GIACOMO LEOPARDI

CENNI BIOGRAFICI

L'INDOLE

LE IDEE

I CANTI
(PRIMA PARTE)
I CANTI
(SECONDA PARTE)

OPERETTE MORALI

LE ALTRE OPERE
GLI STUDI SUL LEOPARDI
 
HOME PAGE
ALTRE NOTIZIE
 

 

 

Tra il 1816 ed il 1819  il Leopardi vive il periodo più difficile della sua esistenza che lo indurrà finanche a concepire propositi di suicidio: i rapporti con i familiari si sono di gran lunga inacerbiti, dai concittadini si tiene alla larga, ma quello che maggiormente l’affligge, fra i tanti mali fisici e la consapevolezza di avere un corpo deforme, di avere cioè “dispregevolissima tutta quella gran parte dell'uomo, che è la sola a cui guardino  i più”, è una temporanea ma gravissima infermità agli occhi che gli impedisce di ingannare con gli studi il senso di solitudine che l’opprime. In questi anni il suo dolore raggiunge la punta estrema, come testimonia questo accorato lamento rivolto al solito pietoso amico, al Giordani, in una lettera del 26 aprile 1819: «Se in questo momento impazzissi -scrive il Leopardi-, io credo che la mia pazzia sarebbe di seder sempre con gli occhi attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra le ginocchia, senza né ridere né piangere né movermi, altro che per forza, dal luogo dove mi trovassi. Non ho più lena di concepire nessun desiderio, né anche della morte; non perché io la tema in nessun conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene più a consolarmi neppure il dolore. Questa è la prima volta che la noia non solamente mi opprime e stanca, ma mi affanna e lacera come un dolor gravissimo, e sono così spaventato della vanità di tutte le cose, e della condizione degli uomini, morte tutte le passioni, come sono spente nell'animo mio, che ne vo fuori di me, considerando che è un niente anche la mia disperazione».

Le tre conversioni

Questi tre anni sono decisivi non solo perché consolidano e rendono definitiva nel giovane poeta la concezione che la vita è dolore e noia, ma anche perché gli fanno maturare quegli orientamenti di pensiero e di sentimento che lo porteranno a tre specifiche “conversioni”: una di natura letteraria per la quale abbandona gli studi filologici per dedicarsi alla letteratura ed alla poesia; una di natura politica per la quale ripudia le idee conservatrici e reazionarie ed abbraccia le idee patriottiche dei liberali  (la cui più nobile testimonianza è nei canti “All'Italia  e  Sopra il monumento di Dante”, entrambe del 1818); la terza di natura filosofico-religiosa per la quale rinnega la primitiva fede religiosa e fa propri l'ateismo e la concezione meccanicistica degli illuministi.

Il Leopardi si determinò quindi ben presto all’idea, divenuta col tempo incrollabile, che la vita è dolore e che, specie per l’uomo, meglio sarebbe il non venir mai al mondo.

La pagina più spietata  in cui questo convincimento è spiegato in termini esasperati e forse paradossali, ci sembra essere la seguente nota dello “Zibaldone” datata da Bologna, 17-19 aprile 1826:

  «Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esiste è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l'ordine e lo stato, le leggi, l'andamento naturale dell'universo non sono altro che male, nè diretti ad altro che al male. Non v'è altro bene che il non essere: non v'ha altro di buono che quel che non è, le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive...

Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl'individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi.

Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell'anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento... Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un'ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell'albero è infestato da un formicaio, quell'altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e bruciato dall'aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell'altro ha più foglie secche; quest'altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L'una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l'altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica  e  stenta per arrivarvi. In tutto il giardino  tu  non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta...

Lo spettacolo di tanta copia di vita all'entrare in questo giardino ci rallegra l'anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista  e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorevole che un cemeterio), e se questi esseri sentono o, vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l'essere.»

Il pessimismo

A questa drastica definizione del “male di vivere”, da cui discende ovviamente il concetto che la felicità non esiste se non nella vana speranza che sempre gli uomini nutrono per il loro avvenire, il Leopardi pervenne attraverso tre fasi che gli studiosi sogliono definire del dolore personale, del dolore storico e del dolore cosmico.

