GIACOMO LEOPARDI

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I Canti sono complessivamente quarantuno e, vivente l’Autore, furono pubblicati in varie circostanze e parzialmente, man mano che venivano composti. L'ultima edizione curata dal Leopardi stesso risale al 1835 e fu opera dell’editore Saverio Starita di Napoli. Questa edizione comprendeva trentanove canti, non essendovi inclusi “La ginestra” e “Il tramonto della luna”, che furono aggiunti  nella prima edizione apparsa dopo la morte del Poeta, a cura di Antonio Ranieri, per i tipi dell’editore Felice Le Monnier di Firenze, nel 1844 (con questa edizione dei Canti leopardiani il Le Monnier inaugurò la sua “Biblioteca Nazionale”).

Tanto l’edizione del '35 che quella del '44 non seguono scrupolosamente la cronologia di composizione dei Canti, ma piuttosto un itinerario ideale voluto dal Leopardi. Ciò pone un problema a chi voglia presentare i Canti con intendimento didattico: se sia più giusto rispettare l’ultima volontà dell’Autore o invece l’itinerario naturale e reale da lui seguito nella composizione delle liriche. E come sempre capita in queste circostanze, i pareri degli studiosi sono discordi. Tanto per fare qualche esempio, ci piace riferire gli opposti pareri di due valorosi studiosi leopardiani, a metà fra il Leopardi e noi: Giuseppe Piergili si rammarica di dover assai spesso “vedere stravolto l’ordine dei Canti, stabilito dall’Autore, e quel frammento di poesia all'apertura del libro, nel posto della canzone All’Italia, alla quale egli diede sempre il primo luogo, offende il senso da noi acquisito”; e di rimando Giovanni Tambara osserva che “quando l’opera, come nel caso nostro, è una raccolta di componimenti lirici che rispecchiano via via lo svolgersi di un sentimento o, se così piace, la storia di un’anima, la loro disposizione cronologica, oltre a rendersi necessaria per i fini didattici, costituisce essa stessa una parte integrante del commento”. Noi non abbiamo il compito di approntare una edizione dei “Canti”, ma certamente quello di presentare ai nostri lettori lo “svolgimento della poesia leopardiana”, e perciò non possiamo esimerci in alcun modo dal seguire la cronologia delle composizioni.

 I primi canti

Nel 1816 il Leopardi compose una cantica in cinque canti in  terzine (sul modello di Dante e del Petrarca dei “Trionfi”), intitolata “Appressamento della Morte”, ma ritenne di dover includere nei Canti solo i primi 76 versi col titolo di “Frammento”: l’opera completa, con questi primi versi rinnovati nel contenuto e nella forma, ne rimase fuori. In questo frammento appare una donna lietissima che va incontro  ad  un’ “amorosa meta”: all’improvviso si scatena un furioso temporale che la respinge indietro e la fa diventar di pietra. In questi versi, che ben fanno da prologo ai Canti, già si afferma il sentimento doloroso della vita e la concezione che la felicità è mera illusione e cessa all’apparir del vero:

Come fuggiste, o belle ore serene!
Dilettevol quaggiù null'altro dura,
né si ferma giammai, se non la spene. 

Nel dicembre del 1817 Gertrude Cassi, cugina del poeta, fu ospite a Recanati di casa Leopardi per alcuni giorni  (dall’11  al 14) e Giacomo se ne invaghì follemente. La notte stessa del giorno della partenza della donna, Giacomo cominciò a scrivere “Il primo amore”, in terzine, col quale intese registrare la “storia” del suo innamoramento, dallo scoppio della passione alla delusione dell’allontanamento ed alle rimembranze di quella dolce quanto angosciosa vicenda:

 

Tornami a mente il dì che la battaglia
d'amor sentii la prima volta, e dissi:
Oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia!
........ ......................................... 
Orbo rimaso allor, mi rannicchiai
palpitando nel letto e, chiusi gli occhi,
strinsi il cor con la mano, e sospirai.
................................................
Vive quel foco ancor, vive l'affetto,
spira nel pensier mio la bella imago,
da cui, se non celeste, altro diletto
giammai non ebbi, e sol di lei m'appago.

 

L’anno dopo la Gertrude tornò a Recanati per una breve  visita e l’amore per lei, mai sopito in Giacomo, tornò fieramente e fece ripiombare il giovane nell’angoscia quando si rinnovò l’amara partenza. In questa occasione il Poeta compose l’elegia “Dove son? dove fui?”, i cui versi 40-54, felicemente ritoccati, introdusse nei Canti ancora come “Frammento”. Il Leopardi racconta la propria disperazione per l'imminente partenza dell'amata e come egli, fuor di sé, invocasse l'arrivo di una tempesta che costringesse la donna a ritardare il viaggio:

 

Io qui vagando al limitare intorno,
invan la pioggia invoco e la tempesta,
acciò che la ritenga al mio soggiorno.

