Pietro  Bembo

Rime

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AL NOBILE E VALOROSO SIGNORE
I L   S I G N O R
GIUSEPPE  BELTRAMELLI

Pierantonio  Serassi

Suole assai di rado avvenire, che essendo altri nato tra gli agi, e nel grembo di lieta e favorevole fortuna, dilicatamente cresciuto, soffera poi di darsi con tutto l'ardore agli studi delle buone lettere, e comporti di sostener francamente que’ sudori e quelle fatiche, che indispensabili sono in chi brama di far acquisto del ricco tesoro della virtù. Perciocchè presentandosegli dinnanzi agli occhi fin dalla fanciullezza la via delle Scienze aspra, difficile, e piena di spine; e mirando allo ’contro quella dell'ozio e della morbidezza facile, piana e tutta sparsa in apparenza facile, piana, e tutta sparsa in apparenza di molle erbetta e di fiori, accade il più delle volte, che sgomentato dall'asprezza dell'una, si dà a scorrere ciecamente per l'altra; e così riuscendogli poi la scuola di carcere e lo studio di tormento, trapassa i migliori anni in vane e disdicevoli sciocchezze, e trascura follemente que’ mezzi, che soli varrebbono a renderlo illustre al mondo e riguardevole. Quindi furono sempre giudicati degni di somma lode coloro, che ad esempio d'’Ercole la molle e fiorita strada disprezzando alla scoscesa, e dirupata si appigliarono; dando con ciò chiarissimo argomento di animo generoso, sollevato, e nobile. Tra questo emmi paruto di veder Voi fin da’ vostri teneri anni, gentilissimo e valorosissimo SIGNOR mio; poichè infin d'allora vi mirai sì fattamente applicato agli studi delle liberali discipline; che ben ne porgeva ferma speranza di quell'ottimo riuscimento, a che ora non senza maraviglia vi veggiamo esser giunto. Voi adunque fin dalla fanciullezza calpestando con franco piede gli agi e i comodi, che vi apprestava la splendidezza dell'Illustrissima Vostra CASA, amaste meglio di attenervi alla noiosa e angusta ristrettezza de’ Collegi, per ivi arricchire la mente dell'arti e delle cognizioni più nobili. E quantunque col vostro perspicace intelletto abbiate scorse varie altre Arti e Scienze; a due non pertanto vi piacque di applicarvi particolarmente, cioè alla Poesia e alla Pittura, non solo per essere ambidue nobilissime e degne dell'animo vostro; ma ancora per essere tra di loro con sì stretto vincolo legate ed unite, che non mancò chi l'una parlante Dipintura, e l'altra Poesia muta appellasse. E in queste avete voi in pochi anni sì diligentemente coltivato il fertilissimo ingegno vostro; che già ne cogliete molti preziosi frutti, e tali che vi meritarono l'approvazione e gli encomj di due celebri Accademie, cioè della nostra degli ECCITATI, che appena giunto dagli studi vi ascrisse al suo Ordine, e della CLEMENTINA di Bologna, che con singolare consentimento volle tra’ suoi Accademici d'onore annoverarvi. A questi pregi così illustri ed eccellenti, che in voi s'ammirano, si aggiunse una modestia, una affabilità e una gentilezza singolare, e certe altre nobili maniere, per cui avete altrui persuaso, che l'essere Voi nato d'una delle più riguardevoli Famiglie di questa Patria, non è il primo, nè il più pregiabile vostro ornamento. Quindi non è maraviglia se chiunque ha l'onore di conoscervi e di trattarvi, vi ama e vi riverisce; e se io, che per mia ventura tra questi mi annovero, ho desiderato sempre di darvi qualche pubblica testimonianza dell'affezione e della riverenza ch'io vi porto. E però avendo a’ giorni passati fatte ristampare per la seconda volta le pulitissime e leggiadre Rime del Cardinal PIETRO BEMBO, di nuovi ornamenti, e di nuove giunte notabilmente accresciute, ho molto di buon grado presa occasione di soddisfare a questo mio desiderio allo stimatissimo vostro Nome col più rispettoso ossequio consecrandole. Il dono egli è veramente assai scarso e umile, se vuolsi considerare quanto poco io ci abbia dentro del mio; ma potrà peravventura divenir grande, così per conto del Poeta, che è per ogni sua parte degnissimo; come anco per essere argomento della profonda stima, e delle obbligazioni che io vi professo; e molto più per venir presentato ad un Personaggio di gentil core e magnanimo, che saprà discernere nella picciolezza del dono la sincerità di quell'affetto, che ad occhio meno acuto e penetrante rimarrebbe forse sconosciuta ed oscura.

