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  Ugo Foscolo: Biografia

 

Eugenio Donadoni

Biografia
di
Ugo Foscolo

 

 in: L'Opera di Ugo Foscolo, esposta ai giovani da Eugenio Donadoni, Napoli, Francesco Perrella società anonima editrice.

 

         Ugo Foscolo nacque a Zante, una delle isole jonie dipendenti dalla repubblica veneta, il 6 febbraio 1778. Il padre fu Andrea, medico in quella città: la madre, la bella e dolce Diamantina Spathis, già vedova di Giovanni Aquila Serra genovese. Ugo era il maggiore di parecchi fratelli: Rubina, Gian Dionisio, Costantino, Angelo, Giulio: che egli amò tutti paternamente, come teneramente adorò la madre.
         Morto Nicolò, il nonno di Ugo, medico anch'esso e direttore dell'ospedale di Spalato, Andrea gli succedette in quell'ufficio. E della fanciullezza di Ugo, questi di Spalato furono gli anni più felici. Ma nel 1781 Andrea morì. La vedova Foscolo dovette spogliarsi d'ogni suo bene dotale, per soddisfare i creditori del marito. Quindi si recò a Venezia, dove il marito aveva lasciato in sospeso alcuni affari. Ugo e gli altri fratelli ve la raggiunsero verso il 1792. Si stabilirono in una povera casa del sestiere di Castello.
         A Spalato aveva frequentato le scuole del Seminario. A Venezia fu posto alle scuole di S. Cipriano, di cui era provveditore Gaspare Gozzi. È probabile che fosse introdotto assai presto nel salotto della bellissima Isabella Teotochi Albrizzi, che forse il giovinetto amò. Colà conobbe i letterati più insigni che a quel tempo convenivano in Venezia: tra gli altri Ippolito Pindemonte e Melchiorre Cesarotti, che udì, per quanto saltuariamente, anche dalla sua cattedra di Padova. Ugo - che credeva più nel genio che nelle regole - dovette aver cari gli arditi concetti critici e linguistici del Cesarotti: benchè egli simpatizzasse con l'accademia dei Granelleschi, conservatrice della tradizione letteraria, e si dichiarasse obbligato al Dalmistro, uno dei più autorevoli fra quegli accademici. Ma del Cesarotti il malinconico e fantastico giovinetto lesse avidamente l'Ossian. Non però meno lo sedusse l'Alfieri. E una tragedia alla maniera alfieriana, il Tieste, rappresentò il 4 gennaio 1797 al teatro S. Angelo. Piacque tanto, che fu ripetuta per nove sere consecutive. E il giovanissimo autore - che fin allora si era provato in liriche passionali e filosofiche di assai scarso valore - divenne celebre.

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        Ma Ugo credette di ritrovare se stesso, quando gli eserciti del Buonaparte proclamarono la libertà d'Italia e minacciarono di invadere l'antica repubblica. Democratico convinto, il Foscolo, sin dall'anno precedente, aveva scritto un fiero sonetto contro la neutralità di Venezia: e quindi (a scampare da possibili persecuzioni) si era rifugiato a Bologna nella Cispadana, arruolandosi volontario dei cacciatori a cavallo. A Bologna, nel '97, scrisse la sua sonante ode Bonaparte liberatore, offrendola ai cittadini di Reggio, che, primi in Italia, avevano accolto la rivoluzione. Quando, abolito il governo della Serenissima, si fondò in Venezia una municipalità provvisoria, il Foscolo credette suo dovere di ritornare subitamente nella sua patria di elezione. E nei pochi mesi di vita che ebbe la costituzione repubblicana, egli militò costantemente nel partito più avanzato e più puritano e più ingenuo. Fu dei quattro secretari della municipalità, con incarico di redigere i verbali: ma più pienamente espose e difese il suo catechismo di libertà nella Società della pubblica istruzione, ove una volta biasimò come nemico della rivoluzione persino l'Alfieri. Ma spesso anche parlò contro i demagoghi e gli "ipocriti della libertà", peggiori dei tiranni, e ne proponeva lo sterminio, non senza meraviglia del presidente, che non li credeva così terribili. In una delle ultime adunanze caldeggiò una milizia nazionale, con implicita riprovazione delle milizie francesi, spadroneggianti in Venezia. E con l'animo forse già dubitante dei sentimenti liberali del Buonaparte, scrisse l'Ode ai Repubblicani: che è un invito ai cittadini veri a cercare - se la patria sarà oppressa - la libertà nella morte.
         Il trattato di Campoformio, onde Venezia era ceduta all'Austria, fu per il Foscolo, anche più che una delusione, una lezione: di quelle che insegnano molte cose e capitali. Di lì nacque in lui quella diffidenza, se non pur quell'odio, verso il Buonaparte e la democrazia francese, che non lo abbandonò mai più; di lì sgorgò, o trovò conferma, il suo desolato credo pessimistico: che il mondo è dei forti e degli astuti. Di lì sorse il concetto che l'Italia non deve attendere la sua risurrezione che da sè e dalle sue energie: e si iniziò il culto appassionato per le tradizioni della patria, violate tutte nel dispregio che il Bonaparte mostrava per la più antica delle nostre repubbliche.

