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DE SANCTIS

L’Ariosto del D. S. è l’artista, non il poeta. Ne vien fuori un ritratto quale un critico, anzi il miglior critico romantico poteva realizzare, unendo al malcelato disprezzo per la società ariostesca una vera e profonda ammirazione per l’autore.

Ariosto è l’uomo dell’idillio, il cortegiano che non si ribella, ma paziente e stizzoso, che non vuol fastidi e, per viaggiare, si accontenta di Ptolomeo. Ha scatti oraziani d’umore, pronto a scambiare la sua posizione servile con la libertà, ma non ne è capace, in pratica. Anzi finisce col ridere, scotendo la testa, anche di se stesso. Ecco l’uomo. De Sanctis non ne fa un campione di umanità certo, ma riconosce che è il tipo di borghese letterato italiano “men reo”.

L’opera: l’idea centrale della sua critica al Furioso De Sanctis la concentra in questa condanna: il poema non è materiato di contenuto serio; non vibra di passioni, di nessuna passione. Certo per una tempra civile quale quella del De Sanctis era questa una lacuna difficilmente colmabile. Per fare inghiottire il boccone amaro al critico irpino ci voleva proprio tutta la raffinatezza di un’arte squisita e perfetta. De Sanctis dà colpa all’Ariosto di aver dissolto il “mondo del reale”. Prima di lui sia Petrarca che Boccaccio, sia il ghigno di Lorenzo che il riso beffardo di Pulci gli hanno spianato la strada. Quando egli arriva non v’è più nulla di serio in cui credere perché lui respira l’aria di quella società.

Il suo mondo non è Ferrara ma quello dell’Arte.

E qui De Sanctis descrive fortemente le corti italiane in cui era rimasto, delle idealità, solo il nome, non la sostanza, della cavalleria e dell’onore. Per questo la cavalleria era la nostra mitologia: area riservata ai sogni e all’immaginazione.

Ma l’Italia era, nella intelligenza critica, paese adulto e al soprannaturale non credeva più.

Questo mondo è il tessuto del poema. Mondo anarchico, ove la libertà è senza leggi che non siano istinti e i luoghi s’intrecciano in uno scorrere incessante di avventura. Parigi non è il centro: è solo un punto di convegno. Il vero centro è nella penna, nella mente dell’Ariosto.

Ecco allora lo schema. Il fine dell’opera: l’Arte. Il motivo interiore: la cavalleria. E De Sanctis finirà con il terzo paragrafo dello schema: il tono: l’ironia.

Però, prima egli vede quali sono i rapporti tra l’autore e il suo mondo. Il mondo è tutto fantastico, egli lo governa in ogni movenza e ne sta al di sopra. Pure scompare in esso e gli dà la veste di assoluta obiettività e trasparenza, perché non si impegna in nessuna delle cose cantate: gli basta cantarle in quella forma finissima. De Sanctis definisce poi benissimo il suo ingegno, “poroso”.

Nota poi come non suscitano sentimenti neppure i passi più carichi di emozione, perché sopraggiunge un tono diverso, un’altra immagine e riappare il gioco. Cioè l’Ariosto realizza il vero sogno di quella società: la pura forma senza l’impegno di un contenuto reale e serio. Il suo spirito è tranquillo e sgombro. Ecco quello che lo differenzia da Dante. Entrambi ci portano in un altro mondo, ma Dante si portava appresso tutti i palpiti, i fremiti, il sangue, le lacrime o le beatitudini e i sorrisi di questo, mentre Ariosto naviga per il cielo dell’immaginazione con la testa scarica.

E qui l’ultima nota: l’ironia.

Sembra che sotto la bella esteriorità non ci sia nulla. Invece c’è un riso serio e profondo. E’ il riso di chi ama il suo mondo di carta ma sa che è di carta. E’ il riso precursore della scienza, che ha dissolto i miti del medioevo, è il riso dell’adulto, il riso dell’uomo moderno. L’ironia.

E il serio dov’è? Dov’è il vero?

Nell’impegno artistico, nell’amore per l’arte, per quel gioco, per quelle care corbellerie.

Sotto sotto, mi azzardo a rilevare, De Sanctis avrebbe desiderio di togliere all’Ariosto quel posto notevole nelle lettere italiane, che gli ha assegnato, coinvolgendolo nella condanna del secolo. Ma è solo, forse, un’impressione.