La prima è rappresentata soprattutto dai cosiddetti piccoli idilli  (“L'infinito”, “La sera del dì di festa”, “Alla luna”, “Il sogno”, “La vita solitaria”), composti tra il 1819 ed il 1821, e dal famosissimo “Il passero solitario”, che, pur essendo stato composto nel 1829 ed essendo comunemente inserito fra i “grandi idilli”, fu in effetti concepito tra il 1819 ed il 1821 e collocato dal poeta stesso insieme con i piccoli idilli: qui il Leopardi canta il proprio dolore e l'ineluttabilità della propria infelicità («...io questo ciel, che sì benigno / appare in vista, a salutar m'affaccio, / e l'antica natura onnipossente, / che mi fece all'affanno. -A te la speme / nego, mi disse, anche la speme; e d'altro / non  brillin gli occhi tuoi se non di pianto.-»), ma non esclude, anzi lo afferma, che gli altri possano essere felici  Tutta vestita a festa / la gioventù del loco / lascia le case, e per le vie si spande; / e mira ed è mirata, e in cor s'allegra. »).

La seconda fase è rappresentata dalle :

Operette morali” del 1824 nelle quali il Leopardi svolge una ironica ma accesa requisitoria contro il Progresso, che invece di favorire l'uomo offrendogli i mezzi di un maggior benessere, lo ha sostanzialmente allontanato dallo stato beato della primitiva ignoranza, durante il quale egli “sentiva senza avvertire” e fantasticava a suo piacimento finché la Ragione non gli svelò il triste vero della sua fatale infelicità; contro la Filosofia, che si affanna a convincere l'uomo di essere una creatura privilegiata mentre invece è la più infelice di tutte proprio perché è in grado di comprendere il suo malessere ed è fortemente desiderosa di piaceri di cui non potrà mai godere; contro la Natura che crea incessantemente nuovi individui per poi distruggerli non senza averli prima tormentati («So bene - così uno sperduto islandese apostrofa la Natura - che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l'avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t'ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, con le tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l'abitarvi non mi noccia? E questo che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura  e la Natura così risponde: «Tu mostri di non aver posto mente che la vita di questo universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna serve continuamente all'altra, ed alla conservazione del mondo; il quale, sempre che cessasse o l'una o l'altra di loro, verrebbe parimenti in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento»; ma a quest'altra obiezione dell'islandese la Natura non dà - perché non vuole o, forse, non sa dare - alcuna risposta: «Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima, dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?»).

La terza fase, quella del dolore cosmico, già abbozzata nelle Operette, si sviluppa nei grandi idilli

A Silvia”, “Le ricordanze”, “La quiete dopo la tempesta”, “Il sabato del villaggio”, “Canto notturno di un pastore errante dell'Asia”), composti tra il 1828 ed il 1830: tutte le creature dell'universo soffrono perché coinvolte nel processo di trasformazione che la Natura è costretta ad operare per garantirsi un'esistenza perenne, ma l'uomo soffre maggiormente per tre motivi precisi: perché è dotato di sensibilità per cui avverte scientemente il proprio dolore; perché ha un irrefrenabile desiderio di felicità che non esiste; infine perché solo all'uomo tocca di raggiungere la punta estrema dell'infelicità, che consiste nella “noia” (“taedium vitae”), cioè nell’assenza totale di ogni sensazione sia di bene che di male: il pastore errante dell'Asia dice alla sua “greggia”:

 

Quando tu siedi
all'ombra, sovra l'erbe,
tu se' queta e contenta;
e gran parte dell'anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
e un fastidio m'ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sì che, sedendo, più che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
-Dimmi: perché giacendo
a bell'agio, ozioso,
s'appaga ogni animale;
me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?-

La concezione della Natura

A questo punto della sua riflessione è chiaro che la Natura, che pure un tempo gli era apparsa benigna, in quanto aveva fornito l'uomo della fantasia e, quindi, della capacità di eludere la conoscenza della triste realtà creandosi miti e illusioni a proprio piacimento (ed era stata colpa dell’uomo e della sua stolta sete di conoscenza se la Ragione aveva poi squarciato il velo che nascondeva la verità), e poi indifferente verso i problemi dell'uomo, destinato anch'esso, come tutte le altre creature, all'incessante processo di “creazione e distruzione” che è indispensabile alla conservazione dell'universo, ora gli appaia matrigna nei con