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         Ceduta Venezia all'Austria, pare che il Foscolo fosse di quelli che proponevano di dare il fuoco alla città, prima che lasciarla invadere dallo straniero. Certo uno spirito libero come il suo non poteva rimanere sotto il nuovo governo. Che se il governo francese aveva così oltraggiata la sua Venezia, la Francia significava pur sempre la libertà, e l'avvenire. Ugo venne a Milano, ove chiese ed ottenne la cittadinanza nella repubblica Cisalpina. Divenne redattore del Monitore italiano, col Custodi e col Gioia: specialmente doveva compilare le relazioni delle sedute del corpo legislativo e quelle del Consiglio dei Seniori, e soggiungervi le sue osservazioni: ufficio da censore più che da pubblicista. Non tacque dei soprusi delle soldatesche repubblicane: non delle pertinaci prepotenze del patriziato: come in una lettera al cittadino Soprausi ministro di polizia, ove deferisce un cocchiere che era per stritolare un vecchio e un bambino, e propone rigide pene, e contro i cocchieri protervi, e contro i padroni delle carrozze. Rivide a Milano il Monti, già conosciuto da lui a Bologna, e poi presentato a Venezia alla Società per l'istruzione pubblica. È probabile s'invaghisse della moglie del Monti, la bella Teresa Pickler. Comunque sia di ciò, al Monti si legò di viva amicizia. E perché il poeta era attaccato dai suoi nemici, che gli ricantavano l'accusa di aver lodato i vecchi governi, Ugo sorse coraggiosamente a difenderlo, nello Esame su l'accuse contro Vincenzo Monti. E da quella demagogia, che il Monti avrebbe poi flagellato nella Mascheroniana, il Foscolo si staccava violento. Né sopportava la mentalità tutta borghese dei nuovi legislatori francesizzanti: onde il magnanimo e italianissimo sonetto contro la soppressione nelle scuole della lingua latina, proposta dal gran Consiglio Cisalpino nel 1798. Il Foscolo era coi pochi, insigni per virtù propria, non per riflesso altrui: coi pochi, già liberi nell'animo, assai prima che la libertà fosse proclamata nelle assemblee. Tipo di questi pochi solitari il vecchio Parini, che il giovine scrittore del Monitore conobbe alla vigilia della morte e venerò; e ne fece l'apoteosi nell'Ortis e nei Sepolcri e nelle lezioni di eloquenza a Pavia.