Di Casa li 28. Giugno 1753.

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NOI RIFORMATORI
DELLO STUDIO DI PADOVA.

Avendo veduto per la Fede di revisione, ed approvazione del P. F. Andrea Bonfadio Inquisitor General del S. Offizio di Bergamo nel Libro intitolato Rime di M. Pietro Bembo, colle Annotazioni di Anton-Federco Seghezzi, e Vita novellamente rifatta sopra quella di Monsig. Beccatelli da Pier-Antonio Serassi ec. non v'esser cos'alcuna contro la S. Fede Cattolica; e parimente per attestato del Segretario Nostro, niente contro Prencipi, e buoni costumi; concediamo Licenza a Pietro Lancellotti Stampatore di Bergamo, che possa, essere stampato, osservando gli ordini in materia di Stampe, e presentando le solite copie alle Pubbliche Librerie di Venezia, e di Padova.
Dat. li 17 Maggio 1753.

( Gio. Emo Proc. Rif.
( Barbon Morosini Cav. Proc. Rif.
( Alvise Mocenigo Cav. Proc. Rif.
Registrato in Libro a C. 11. al N. 70.
Gio. Girolamo Zuccato Segr.

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[I-XXXV]

                  SONETTO  I.

      Piansi e cantai lo strazio e l'aspra guerra,
Ch'i' ebbi a sostener molti e molti anni
E la cagion di così lunghi affanni,
Cose prima non mai vedute in terra.

      Dive, per cui s'apre Elicona e serra,
Use far a la morte illustri inganni,
Date allo stil, che nacque de' miei danni,
Viver, quand'io sarò spento e sotterra.

      Che potranno talor gli amanti accorti,
Queste rime leggendo, al van desio
Ritoglier l'alme col mio duro exempio,

      E quella strada, ch'a buon fine porti,
Scorger da l'altre, e quanto adorar Dio
Solo si dee nel mondo, ch'è suo tempio.

                    SONETTO  II.

      Io, che già vago e sciolto avea pensato
Viver quest'anni, e sì di ghiaccio armarme
Che fiamma non potesse omai scaldarme,
Avampo tutto e son preso e legato.

      Giva solo per via, quando da lato
Donna scesa dal ciel vidi passarme,
E per mirarla, a pie mi cadder l'arme,
Che tenendo, sarei forse campato.

      Nacque ne l'alma insieme un fiero ardore,
Che la consuma, e bella mano avinse
Catene al collo adamantine e salde.

      Tal per te sono, e non men pento,
Amore, purché tu lei, che sì m'accese e strinse,
Qualche poco, Signor, leghi e riscalde.

                  SONETTO  III.

      Sì come suol, poi che 'l verno aspro e rio
Parte e dà loco a le stagion migliori,
Giovene cervo uscir col giorno fuori
Del solingo suo bosco almo natio,

      Et or su per un colle, or lungo un rio
Gir lontano da case e da pastori,
Erbe pascendo rugiadose e fiori,
Ovunque più ne 'l porta il suo desio;

      Né teme di saetta o d'altro inganno,
Se non quand'egli è colto in mezzo 'l fianco
Da buon arcier, che di nascosto scocchi;

Tal io senza temer vicino affanno
Moss'il piede quel dì, che i be' vostr'occhi
Me 'mpiagar, Donna, tutto 'l lato manco.

                SONETTO  IV.

      Picciol cantor, ch'al mio verde soggiorno
Non togli ancor le tue note dolenti,
Ben riconosco in te gli usati accenti,
ma io, qual me n'andai, lasso, non torno.

      Alta virtute e bel sembiante adorno
Dier lo mio debil legno a fieri venti:
Tosto avrai tu, chi suoi novi lamenti
Giunga agli antichi tuoi la notte e 'l giorno.

      Già m'hai veduto a questo fido orrore
Venir co' miei pensieri amici appresso,
E lieto, et io di me vivea signore.

