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Eugenio Donadoni
Biografia
di
Ugo Foscolo
in:
L'Opera di Ugo Foscolo, esposta ai giovani da Eugenio Donadoni,
Napoli, Francesco Perrella società anonima editrice.
Ugo
Foscolo nacque a Zante, una delle isole jonie dipendenti dalla repubblica
veneta, il 6 febbraio 1778. Il padre fu Andrea, medico in quella città:
la madre, la bella e dolce Diamantina Spathis, già vedova di Giovanni
Aquila Serra genovese. Ugo era il maggiore di parecchi fratelli: Rubina,
Gian Dionisio, Costantino, Angelo, Giulio: che egli amò tutti
paternamente, come teneramente adorò la madre.
Morto Nicolò, il nonno
di Ugo, medico anch'esso e direttore dell'ospedale di Spalato, Andrea gli
succedette in quell'ufficio. E della fanciullezza di Ugo, questi di
Spalato furono gli anni più felici. Ma nel 1781 Andrea morì. La vedova
Foscolo dovette spogliarsi d'ogni suo bene dotale, per soddisfare i
creditori del marito. Quindi si recò a Venezia, dove il marito aveva
lasciato in sospeso alcuni affari. Ugo e gli altri fratelli ve la
raggiunsero verso il 1792. Si stabilirono in una povera casa del sestiere
di Castello.
A Spalato aveva
frequentato le scuole del Seminario. A Venezia fu posto alle scuole di S.
Cipriano, di cui era provveditore Gaspare Gozzi. È probabile che fosse
introdotto assai presto nel salotto della bellissima Isabella Teotochi
Albrizzi, che forse il giovinetto amò. Colà conobbe i letterati più
insigni che a quel tempo convenivano in Venezia: tra gli altri Ippolito
Pindemonte e Melchiorre Cesarotti, che udì, per quanto saltuariamente,
anche dalla sua cattedra di Padova. Ugo - che credeva più nel genio che
nelle regole - dovette aver cari gli arditi concetti critici e linguistici
del Cesarotti: benchè egli simpatizzasse con l'accademia dei Granelleschi,
conservatrice della tradizione letteraria, e si dichiarasse obbligato al
Dalmistro, uno dei più autorevoli fra quegli accademici. Ma del Cesarotti
il malinconico e fantastico giovinetto lesse avidamente l'Ossian.
Non però meno lo sedusse l'Alfieri. E una tragedia alla maniera
alfieriana, il Tieste, rappresentò il 4 gennaio 1797 al teatro S.
Angelo. Piacque tanto, che fu ripetuta per nove sere consecutive. E il
giovanissimo autore - che fin allora si era provato in liriche passionali
e filosofiche di assai scarso valore - divenne celebre.
* * *
Ma Ugo credette di ritrovare se stesso, quando gli eserciti del Buonaparte
proclamarono la libertà d'Italia e minacciarono di invadere l'antica
repubblica. Democratico convinto, il Foscolo, sin dall'anno precedente,
aveva scritto un fiero sonetto contro la neutralità di Venezia: e quindi
(a scampare da possibili persecuzioni) si era rifugiato a Bologna nella Cispadana,
arruolandosi volontario dei cacciatori a cavallo. A Bologna, nel '97,
scrisse la sua sonante ode Bonaparte liberatore, offrendola ai
cittadini di Reggio, che, primi in Italia, avevano accolto la rivoluzione.
Quando, abolito il governo della Serenissima, si fondò in Venezia una
municipalità provvisoria, il Foscolo credette suo dovere di ritornare
subitamente nella sua patria di elezione. E nei pochi mesi di vita che
ebbe la costituzione repubblicana, egli militò costantemente nel partito
più avanzato e più puritano e più ingenuo. Fu dei quattro secretari
della municipalità, con incarico di redigere i verbali: ma più
pienamente espose e difese il suo catechismo di libertà nella Società
della pubblica istruzione, ove una volta biasimò come nemico della
rivoluzione persino l'Alfieri. Ma spesso anche parlò contro i demagoghi e
gli "ipocriti della libertà", peggiori dei tiranni, e ne
proponeva lo sterminio, non senza meraviglia del presidente, che non li
credeva così terribili. In una delle ultime adunanze caldeggiò una
milizia nazionale, con implicita riprovazione delle milizie francesi,
spadroneggianti in Venezia. E con l'animo forse già dubitante dei
sentimenti liberali del Buonaparte, scrisse l'Ode ai
Repubblicani: che è un invito ai cittadini veri a cercare - se la
patria sarà oppressa - la libertà nella morte.