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         Nell'aprile del 1798 il Monitore, troppo libero e troppo italiano, fu soppresso: incarcerato il Custodi, perseguiti e vigilati il Gioia e il Foscolo: i quali fondarono un giornale anche più arditamente italiano, l'Italico: che il governo lasciò vivere soltanto pochi mesi.
         Necessità di pane trassero allora il Foscolo a Bologna, ove ebbe un modesto impiego cancelleresco alla sezione criminale del Dipartimento del Reno. E a Bologna, dal Marsigli, fece stampare - senza però pubblicarla - la prima parte delle Lettere di Jacopo Ortis: molto diverse dalla edizione definitiva: ove protagonisti sono una vedova, Teresa, una sua figliuoletta, Giovannina, Odoardo, promesso sposo di Teresa, e Jacopo Ortis. Ma, alla notizia che gli Austro-russi invadevano l'Italia, il Foscolo riprese servizio come luogotenente della guardia nazionale di Bologna, che dava la caccia ai contadini insorti; si trovò alla ripresa di Cento, le cui mura scalò per primo, e fu ferito d'un colpo di baionetta in una coscia.
         Intanto il Marsigli - che aveva fretta di terminare e pubblicare il romanzo - con una leggerezza forse unica nella storia degli editori - almeno degli editori di autori viventi — affidò la prosecuzione del romanzo a un Angelo Sassoli bolognese, dottore di leggi e giornalista, che continuò sguajatamente e secondo un piano suo l'Ortis. Così terminato, anzi deformato, il romanzo uscì, nei primi di giugno del '99, con il titolo Ultime lettere di Iacopo Ortis MDCCXCVIII, anno VII. - (Era il titolo che il Foscolo aveva dato alla prima parte). - Ma come, il 30 giugno, gli eserciti austro-russi entrarono in Bologna, le copie già in vendita del libro furono ritirate; e dopo lievi modificazioni, perchè l'opera non avesse a incorrere nella censura della nuova polizia, il romanzo fu rimesso in vendita in due volumetti, col titolo Vera storia di due amanti infelici, ossia ultime lettere di Iacopo Ortis, 1799. E riapparve, nel 1801, al ritorno dei Francesi, nella forma e col semplice titolo primitivo.
         Ma il Foscolo non pensava allora più a continuare l'Ortis: pensava a combattere. Al seguito del generale Macdonald fu alla Trebbia. Negli ultimi del giugno 1799, con le milizie Cisalpine e Francesi, fu a Firenze: e vi conobbe il Niccolini. Forse partecipò alla battaglia di Novi, del 15 agosto. Finalmente riparò in Genova, stretta d'assedio dagli Austro-russi padroni di tutta l'Italia settentrionale, e difesa dal generale Massena. In Genova pubblicò l'ardito Discorso sull'Italia al generale Championnet, pieno di idee che noi diremmo socialistiche: ristampò l'ode al Buonaparte, con una lettera, ove rimprovera all'eroe il traffico di Venezia, e l'ammonisce a non cedere alla tentazione di farsi tiranno. Corteggiò la marchesa Luisa Pallavicino, e scrisse un'ode famosa, quand'ella fu gettata da cavallo, in una sua passeggiata verso Sestri. Nel dicembre gli fu imposto di partir per la Francia: giunse a Nizza, e doveva proseguire per Dijon: ma preferì ed ottenne di ritornare a Genova, dove pure l'epidemia e la fame facevano strage. Fu aggregato al generale Fantuzzi. Si segnalò alla ripresa del forte dei Due fratelli: fu ferito al piede nel vano tentativo di riconquistar la Coronata: quando perì il generale Fantuzzi, nel quale il Foscolo vedeva raffigurato tutto il valore italiano; e ne fece poi eloquente ricordo nella orazione per i Comizii di Lione.
         Arresosi, il 4 giugno, l'eroico presidio, i vinti, com'era nei patti, furono, su navi inglesi, sbarcati ad Antibo. Ma la vittoria di Marengo aveva riaperto loro l'Italia. Il Foscolo corse a Nizza di Monferrato, dov'era il quartiere generale: di lì a Milano: dove venne aggiunto allo stato maggiore del generale Pino. Fu in questi tempi, per ragioni del suo ufficio, in più luoghi: a Lugo, per esterminarvi i briganti: più volte a Bologna, nel novembre 1800 a Firenze. Quivi rivide il Niccolini: e conobbe la giovinetta Isabella Roncioni, destinata sposa ad un marchese Pietro Bartolomei fiorentino, che essa non amava. Era forse la prima volta che si presentava al Foscolo una bellezza pura e verginale. L'adorò. Sentì allora il bisogno di continuare l'Ortis, di trasformarlo. Gli venne alle mani la Vera istoria dei due amanti infelici metà sua, metà del Sassoli, anonima, ma col suo ritratto. Indignato dello strazio fatto dell'opera sua, pubblicò nella Gazzetta di Firenze del 3 gennaio 1801 e nel Monitore Bolognese del 4 un rifiuto di riconoscere per sue le tre edizioni da lui vedute dell'Ortis, "apocrife e adulterate dalla viltà e dalla fame": le aggiunte del Sassoli, che passava per il raccoglitore delle lettere, proclamò un "centone di follie romanzesche, di frasi adulterate e di annotazioni vigliacche". Riprese il romanzo. La Teresa, la vedova Teresa, che forse in origine era stata delineata col pensiero alla Monti o alla Isabella Albrizzi, diventò una giovinetta, che adombrò la Isabella Roncioni. La prima parte del romanzo, così rifatta, comparve con la indicazione Italia, 1801 (rarissima: se ne conserva un esemplare a Weimar, mandato dal Foscolo al Goethe, il cui Werther tanto influì sull'Ortis). Nell'ottobre del 1802 il romanzo fu pubblicato intiero a Milano, dal Genio tipografico: e fu dei più notevoli avvenimenti letterari dei primi anni dell'800.