      Or mi vedrai col mio nimico expresso,
E far de la mia pena cibo al core,
Del ciglio altrui sproni e freno a me stesso.

                 SONETTO  V.

      Crin d'oro crespo e d'ambra tersa e pura,
Ch'all'aura su la neve ondeggi e vole,
Occhi soavi e più chiari che 'l sole,
Da far giorno seren la notte oscura,

     Riso, ch'acqueta ogni aspra pena e dura,
Rubini e perle, ond'escono parole
Sì dolci, ch'altro ben l'alma non vòle,
Man d'avorio, che i cor distringe e fura,

      Cantar, che sembra d'armonia divina,
Senno maturo a la più verde etade,
Leggiadria non veduta unqua fra noi,

      Giunta a somma beltà somma onestade,
Fur l'esca del mio foco, e sono in voi
Grazie, ch'a poche il ciel largo destina.

                 SONETTO  VI.

      Moderati desiri, immenso ardore,
Speme, voce, color cangiati spesso,
Veder, ove si miri, un volto impresso,
E viver pur del cibo, onde si more,

      Mostrar a duo begli occhi aperto il core,
Far de le voglie altrui legge a se stesso,
Con la lingua e lo stil lunge e da presso
Gir procacciando a la sua donna onore,

      Sdegni di vetro, adamantina fede,
Sofferenza lo schermo e di pensieri alti
Lo stral e 'l segno opra divina,

      E meritar e non chieder mercede,
Fanno 'l mio stato, e son cagion ch'io speri
Grazie, ch'a pochi il ciel largo destina.

                  SONETTO  VII.

      Poi ch'ogni ardir mi circonscrisse Amore
Quel dì, ch'io posi nel suo regno il piede,
Tanto ch'altrui, non pur chieder mercede,
Ma scoprir sol non oso il mio dolore,

      Avess'io almen d'un bel cristallo il core,
Che, quel ch'i' taccio e Madonna non vede
De l'interno mio mal, senza altra fede
A' suoi begli occhi tralucesse fore;

      Ch'io spererei de la pietate ancora
Veder tinta la neve di quel volto,
Che 'l mio sì spesso bagna e discolora.

      Or che questo non ho, quello m'è tolto,
Temo non voglia il mio Signor, ch'io mora:
La medicina è poca, il languir molto.

              SONETTO  VIII.

      Ch'io scriva di costei, ben m'hai tu detto
Più volte, Amor; ma ciò, lasso, che vale?
Non ho né spero aver da salir ale,
Terreno incarco a sì celeste obietto.

      - Ella ti scorgerá, ch'ogni imperfetto
Desta a virtute, e di stil fosco e frale
Potrà per grazia far chiaro immortale,
Dandogli forma da sì bel suggetto.

      Forse non degna me di tanto onore;
Anzi nessun; pur se ti fidi in noi;
Esser può, ch'arco in van sempre non scocchi.

      Ma che dirò, Signor, prima? che poi?
Quel, ch'io t'ho già di lei scritto nel core;
E quel, che leggerai ne' suoi begli occhi.

                  SONETTO  IX.

       Di que' bei crin, che tanto più sempre amo,
Quanto maggior rnio mal nasce da loro,
Sciolto era il nodo, che del bel tesoro
M'asconde quel, ch'io più di mirar bramo;

      E 'l cor, che 'ndarno or lasso a me richiamo,
Volò subitamente in quel dolce oro,
E fe' come augellin tra verde alloro,
Ch'a suo diletto va di ramo in ramo.

      Quando ecco due man belle oltra misura,
Raccogliendo le treccie al collo sparse,
strinservi dentro lui, che v'era involto.

      Gridai ben io, ma le voci fe' scarse
Il sangue, che gelò per la paura:
Intanto il cor mi fu legato e tolto.

            SONETTO  X.

       Usato di mirar forma terrena
Quest'anni adietro e torbido splendore,
Vidi la fronte, di celeste onore
Segnata e più che sol puro serena.

      Corsemi un caldo allor di vena in vena
Dolce et acerbo e passò dentro al core,
Del qual poi vissi, come volle Amore,
Ch'or pace e gioia, or mi dà guerra e pena.