 

Le canzoni patriottiche 

Verso la fine di questo stesso anno 1818 il Leopardi, che ormai aveva maturato la cosiddetta conversione politica e da reazionario e papalino s'era fatto liberale e patriota (in una lettera al Giordani del 21 marzo 1817 aveva affermato: “Mia patria è l'Italia, per la quale io ardo d'amore, ringraziando il cielo d'avermi fatto italiano”), compose le due famose canzoni patriottiche, “All'Italia  e  Sopra il monumento di Dante”, con le quali intese sempre aprire la raccolta dei Canti nelle edizioni da lui curate. Sono canti sinceri e commossi che versano lacrime sulle sciagure della Patria, avvilita ed asservita, ma vibrano anche di fieri impeti di ribellione e di caldi accenti di nobile speranza. In entrambe le canzoni il Poeta lancia i suoi strali contro i Francesi, la cui dominazione era però già cessata da tre anni, anziché contro gli Austriaci, forse perché ai primi aveva da rinfacciare l’oltraggio più indecoroso che mai si fosse fatto all’Italia, quello di strapparle il fiore della gioventù per portarlo a morire in terre straniere per estranei destini; ma anche perché non era prudente in quegli anni chiamare in causa gli Austriaci, come par di capire da una lettera che il Leopardi indirizzò a Pietro Brighenti in data 21 aprile 1820, nella quale si legge: «Quelli che presero in sinistro la mia canzone sul monumento di Dante, fecero male, secondo me, perché le dico espressamente ch'io non la scrissi per dispiacere a queste tali persone; ma parte per amore del puro e semplice vero e odio delle vane parzialità e prevenzione; parte perché, non potendo nominar quelli che queste persone avrebbero voluto, io metteva in scena altri attori come per pretesto e figura». In entrambe le poesia aleggia il senso foscoliano della validità delle memorie patrie, delle glorie passate, per svegliare gli Italiani dal torpore del lungo servaggio: alla nostalgia dell’umanista per le antiche età si accoppiano la sconsolata consapevolezza della decadenza dell’Italia e la non spenta aspirazione verso destini migliori:

O patria mia, vedo le mura e gli archi
e le colonne e i simulacri e l'erme
torri degli avi nostri,
ma la gloria non vedo,
non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
i nostri padri antichi...
............................................
Come cadesti o quando
da tanta altezza in così basso loco?
Nessun pugna per te? non ti difende
nessuno de' tuoi? L'armi, qua l'armi: io solo combatterò, procomberò sol io.
Dammi. o ciel, che sia foco
agl'italici petti il sangue mio.

dirà nella prima canzone; e nella seconda, dopo aver elogiato l’iniziativa di quanti vogliono erigere in Firenze un monumento a Dante, si rivolge allo stesso sommo Poeta  per dirgli di  rallegrarsi  di questo monumento non tanto perché rappresenta un doveroso riconoscimento alla sua fama, ma perché esso può scuotere i sonnacchiosi Italiani:

Ma non per te; per questa ti rallegri
povera patria tua, s'unqua l'esempio
degli avi e de' parenti
ponga ne' figli sonnacchiosi ed egri
tanto valor che un tratto alzino il viso.

Ed aggiunge più avanti:

In eterno perimmo? e il nostro scorno
non ha verun confine?
Io mentre viva andrò sclamando intorno,
volgiti agli avi tuoi, guasto legnaggio;
mira queste ruine
e le carte e le tele e i marmi e i templi;
pensa qual terra premi; e se destarti
non può la luce di cotali esempli,
che stai? levati e parti.
Non si conviene a sì corrotta usanza
questa d'animi eccelsi altrice e scola:
se di codardi è stanza,
meglio l'è rimaner vedova e sola.

Ai critici moderni queste  due canzoni non  piacciono molto  e sono in molti a condividere il giudizio del Pazzaglia, secondo il quale in “All’Italia” (ma l’osservazione può riferirsi anche alla seconda canzone) v’è “il prevalere di un’eloquenza grandiosa, che appare spesso enfatica. L'ispirazione è sincera... ma è tradita da un linguaggio convenzionale, legato a una tradizione retorica ormai consunta, non scavato e ritrovato nel profondo”. Ma i contemporanei furono di ben diverso avviso, tanto che il Giordani potè scrivere all’amico che non aveva “mai (mai mai) veduto né poesia, né cosa alcuna d’ingegno tanto ammirata ed esaltata”.

I piccoli idilli