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         Due anni prima della pubblicazione del romanzo, il Foscolo era ritornato a Milano. Ma le ostilità, in alto, contro il poeta, che non aveva cantato Marengo, incominciarono. Non gli fu conceduto il brevetto di capitano. Non era pagato dei suoi stipendi, o solo in parte e a fatica. In una lettera nobilmente sdegnosa, egli domandò le sue dimissioni. Il Monti e altri amici si interposero. Gli fu concessa la paga di capitano aggiunto, ed affidatagli la compilazione di una parte del codice militare.
         Ma si era fatto troppo mondano. E gli bisognavano danari molti. Giuocava, perdeva. Un amore malefico e reale contrastava in lui l'amore, fatto di fantasia e di memoria, per la Roncioni. Mentre scriveva il romanzo così appassionato e così puro, una donna milanese, famosa per bellezze e per licenza, traduceva per lui in italiano il Werther del Goethe: la contessa Antonietta Fagnani, moglie dei conte Marco Arese, figlia di una marchesa Fagnani, già fatta conoscere al mondo dall'amabile mordacità dello Sterne. Documento del violento amore del Foscolo, c'è tutto un epistolario. Egli, come sempre gli accadde, amò quella donna con serietà, con intensità. Ma la donna era infedele e raggiratrice. I rivali parecchi e indegni. Dopo due anni di passione esaltata, di rancori, di sospetti, di umiliazioni, Ugo si liberò da quella catena.
         Ma il Foscolo non aveva soltanto fatto all'amore in quei due anni. Alle censure contro il Buonaparte, che si leggono nel romanzo, egli preparava gli Italiani con una Orazione a Bonaparte pel Congresso di Lione, pubblicata nel gennaio 1802. A Lione il primo console aveva convocato 450 Italiani, perchè deliberassero intorno alle sorti della Repubblica Cisalpina: che fu poi chiamata Italiana, ed ebbe presidente esso il Buonaparte, e vice-presidente il Melzi. Il governo commise al Foscolo l'orazione: il quale, se, con molto impeto declamatorio, esalta il Buonaparte come "liberatore di popoli" e "fondatore di repubblica", con molto calor di eloquenza accusa i demagoghi, che in nome di lui e della libertà francese malversavano i popoli della Cisalpina. - Dopo l'Ortis, nel 1803, il Foscolo raccoglieva, dedicandoli al Niccolini, i suoi versi, rifiutando tutti gli altri divulgati innanzi, e segnatamente l'ode a Bonaparte liberatore (e probabilmente non per la sola inferiorità artistica) e il Tieste; e ne faceva tre edizioni, l'ultima, la più ricca, comprendente 12 sonetti, l'ode alla Pallavicini, e l'altra all'Amica risanata. Nella quale ode, la deificazione che il poeta fa della donna, la contessa Fagnani, ritornata gloriosamente e freddamente bella, non è senza richiamo alle idee sulla poesia, svolte nella Chioma di Berenice (pubblicata nel luglio del 1803), anch'essa dedicata al Niccolini: traduzione del carme di Callimaco, già voltato in latino da Catullo, accompagnata da un commento perpetuo e preceduta e seguita da considerazioni sulla indole e gli uffici della poesia e, forse con allusione agli adulatori napoleonici, sulle apoteosi, che i poeti sogliono fare dei principi e degli eroi. Opera scritta in meno di tre mesi, composta specialmente contro i pedanti e gli accademici, a dimostrare quanta era dottrina nell'autore o quanto gli era facile acquistarla; ma il pensatore rompe continuo di sotto l'erudito, come già negli scritti dell'abate padovano Angelo Conti, che il Foscolo stimò gran demente, e i cui Saggi qui pare tenesse a modello.