      La pena è sola, ma la gioia mista
D'alcun tormento sempre, e quella pace
Poco secura, onde mia vita è trista.

      E 'l divin chiaro sguardo sì mi piace,
Ch'io ritorno a perir de la sua vista,
Come farfalla, al lume che la sface.

              SONETTO  XI.

      Ove romita e stanca si sedea
Quella, in cui sparse ogni suo don natura,
Guidommi Amor, e fu ben mia ventura,
Che più felice farmi non potea.

      Raccolta in sé, co' suoi pensier parea
Ch'ella parlasse; ond'io, che tema e cura
Non ho mai d'altro, a guisa d'uomi che fura,
Di paura e di speme tutto ardea.

      E tanto in quel sembiante ella mi piacque,
Che poi per meraviglia oltre pensando,
Infinita dolcezza al cor mi nacque;

      E crebbe allor che 'l bel fianco girando
Mi vide, e tinse il viso, e poi non tacque,
Tu pur qui se', ch'io non so come, o quando. -

                 SONETTO  XII.

       Amor, che meco in quest'ombre ti stavi,
Mirando nel bel viso di costei,
Quel dì che volentier detto l'avrei
Le mie ragion, ma tu mi spaventavi,

      Ecco l'erbetta, e i fior lieti e soavi,
Che preser nel passar vigor da lei,
E 'l ciel, ch'acceser que' begli occhi rei,
Che tengon del mio petto ambe le chiavi.

      Ecco ove giunse prima e poi s'assise,
Ove ne scorse, ove chinò le ciglia,
Ove parlò Madonna, ove sorrise.

      Qui come suoi, chi se stesso consiglia,
Stette pensosa: o sue belle divise,
Come m'avete pien di meraviglia!

              SONETTO  XIII.

     Occhi leggiadri, onde sovente Amore
Move lo stral, che la mia vita impiaga,
Crespo dorato crin, che fai sì vaga
L'altrui bellezza e 'l mio foco maggiore,

      E voi, man preste a distenermi 'l core
E più profonda far la mortal piaga,
Se del vedervi sol l'alma s'appaga,
Perché sì rado vi mostrate fore?

      Non ti doler di noi, che ne convene
Seguir le voglie de la donna nostra:
Dì questo a lei, che 'n tal guisa ne tene.

      Pur potess'io; ma con la vista vostra
M'abbaglia sì, ch'a forza le mie pene
Oblio tutte, ov'ella mi si mostra.

               SONETTO XIV.

     Porto, se 'l valor vostro arme e perigli
Guerreggiando piegâr né mica unquanco,
E Marte v'ha tra' suoi più cari figli,
Difendervi d'Amor non potrete anco.

      Non vai, perch'uom di ferro il petto e 'l fianco
Si copra, e spada in mano o lancia pigli,
Con lui, che spesso Giove e tutto stanco
Ha 'l ciel, non ch'ei qua giù turbe e scompigli.

      Più gioverà mostrarvi umile e piano
e volontariamente preso andarne,
com'ho fatt'io, che contrastar in vano.

      Anzi pregate, poi ch'egli ha in sua mano
Nostra vita, né pote altro salvarne,
Vi doni a cor non da pietà lontano.

          CANZONE I   (XV.)

      Tutto quel che felice et infelice
Viverò per inanzi, a voi si scriva,
Del mio bene e mal sola radice,
Fonte onde 'l mio stato si deriva:
Che tante cose Amor di voi mi dice,
Tante ne leggon le mie fide scorte
Negli occhi, ond'è la face sua più viva;
Ch'i' voglio anzi per voi tormento e morte,
Che viver e gioir in altra sorte.

        CANZONE II:  (XVI.)

     La mia leggiadra e candida angioletta,
Cantando a par de le Sirene antiche,
Con altre d'onestade e pregio amiche
Sedersi a l'ombra in grembo de l'erbetta
Vid'io pien di spavento:
Perch'esser mi parea pur su nel cielo,
Tal di dolcezza velo
Avolto avea quel punto agli occhi miei.
E già dicev'io meco: o stelle, o dei,
O soave concento!
Quand'i m'accorsi ch'ell'eran donzelle,
Liete, secure e belle.
Amore, io non mi pento
D'esser ferito de la tua saetta,
S'un tuo sì picciol ben tanto diletta.

