di questi giorni,
Che m'ha sì inacerbito e petto e stile.

      Amar tu, che porgel dianzi allo stile
Lieto argomento, or gl'insegni ira, e pianto:
A che son giunti i miei graditi giorni?
Qual vento nel fiorir svelse il mio stato,
E se fortuna alla tranquilla vita
Entro gli scogli alle più lunghe notti?

      U' son le prime mie vegghiate notti
Sì dolcemente? u 'l mio ridente stile,
Che potea rallegrar ben mesta vita?
E chi sì tosto l'ha converso in pianto?
Ch'or foss'io morto, allor quando il mio stato
Tinse in oscuro i suoi candidi giorni.

      Sparito è 'l Sol de' miei sereni giorni,
E raddoppiata l'ombra alle mie notti,
Che lucean più che i dì d'ogni altro stato.
Cantai un tempo, e 'n vago e lieto stile
Spiegai mie rime, ed or le spiego in pianto,
C'ha fatto amara di sì dolce vita.

      Così sapesse ognun, qual è mia vita
Da indi in qua, che i miei festosi giorni,
Chi sola il potea far, rivolse in pianto;
Che pago mi terrei di queste notti
Senza colmar de' miei danni lo stile:
Ma non ho tanto bene in questo stato.

      Che quella fera, che al mio verde stato
Diede di morso, e quasi alla mia vita,
Or fugge al suon del mi' angoscioso stile:
Nè mai per rimembrarle i primi giorni,
O raccontar delle presenti notti ,
Volse a pieta del mio sì largo pianto.

      Ecco sola m ascolta, e col mio pianto,
Agguagliando 'l suo duro antico stato
Meco si duol di sì penose notti:
E se 'l fin si prevede dalla vita,
Ad una meta van questi e quei giorni,
E la mia nuda voce fia il mio stile.

      Amanti, i ebbi già tra voi lo stile
Sì vago, che acquetava ogni altrui pianto:
Or me non queta un sol di questi giorni:
Così va, chi in suo molto allegro stato
Non crede mai provar noiosa vita,
Nè penfa 'l dì delle future notti.

      Ma chi vuol, si rallegri alle mie notti:
Com'anco quella, che mi fa lo stile
Tornar a vile, e 'n odio esser la vita,
Ch'i non spero giammai d'uscir di pianto.
Ella se 'l fa, che di sì lieto stato
Tosto mi pose in così tristi giorni

       Ite giorni gioiosi, e care notti:
Che 'l bel mio stato ha preso un altro stile
Per pascer sol di pianto la mia vita.

SONETTO  LXXXII.  (CVIII.)

      Già donna, or dea, nel cui verginal chiostro
Scendendo in terra a sentir caldo e gelo,
S'armò, per liberarne, il Re del cielo,
Da l'empie man dell'avversario nostro,

      I pensier tutti, e l'uno e l'altro inchiostro,
Cangiata veste, e con la mente il pelo,
A te rivolgo, e quel, ch'agli altri celo,
L'interne piaghe mie ti scopro e mostro.

      Sanale, che puoi farlo, e dammi aita
A salvar l'alma da l'eterno danno:
La qual se dal cammin dritto impedita

      Le Sirene gran tempo schernit'hanno,
Non tardar tu; ch'omai della mia vita
Si volge il terzo e cinquantesimo anno.

   SONETTO  LXXXIII.  (CIX.)

      In poca libertà con molti affanni,
Di là 'v'io fui gran tempo, al dolce piano,
Che cesse in parte al buon seme Troiano,
Venni già grave di pensieri e d'anni:

      E posimi dal fasto, e dagl'inganni,
E dagli occhi del vulgo assai lontano:
Ma che mi valse, Amor, s'a mano a mano
Tu pur a lagrimar mi ricondanni?

      Qui tra le selve, i campi, e l'erbe, e l'acque,
Allor quand'i credea viver sicuro,
Più feroce che pria m'assali e pungi.

      Lasso, ben veggio omai, sì come è duro
Fuggir quel, che di noi su nel ciel piacque:
Nè pote uom dal suo fato esser mai lungi.

      SONETTO  LXXXIV.  (CX.)

      I chiari giorni miei passar volando,
Che fur sì pochi, e tosto aperser l'ale:
Poi piacque al ciel, cui contrastar non vale,
Pormi di pace, e di me stesso in bando.

      Così molt'anni ho già varcato: e quando
Mancar devea la fiamma del tuo strale,
Amor, che questo incarco stanco e frale
Tutto dentro e di fuor si va lentando;

      Sento un novo piacer possente e forte
Giugner ne l'alma al grave antico foco,
Talch'a doppio ardo, e par che non m'incresca.

      Lasso ben son vicino alla mia morte:
Ché puote omai l'infermo durar poco,
In cui scema virtù, febbre rinfresca.


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Edizione telematica  a cura di: Giuseppe Bonghi, 1999
Revisione, Edizione HTML e impaginazione a cura di: Giuseppe Bonghi, Aprile 1999
Tratto da: Rime di Pietro Bembo, corrette, illustrate ed accresciute con le annotazioni di Anton-Federico Seghezzi, e la vita dell'autore novellamente rifatta sopra quella di Monsig. Lodovico Beccatelli. Edizione seconda - In Bergamo )(  MDCCLIII appresso Pietro Lancellotti Con Licenza de' Superiori

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Ultimo aggiornamento: 30 aprile, 1999