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         Continuando nelle strettezze, il Foscolo pensò di abbandonare la milizia. Chiese di esser mandato segretario di legazione, o a Parigi, o in Toscana. Da Parigi si rispose che il Foscolo era "testa assai calda": che il Console voleva riservata a sé la nomina dei ministri e dei segretari di legazione. E il Foscolo, che si teneva già sicuro di andare almeno in Toscana, non fu nominato: sgradito come pare che fosse al generale Murat, comandante supremo dell'esercito franco-italiano.
         Domandò allora il poeta di prender parte alla spedizione, che il Bonaparte preparava, o mostrava di preparare, contro l'Inghilterra, radunando un esercito sulle coste della Piccardia e della Normandia, nel quale aveva piacere di arruolare Italiani, per "donner de l'orgueil et de la fierté nationale à la jeunesse italienne ", come diceva in una lettera al vice-presidente Melzi; e l'unico merito, rispetto all'Italia, che il Foscolo riconobbe in Napoleone fu appunto di aver data coscienza di sè e disciplina militare agli Italiani, imbelli e fiaccati da secoli di servitù. Non senza difficoltà fu accolta la domanda del poeta.
         La divisione italiana si mosse nel novembre del 1803. Ma solo nell'aprile del 1804 il Foscolo, addetto allo stato maggiore del generale Pino, col grado di capitano, ebbe l'ordine di recarsi a Valenciennes. Partì, molestato dalla indigenza, e col rammarico di sapersi alienato l'animo del Melzi, presso cui, in una lunga lettera rimasta incompiuta, cercò di scolparsi. Confinato a Valenciennes, al comando delle reclute e degli invalidi, chiese il posto di capo-battaglione, che non gli fu conceduto nè allora nè più tardi: giacchè il Murat, divenuto governatore di Parigi, " cuore di leone e testa d'asino", come il Foscolo l'ebbe più tardi a chiamare, non gli volle perdonare la troppo franca italianità dell'orazione pei Comizii di Lione. Il Foscolo si discolpò al Murat per lettera, e gli mandò l'orazione: nessuna risposta: bensì, dall'alto, l'ammonimento a non mandar più lettere chiuse al governatore di Parigi.
         Ogni speranza di avanzamento era finita. Il Foscolo si confortò come spesso, troppo spesso, nell'amore. Ammesso in una famiglia inglese prigioniera a Valenciènnes, vi conobbe la signorina Sofia o forse Fanny Emeryth: dalla quale apprese gli elementi della lingua inglese, e la lasciò con nel grembo una creatura sua, quella Floriana, che apparirà, poi, inaspettata, a confortare, o forse a turbare di rimorsi, gli ultimi anni del poeta.
         Ma tenuto basso dai superiori, il Foscolo tanto più si affezionava agli inferiori. Fu patrocinatore dei rei nei tribunali di guerra; ed è a stampa la difesa che fece del sergente Armani; accusato di tentato assassinio del suo capitano. Finalmente fu mandato a Calais, ispettore delle truppe imbarcate. Di qui mandò al Monti la Epistola, commovente di nostalgia, amara di scetticismo. E quivi in quel facile mondo di ufficiali francesi ed italiani - corteggiò più d'una donna, e più puramente e lungamente delle altre la giovinetta figlia dell'intendente generale Claudio Pètiet.
         Ma l'imperatore sospese l'impresa contro l'Inghilterra, volendo prepararsi alla campagna contro l'Austria, del 1805. Gran parte dell'esercito fu richiamato e il Foscolo fu destinato a Boulogne: ove ingannò l'ozio dell'attesa e sfogò il malumore, traducendo il Viaggio sentimentale dello Sterne, e riassumendo la sua vita, o meglio ritraendo il suo carattere e il suo credo filosofico e morale, nella Notizia di Didimo Chierico.
         Nel gennaio 1806, poichè la spedizione contro d'Inghilterra pareva aggiornata a maggio, il Foscolo ottenne un permesso di quattro mesi, per ritornare a Venezia. Passando da Parigi, ebbe la debolezza di pregare - naturalmente invano - per ottenere le decorazioni della Legion d'onore e della Corona di ferro. Colà visitò anche il giovane Manzoni da lui conosciuto a Milano, e che tra breve avrebbe ricordato, con tanta lode, in una nota dei Sepolcri: e da lui, e più dalla madre contessa Beccaria, ebbe una accoglienza fredda, che lo amareggiò. Era a Milano nel marzo, donde partì per Venezia. Vi rivide la madre, la sorella, l'Isabella Albrizzi Teotochi, più che mai letterata e autorevole fra i belli ingegni letterati.
         Passati i quattro mesi, ritornò, renitente, a Milano. A Padova visitò il Cesarotti, che tra qualche anno gli divenne nemico, quando il Foscolo fu sospettato autore di un mordacissimo epigramma contro la Pronea, poema che e tutto un'apoteosi di Napoleone. A Verona rivide il Pindemonte, che gli lesse saggi della versione dell'Odissea, e forse anche il primo canto di un suo poema sui Cimiteri, rimasto incompiuto dopo la comparsa dei Sepolcri: e potè essere eccitamento al carme foscoliano, se un poema, dove il Foscolo gittò tutto sè stesso, aveva bisogno di eccitamenti od occasioni esteriori.
         A Milano era ministro della guerra il generale Caffarelli, che molto amò il Foscolo e comprese che egli aveva più diritti ad affermarsi come uomo di lettere che obblighi di mostrarsi ufficiale modello. Lo incaricò della traduzione dei Commentarj della battaglia di Marengo del generale Alessandro Berthier, e lo volle a Milano a sua disposizione, senza nessun obbligo di servizio militare.