        CANZONE III.     (XVII.)

      Or che non s'odon per le fronde i venti,
Né si vede altro che le stelle e 'l cielo,
Poi che scampo non ho dal mio bel sole,
Se non quest'un, del suo celeste lume
Conven ch'io parli, e come foco e ghiaccio
Fa di me spesso fuor d'usanza e tempo.

      Forse fia questo aventuroso tempo
A le mie voci, e gli amorosi venti,
Ch'io movo di sospiri al duro ghiaccio,
Faran del mio languir pietate al cielo:
A Madonna non già, che tanto lume
A le tenebre mie non porta il sole.

      Or dico che di me, sì come il sole
Muta girando le stagioni e 'l tempo,
Fa l'altero fatal mio vivo lume:
Ch'or provo in me sereno, or nube, or venti,
Or pioggie, e spesso nel più freddo cielo
Son foco e nel più caldo neve e ghiaccio.

      Foco son di desio, di tema ghiaccio,
Qualor si mostra agli occhi miei quel sole,
Ch'abbaglia più che l'altro, ch'è su in cielo:
Seren la pace e nubiloso tempo
Son l'ire e 'l pianto pioggia, i sospir venti,
Che move spesso in me l'amato lume.

      Così sol per virtù di questo lume
Vivendo ho già passato il caldo e 'l ghiaccio,
Senza temer che forza d'altri venti
Turbasse un raggio mai di sì bel sole
Per chinar pioggia o menar fosco tempo,
Grazia e mercé del mio benigno cielo.

      E prima fia di stelle ignudo il cielo
E 'l giorno andrà senza l'usato lume,
Ch'io muti stile o volontà per tempo;
Né spero già scaldar quel cor di ghiaccio,
Per provar tanto, ai raggi del mio sole,
Foco, gelo, seren, nube, acque e venti.

      Quanto soffiano i venti e volge il cielo,
Non vide il sol giamai si chiaro lume,
Pur che 'l ghiaccio scacciasse un caldo tempo.

           CANZONE IV. (XVIII)

      Amor la tua virtute
Non è dal mondo e dalla gente intesa:
Che da viltate offesa
Segue suo danno, e fugge sua salute.
Ma se fosser tra noi ben conosciute
L'opre tue, come là dove risplende
Più del tuo raggio puro;
Cammin diritto e securo
Prenderia nostra vita, che no 'l prende,
E tornerian con la prima beltade
Gli anni dell'oro, e la felice etade.

          CANZONE V.   (XIX).

     Come si converria, de' vostri onori
S'io non canto, Madonna, e non ragiono,
Ben me ne dee venir da voi perdono:
Che da la chiara e gran virtute vostra,
Ch'è quasi un sol, ch'ogni altro lume adombra,
E da quella celeste alma beltade,
Cui par non vide o questa od altra etade,
Quand'io vo per ritrarle,
Tal diletto, e sì novo a me si mostra,
Che l'alma in tanto resta vinta e sgombra
Di saper, e lo stil non può formarle,
Ch'al ver non sian pur come sogno et ombra;
Se non in quanto a voi fan puro dono
De la mia fede e testimon ne sono.

            SONETTO XV.  (XX.)

      O imagine mia celeste e pura,
Che splendi più che 'l sole agli occhi miei
E mi rassembri 'l volto di colei,
Che scolpita ho nel cor con maggior cura,

      Credo che 'l mio Bellin con la figura
T'abbia dato il costume anco di lei,
Che m'ardi, s'io ti miro, e per te sei
Freddo smalto, a cui giunse alta ventura.

      E come donna in vista dolce, umile,
Ben mostri tu pietà del mio tormento;
Poi, se mercè ten prego, non rispondi.

      In questo hai tu di lei men fero stile,
Né spargi sì le mie speranze al vento,
Ch'almen, quand'io ti cerco, non t'ascondi.

             SONETTO XVI.  ( XXI)

      Son questi quei begli occhi, in cui mirando
senza difesa far perdei me stesso?
È questo quel bel ciglio, a cui sì spesso
invan del mio languir mercé dimando?