 

CROCE

 

La pagina di Croce puntualizza tre problemi: l’Armonia, l’ironia, l’indifferenza.

L’Armonia è una felice definizione del sentimento che animò il poeta nella sua opera. Armonia che, cantando nel suo petto, s’espanse e toccò gli oggetti della creazione artistica e li fece poesia segnando la perdita della loro autonomia, cioè svalutandoli nella loro individualità esasperata; li svalutò grazie agli ammiccanti proemi, alle digressioni, alle osservazioni intercalate, ai paragoni che disciolgono la commozione dell’evento. Questo, con il tono disinvolto e lieve che fu chiamato “aria confidenziale”.

E qui Croce definisce meglio l’ironia ariostesca. De Sanctis l’aveva ridotta a sorriso amabile dell’uomo adulto di fronte ad un mondo che non è più credibile, Croce la innalza a “occhio di Dio che osserva ed ama la sua creazione in ogni minima fibra, ugualmente, e che di essa coglie non i volti individuali ma l’armonia e il ritmo.

Questa ironia non può certo intendersi e anzi si definisce appieno solo quando ad essa si affianchi l’immagine dell’Armonia.

Il terzo punto da chiarire è relativo all’accusa rivolta all’Armonia di essere in sostanza indifferenza e freddezza.

Croce ragiona così: il risultato della visione “ironica” del mondo, dell’atmosfera di Armonia che si respira nel poema è la svalutazione d’ogni ordine di sentimenti, è “fiaccare i sentimenti” e convertire il mondo (tumultuoso e individuale) dello spirito in quello equanime ed oggettivo della natura.”

Questo apparente oggettivismo gli ha meritato l’accusa. Ma è apparente soltanto.

Qui è uno dei nodi della critica crociana.

Ogni sentimento, personaggio, evento è spiritualizzato, cioè soggettivizzato, riscattato all’anonima oggettività, in quanto entra nel mondo dell’Armonia, ne costituisce una parte che va ad armonizzarsi col tutto.

 

IL PASSO CROCIANO E’ IN “ARIOSTO, SHAKESPEARE E CORNEILLE” E IN MOLTE ANTOLOGIE.

 

POSTILLE CROCIANE:

 

-     le ottave hanno la corporeità ora di floride giovinette, ora di efebi... che non si affannano a dar prova della loro destrezza perché essa si rivela in ogni atteggiamento e gesto.

-     non si faccia al Furioso lode di epicità (come il Galileo). All’Ariosto ne manca il sentimento e, se c’è, è sciolto nell’armonia. E neppure gli si faccia lode o accusa circa la coerenza dei caratteri. Ivi son caratteri ove v’è vita intima passionale e contrastante dell’autore. L’Armonia non ha libera energia passionale e non crea caratteri ma disegna figure.

-     due modi per leggere il Furioso

1)   come i Promessi Sposi: libro euritmico, come il Furioso e d’alto contenuto morale (diversamente dal Furioso).

2) come il Faust ove l’alto soffio morale si ritrova nelle singole parti.

Il Furioso si legge seguendo, oltre la particolarità, la continuità (ideale) di un contenuto che si attua in forme sempre nuove.

 - l’Ariosto, spirito afilosofico, non è un Voltaire della Rinascenza. Ha torto De Sanctis a fare del suo riso, quello precursore della scienza.

 

RUSSO

 

Il problema è: Ariosto è religioso o areligioso? Croce lo risolve così: Ariosto era irriverente [la religione da lui è trattata in maniera scherzevole (si vedano la preghiera - patteggiamento di Carlo, il viaggio dell’arcangelo Michele, Astolfo e S. Giovanni Evangelista)] o, che è lo stesso, indifferente, areligioso e afilosofico.

Certo, dice Russo, non vi sono invocazioni ai santi e alla Vergine, come in Pulci o in Tasso, ma non è da ammettere uno scrittore senza religione.

Vediamo, dice Russo, qual è la società dietro l’autore, che fa sempre sintesi a priori con la sua vocazione. E’ una società che si crea le nuove leggi di vita, la nuova moralità, tramite “galatei” e “cortegiani”. Ariosto si affianca a questo coro.

Egli rivela qua e là, nelle satire, una risentita moralità, dà inizio agli esordi morali nel poema, cioè fa dove e come può la sua professione di fede laica, le cui categorie morali son altre che le tradizionali. Cioè: ha un saldo fondamento morale e una filosofia spicciola, che si rispecchia, proprio, forse in quell’armonia cosmica che Croce scoprì.