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         La libertà, almeno parziale, di cui venne a godere, la vicinanza del Monti che gli aveva letto l'Iliade e il Bardo (sul quale scrisse un articolo di molta lode), la oramai sicura coscienza delle proprie energie nella pienezza dell'ingegno e dell'età, rianimarono il Foscolo alla produzione poetica, oltrechè agli studi negli antichi: cose che in lui, il quale leggeva col cuore e trasferendo sempre sè nel passato e il passato nel presente, andavano di pari passo. Meditò molti Inni (uno sui cavalli): distese l'inno alla Nave delle Muse, che è frammento di un poema dal titolo Alceo: compose - ma restò incompiuto - un Sermone, oscurissimo, non meno contro i suoi nemici letterari che contro la strapotenza di Napoleone. Continuò la traduzione dell'Iliade, già incominciata in Francia. E credette giovare agli Italiani col diffondere quella educazione e quegli spiriti militari, che più in essi si desideravano. Onde imprese a illustrare le opere di un grande capitano italiano, Raimondo Montecuccoli, non conosciuto sino allora che in una pessima versione francese: e letto poi nella edizione del Grassi, assai migliore di quella del Foscolo.
         Nel gennaio del 1807 si recò a Brescia, per intendersi col tipografo Bettoni; e a intervalli vi rimase fino al settembre, attratto dall'amenità del luogo, dalla cortesia degli amici e dalla simpatia per la contessa Maria Martinengo Cesaresco. Quivi pubblicò, nei primi d'aprile, coi tipi del Bettoni, i Sepolcri; e negli ultimi l'Esperimento di traduzione dell'Iliade: contenente una lettera dedicatoria al Monti, la versione letterale del primo libro fatta dal Cesarotti, la versione poetica sua, e di fronte quella del Monti: oltre alcune considerazioni del Cesarotti, del Monti e sue sulla difficoltà di tradurre alcuni singoli passi di Omero, come il cenno di Giove.
         Specie tra i giovani, i Sepolcri destarono un'eco di universale ammirazione. Ma un Guillon, ex-prete francese, nel francesizzante Giornale italiano, del 22 gennaio 1807, si levò a deprezzare il carme, di cui non aveva sentita l'alta poesia, ma solo intuito gli spiriti profondamente italiani. E il Foscolo dette subito fuori, ex abundantia cordis una Lettera al Guillon su la sua incompetenza a giudicare i poeti italiani: un colpo di scudiscio o di scopa che fece tacere per sempre i! critico; ma altri, della stessa specie. avrebbero più tardi presa la rivincita.