      Son queste quelle chiome, che legando
vanno il mio cor, sì ch'ei ne more espresso?
O volto, che mi stai ne l'alma impresso,
perch'io viva di me mai sempre in bando,

      parmi veder ne la tua fronte Amore
tener suo maggior seggio, e d'una parte
volar speme, piacer, tema e dolore;

      da l'altra, quasi stelle in ciel consparte,
quinci e quindi apparir senno, valore,
bellezza, leggiadria, natura ed arte.

          SONETTO XVII.    (XXII.)

      Grave, saggio, cortese, alto signore,
Lume di questa nostra oscura etate,
Che desti 'l mondo e 'l chiami in libertate
Da servitute, e nel suo antico onore,

      Solo refugio in così lungo errore
De le nove sorelle abandonate,
Figliuol di Giove, amico d'onestate,
Per cui 'l ben vive e 'l mal si strugge e more,

      O Ercole, che travagliando vai
Per lo nostro riposo, e 'n terra fama
E 'n ciel fra gli altri Dei t'acquisti loco,

      Sgombra da te le gravi cure omai
E qua ne ven, ove a diletto e gioco
L'erba, il fiume, gli augei, l'aura ti chiama.

         SONETTO XVIII.   (XXIII.)

      Re degli altri, superbo e sacro monte,
Ch'Italia tutta imperioso parti
E per mille contrade e più comparti
Le spalle, il fianco e l'una e l'altra fronte;

      De le mie voglie mal per me sì pronte
Vo risecando le non sane parti,
E raccogliendo i miei pensieri sparti
Sul lito, a cui vicin cadeo Fetonte:

      Per appoggiarli al tuo sinistro corno,
Là dove bagna il bel Metauro e dove
Valor e cortesia fanno soggiorno;

      E s'a prego mortal Febo si move,
Tu sarai 'l mio Parnaso, e 'l crine intorno
Ancor mi cingerai d'edere nove.

       SONETTO  XIX.   (XXIV.)

      Del cibo, onde Lucrezia e l'altre han vita,
In cui vera onestà mai non morio,
L'un pasca il digiun vostro lungo e rio,
Donna più che mortal, saggia e gradita.

      L'altro la faccia bianca e sbigottita
Dal tuon, che qui sì grande si sentio,
Depinga col liquor d'un alto oblio
E vi ritorni vaga e colorita.

      E 'l terzo vi stia inanzi a tutte l'ore,
E s'aven che Medusa a voi si mostri,
Schermo vi sia, che non s'impetre il core.

      Per me si desti tanto il mio Signore,
Ch'io trovi loco in grembo a' pensier vostri,
Tal che 'nvidia non basti a trarmen fore.

       SONETTO  XX.   (XXV.)

      Tommaso, i venni, ove l'un duce mauro
fece del sangue suo vermiglio il piano,
di molti danni al buon popol romano,
cui l'altro afflitto avea, primo restauro.

      Qui miro col piè vago il bel Metauro
gir fra le piaggie or disdegnoso or piano,
per mille rivi giù di mano in mano
portando al mar più ricco il suo tesauro.

      Talor m'assido in su la verde riva,
e mentre di Madonna parlo o scrivo,
ad ogni altro penser m'involo spesso.

      Così con l'alma solitaria e schiva
assai tranquillo e riposato vivo,
sprezzando 'l mondo, e molto più me stesso.

        CANZONE VI.   (XXVI).

      Felice stella il mio viver sognava
Quel dì, ch'inanzi a voi mi scorse Amore,
Mostrando a me di fore
Il ben, che dentro agli altri si celava,
In tanto che 'l parlar fede non trova.
Ma perché ragionando si rinova
L'alto piacer, i dico che 'l mio core,
Preso al primo apparir del vostro lume,
L'antico suo costume
Lasciando incontro al dolce almo splendore,
Si mise vago a gir di raggio in raggio,
E giunse ove la luce terminava,
Che gli diè albergo in mezzo al vivo ardore.
Ma non si tenne pago a quel viaggio
L'ardito e fortunato peregrino;
Anzi seguì tant'oltre il suo destino,
Ch'ancor cercando più conforme stato
A la primiera vita, in ch'era usato,
Passò per gli occhi dentro a poco a poco
Nel dolce loco, ove 'l vostro si stava.