 

MOMIGLIANO

 

Rileggendo a volo il poema il Momigliano scorge una sommaria divisione in tre parti. La prima, che termina con canto XIII e che, con sfumature diversissime e intrecciata ad avvenimenti disparati, è incentrata sul leit-motiv dell’amore. Infatti ricorrono nella prima parte Angelica e Bradamante, Olimpia, Ginevra, Melissa, tutte oggetto d’amore.

Questa suddivisione poggia su un’affermazione: “la varietà del poema non è né dispersa né capricciosa e ogni canto ha un suo nucleo”. Così, aggiungiamo, anche ogni ciclo di canti. Il secondo ciclo, fino al canto XVIII, ha per leit motiv la guerra, la lotta tra cristiani e saraceni, con Rodomonte nuovo personaggio e le variazioni tenere e idilliche di Lucina e Morandino o della casa del Sonno. Una terza parte, folta di intrecci e deviazioni, mette capo al rinsavimento di Orlando. I motivi maggiori di questi canti sono Rodomonte e Orlando. Ma si affollano motivi d’ogni sorta. La fantasmagoria è immensa e non sempre l’autore tempera la difficoltà della varietà con la sua arte di poeta. In questi venti canti spesso si trovano ottave poco espressive ed  episodi fiacchi. Anche in questa parte, come nella prima, seppure più complessa, l’accento della poesia batte con maggior forza sull’amore, sull’amore come ragione ultima della vita, delizia e tormento dell’anima.

La terza parte per la fisionomia molteplice e l’eccellenza delle azioni centrali si potrebbe indicare come la migliore... ma le tre parti si equilibrano per importanza e per valore poetico. Non si può trascurarne una. Anche questo ci richiama di nuovo alla sapiente costruzione dell’autore.

L’ultima parte tende allo scioglimento finale con la catastrofe dei saraceni e le nozze di Ruggiero e Bradamante. E’ parte compatta ma un po’ grigia.

Giova osservare che ciascuna delle parti segna una fase ben chiara dell’azione fondamentale: a) dispersione dei guerrieri b) concentrazione intorno a Parigi c) nuova dispersione d) nuova concentrazione e risoluzione della guerra.

Lo scheletro del poema, solidissimo, è allora dissimulato sotto una florida ramificazione di episodi. I due perni che, divelti, manderebbero in frantumi il poema, sono, però: Parigi e la battaglia, e la pazzia di Orlando.

 

BORSELLINO

(LIL, Ariosto, p.105 e ss.)

Il segreto vitale dell’esistenza è proprio la ricchezza di desideri, la ricerca di felicità. Angelica appagata da Medoro è cancellata... persino derisa... La condizione dominante dei personaggi del Furioso è quella di essere erranti intellettualmente e fisicamente, di agire e sentire entro un mondo illusorio...

Ariosto sa (p.109) con Erasmo che “eum errorem tollere, est fabulam omnem per turbare “ (Encomium Moriae XXIX), “significa interrompere lo spettacolo della vita”. Anche il Furioso è un elogio della pazzia... La pazzia che Erasmo esalta è il “iucundus quidam mentis error” che libera l’animo dalle ansiose preoccupazioni e lo colma di vario piacere, quella stessa pazzia o errore (parola tematica) che, come dice Ariosto, fa vedere a occhi chiusi il bene e a occhi aperti il male. Questo piacevole errore non va curato...

[Nell’episodio di Astolfo] è evidente (p.138) la concordanza con le proposte antidogmatiche del razionalismo erasmiano, volto a un recupero integralmente umanistico del mondo, anche negli aspetti irrazionali.

[Astolfo dalla luna non porta - diversamente da Dante - alcun messaggio]. La vita sarà quello che sarà e lo spettacolo del mondo non sarà interrotto. Ma come ogni spettacolo, anche questo del mondo ha bisogno di una regìa, che sappia distribuire le parti e armonizzarle. Solo i poeti sanno organizzarlo, il mondo; perciò S. Giovanni pronuncia un’orazione in difesa della poesia: la poesia non è verità [anzi è favola, invenzione e ribaltamento del vero. E’ così sconsacrata l’antica identificazione di poesia e verità e sapienza e celebrato umanisticamente il poeta come creatore d’un macrocosmo alternativo a quello reale.]

 

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