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         Nel maggio del 1808 uscì il primo volume del Montecuccoli. E la grave e nobile fatica era giovata non poco ad ottenere al Foscolo, in quell'anno, la cattedra di eloquenza all'università di Pavia; per la quale il governo gli conservava anche la metà dello stipendio di capitano: in tutto L. 6600: non poco per quei tempi, anche se poco alle voglie da grande signore del Foscolo, che a Pavia volle mettere su una casa in tutto punto. Vero è che egli sperava di rimanere sempre a Pavia, in un ufficio nel quale avrebbe potuto finalmente affermare tutto se stesso. Poichè l'insegnamento di eloquenza non voleva per lui essere precettistica pedantesca, ma una nuova revisione del prodotto letterario, ricondotto alla sua origine psicologica, alla sua ragione di essere politica e sociale. Ciò che si scorge dalla prolusione, detta il 22 gennaio 1809, Dell'origine e dell'uffizio della letteratura, davanti a un pubblico numerosissimo, presente il Monti, che quattro anni innanzi aveva pur parlato eloquentemente da quella cattedra.
         Ma, prima ancora che il Foscolo pronunziasse quella prolusione, la cattedra, insieme con altre, fu soppressa: conservato ai professori lo stipendio per quell'anno: liberi di fare o no le loro lezioni. Il Foscolo fece le sue lezioni, che durarono fin al 6 di giugno; e molto si adoperò, forse sperò che la cattedra gli fosse conservata. Ma come si sarebbe fatta una eccezione per lui, che non aveva invitato alla prolusione i ministri, e si era rifiutato, nonostante le insistenze anche del Monti, di fare in essa il solito encomio a Napoleone e quello al principe Vicerè?
         Con questo atto il Foscolo rivendicava la libertà delle lettere proclamata dal suo Alfieri e alla quale si mantenne fedele tutta la vita. Tanto più spiace che neppure in quegli anni il poeta sapesse imporsi una condotta più rigidamente morale. Pare che troppo approfittasse della onerosità di amici, come di Ugo Brunetti da Lodi ispettore nell'esercito, e di Paolo Montevecchi, marchigiano, studente di matematica e suo coinquilino a Pavia. Anche, amico di Paolo Bignami, banchiere a Milano, amò la moglie di lui Maddalena, che tentò di uccidersi. per salvarsi dai rimproveri del marito, finalmente indignato. E insieme alla Bignami, o forse subito dopo, amoreggiò con la Francesca Giovio, di Como, figlia del conte Gian Battista, un letterato e patrizio all'antica, che voleva un gran bene al Foscolo. Nell'agosto del 1809 il Foscolo però scriveva alla contessina, pregandola di dimenticarlo e di accettare il marito, che il padre le proponeva: un colonnello, il barone Vautrè.

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