      E quei, come dicesse: io men vo
Gire dritto colà, donde questi si parte;
Ché, stando in altra parte,
Quel innocente ne potria perire;
Sen venne a me stranier cortese e fido.
Da indi in qua, come in lor proprio nido,
Spirando vita pur a l'altrui parte,
Meco il cor vostro e 'l mio con voi dimora.
Né loco mai né ora,
C
he gli altri amanti si spesso diparte
E di vera pietade li depinge.
Pò noi un sol momento dipartire;
Con tal ingegno Amor, con sì nov'arte
Fè la catena, che ne lega e stringe.
E quanto in duo si sprezza o si desia,
È bisogno che sia
Sprezzato e desiato parimente;
Che l'un per l'altro a se stesso consente.
Così si prova in questa frale vita
Gioia infinita senza alcun martire.

     CANZONE VII. (XXVII.)

      Preso al primo apparir del vostro raggio
Il cor, che infin quel dì nulla mi tolse,
Da me partendo a seguir voi si volse;
E come quei, che trova in suo viaggio
Disusato piacer, non si ritenne,
Che fu negli occhi, onde la luce uscia,
Gridando a queste parti Amor m'invia.
Indi tanta baldanza appo voi prese
L'ardito fuggitivo a poco a poco,
Ch'ancor per suo destin lasciò quel loco
Dentro passando; e più oltra si stese,
Che 'n quello stato a lui non si convenne:
Finchè poi giunto, ov'era il vostro core,
Seco s'assise, e più non parve fore.

      Ma quei, come 'l movesse un bel desire
Di non star con altrui del regno a parte,
O fosse 'l ciel, che lo scorgesse in parte,
Ov'altro Signor mai non devea gire;
Là, onde mosse il mio, lieto sen venne:
Così cangiaro albergo, e da quell'ora
Meco 'l cor vostro, e 'l mio con voi dimora.

           SONETTO  XXI.   (XXVIII.)

      De la gran quercia, che 'l bel Tebro adombra,
Esce un ramo, ed ha tanto i cieli amici,
Che gli onorati sette colli aprici
E tutto 'l fiume di vaghezza ingombra.

      Questi m'è tal, che pur la sua dolce ombra
Far pote i giorni miei lieti e felici:
Ed ha sì nel mio cor le sue radici,
Che né forza né tempo indi lo sgombra.

      Pianta gentil, ne le cui sacre fronde
S'annida la mia speme e i miei desiri;
Te non offenda mai caldo né gelo:

      E tanto umor ti dian la terra e l'onde
E l'aura intorno sì soave spiri,
Che t'ergan sovr'ogni altra infino al cielo.

     SONETTO  XXII.   (XXIX.)

      Io ardo, dissi, e la risposta invano,
Come 'l gioco chiedea, lasso, cercai;
Onde tutto quel giorno e l'altro andai
Qual uom, ch'è fatto per gran doglia insano.

      Poi che s'avide, ch'io potea lontano
Esser da quel penser, più pia che mai
Ver me volgendo de' begli occhi i rai,
Mi porse ignuda la sua bella mano.

      Fredda era più che neve; né 'n quel punto
Scorsi il mio mal, tal di dolcezza velo
M'avea dinanzi ordito il mio desire.

      Or ben mi trovo a duro passo giunto,
Che, s'i non erro, in quella guisa dire
Volle Madonna a me, com'era un gelo.

         SONETTO  XXIII.   (XXX.)

      Viva mia neve, e caro e dolce foco,
Vedete com'io agghiaccio e com'io avampo,
Mentre, qual cera, ad or ad or mi stampo
Del vostro segno, e voi di ciò cal poco.

      Se gite disdegnosa, tremo, e loco
Non trovo che m'asconda, e non ho scampo
Dal gelo interno; se benigno lampo
Degli occhi vostri ha seco pace e gioco,

      Surge la speme, e per le vene un caldo
Mi corre al cor, e sì forte l'infiamma,
Come s'ei fosse pur di solfo e d'esca.

      Né per questi contrari una sol dramma
Scema del penser mio tenace e saldo,
C'ha ben poi tanto, onde s'avanzi e cresca.

     SONETTO  XXIV.   (XXXI.)

      Bella guerriera mia, perché sì spesso
V'armate incontro a me d'ira e d'orgoglio;
Che in atti ed in parole a voi mi soglio
Portar sì reverente e sì dimesso?

      Se picciol pro del mio gran danno espresso
A voi torna o piacer del mio cordoglio,
Né di languir né di morir mi doglio,
Ch'io vo solo per voi caro a me stesso.

      Ma se con l'opre, ond'io mai non mi sazio,
Esser vi pò d'onor questa mia vita;
Di lei vi caglia e non ne fate strazio.

      L'istoria vostra col mio stame ordita,
Se non mi si darà più lungo spazio,
Quasi nel cominciar sarà finita.

      SONETTO  XXV.   (XXXII.)

      A questa fredda tema, a questo ardente
Sperar, a questo tuo diletto e gioco,
A questa pena Amor, perché dai loco
Nel mio cor ad un tempo, e sì sovente?

      Ond'è, ch'un'alma fai lieta e dolente
Insieme spesso, e tutta gelo e foco?
Stati contrari e tempre, era a te poco,
Se separatamente uom prova e sente?

      Risponde: - Voi non durereste in vita,
Tanto è 'l mio amaro, e 'l mio dolce mortale,
Se n'aveste sol questa, o quella parte.

      Confusi, mentre l'un con l'altro male
Contende e scemal di sua forza in parte,
Quel, che v'ancideria per se, v'aita.

      SONETTO  XXVI.   (XXXIII.)

      Nei vostri sdegni, aspra mia morte e viva,
S'io piango e sfogo in voci alte e dolenti;
Tal voi risguardo avete a' miei lamenti,
Qual rapido torrente a letto o riva.

      S'io taccio; l'alma, d'ogni speme priva,
Brama, che 'l nodo suo tosto s'allenti,
Certa, che allor di voi le nostre genti,
Anciso il suo fedel mentre e' fioriva,

      Diranno; e già non sete voi si vostra,
Com'io, da che primier vi scorsi e dissi:
Questa è lo specchio e 'l sol de l'età nostra.

      E 'n tante carte poi lo sparsi e scrissi,
Che, s'a mia voglia ancor poco si mostra,
Pur saprà ognun, ch'io mori' vostro e vissi.

      SONETTO  XXVII.   (XXXIV.)

       Sì come quando il ciel nube non ave
E l'aura in poppa con soave forza spira,
Senza alternar di poggia e d'orza
Tutta lieta sen va spalmata nave;

      E come poi che 'l tempestoso e grave
Vela, remi, governo, ancore sforza
E l'arte manca e 'l mar poggia e rinforza,
Sente dubbio il suo stato e del fin pave,

      Tal io, da speme onesta e pura scorto,
Assai mi tenni fortunato un tempo,
Mentre non m'ebbe la mia donna in ira;

      E tal, or che mi sdegna a sì gran torto,
L'alma offesa da lei piagne e sospira,
Che gir si vede a morte anzi 'l suo tempo.

    SONETTO  XXVIII.   (XXXV.)

       La mia fatal nemica è bella e cruda,
COLA, né so qual più, ma cruda e bella,
Quanto il sol caldo e chiaro, e ben tal ella
Nel cor mi siede, che n'agghiaccia, e suda.

      Già bella solo: or di pietà sì nuda
Insieme, lasso, e sì d'amor rubella,
Che, vedete tenor di fera stella,
Temo non morte le mie luci chiuda,

      Prima ch'io scorga in quel bel viso un segno,
Non dico di mercé, ma che le 'ncresca
Pur solamente del mio, strazio indegno.

      Felice voi già preso a più dolce esca,
Cui micidial di lei vaghezza, o sdegno
Gelo e foco ne l'alma non rinfresca.


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Edizione telematica  a cura di: Giuseppe Bonghi, 1999
Revisione, Edizione HTML e impaginazione a cura di: Giuseppe Bonghi, Aprile 1999
Tratto da: Rime di Pietro Bembo, corrette, illustrate ed accresciute con le annotazioni di Anton-Federico Seghezzi, e la vita dell'autore novellamente rifatta sopra quella di Monsig. Lodovico Beccatelli. Edizione seconda - In Bergamo )(  MDCCLIII appresso Pietro Lancellotti Con Licenza de' Superiori

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Ultimo aggiornamento: 26 aprile, 1999