Il trattato di
Campoformio, onde Venezia era ceduta all'Austria, fu per il Foscolo, anche
più che una delusione, una lezione: di quelle che insegnano molte cose e
capitali. Di lì nacque in lui quella diffidenza, se non pur quell'odio,
verso il Buonaparte e la democrazia francese, che non lo abbandonò mai più;
di lì sgorgò, o trovò conferma, il suo desolato credo pessimistico: che
il mondo è dei forti e degli astuti. Di lì sorse il concetto che
l'Italia non deve attendere la sua risurrezione che da sè e dalle sue
energie: e si iniziò il culto appassionato per le tradizioni della
patria, violate tutte nel dispregio che il Bonaparte mostrava per la più
antica delle nostre repubbliche.
* * *
Ceduta Venezia all'Austria, pare che il Foscolo fosse di quelli che
proponevano di dare il fuoco alla città, prima che lasciarla invadere
dallo straniero. Certo uno spirito libero come il suo non poteva rimanere
sotto il nuovo governo. Che se il governo francese aveva così oltraggiata
la sua Venezia, la Francia significava pur sempre la libertà, e
l'avvenire. Ugo venne a Milano, ove chiese ed ottenne la cittadinanza
nella repubblica Cisalpina. Divenne redattore del Monitore italiano,
col Custodi e col Gioia: specialmente doveva compilare le relazioni delle
sedute del corpo legislativo e quelle del Consiglio dei Seniori, e
soggiungervi le sue osservazioni: ufficio da censore più che da
pubblicista. Non tacque dei soprusi delle soldatesche repubblicane: non
delle pertinaci prepotenze del patriziato: come in una lettera al
cittadino Soprausi ministro di polizia, ove deferisce un cocchiere che era
per stritolare un vecchio e un bambino, e propone rigide pene, e contro i
cocchieri protervi, e contro i padroni delle carrozze. Rivide a Milano il
Monti, già conosciuto da lui a Bologna, e poi presentato a Venezia alla
Società per l'istruzione pubblica. È probabile s'invaghisse della moglie
del Monti, la bella Teresa Pickler. Comunque sia di ciò, al Monti si legò
di viva amicizia. E perché il poeta era attaccato dai suoi nemici, che
gli ricantavano l'accusa di aver lodato i vecchi governi, Ugo sorse
coraggiosamente a difenderlo, nello Esame su l'accuse contro Vincenzo
Monti. E da quella demagogia, che il Monti avrebbe poi flagellato
nella Mascheroniana, il Foscolo si staccava violento. Né
sopportava la mentalità tutta borghese dei nuovi legislatori
francesizzanti: onde il magnanimo e italianissimo sonetto contro la
soppressione nelle scuole della lingua latina, proposta dal gran Consiglio
Cisalpino nel 1798. Il Foscolo era coi pochi, insigni per virtù propria,
non per riflesso altrui: coi pochi, già liberi nell'animo, assai prima
che la libertà fosse proclamata nelle assemblee. Tipo di questi pochi
solitari il vecchio Parini, che il giovine scrittore del Monitore
conobbe alla vigilia della morte e venerò; e ne fece l'apoteosi nell'Ortis
e nei Sepolcri e nelle lezioni di eloquenza a Pavia.
* * *
Nell'aprile del 1798 il Monitore, troppo libero e troppo italiano,
fu soppresso: incarcerato il Custodi, perseguiti e vigilati il Gioia e il
Foscolo: i quali fondarono un giornale anche più arditamente italiano, l'Italico:
che il governo lasciò vivere soltanto pochi mesi.
Necessità di pane
trassero allora il Foscolo a Bologna, ove ebbe un modesto impiego
cancelleresco alla sezione criminale del Dipartimento del Reno. E a
Bologna, dal Marsigli, fece stampare - senza però pubblicarla - la prima
parte delle Lettere di Jacopo Ortis: molto diverse dalla edizione
definitiva: ove protagonisti sono una vedova, Teresa, una sua figliuoletta,
Giovannina, Odoardo, promesso sposo di Teresa, e Jacopo Ortis. Ma, alla
notizia che gli Austro-russi invadevano l'Italia, il Foscolo riprese
servizio come luogotenente della guardia nazionale di Bologna, che dava la
caccia ai contadini insorti; si trovò alla ripresa di Cento, le cui mura
scalò per primo, e fu ferito d'un colpo di baionetta in una coscia.
Intanto il Marsigli - che
aveva fretta di terminare e pubblicare il romanzo - con una leggerezza
forse unica nella storia degli editori - almeno degli editori di autori
viventi — affidò la prosecuzione del romanzo a un Angelo Sassoli
bolognese, dottore di leggi e giornalista, che continuò sguajatamente e
secondo un piano suo l'Ortis. Così terminato, anzi deformato, il
romanzo uscì, nei primi di giugno del '99, con il titolo Ultime
lettere di Iacopo Ortis MDCCXCVIII, anno VII. - (Era il titolo che il
Foscolo aveva dato alla prima parte). - Ma come, il 30 giugno, gli
eserciti austro-russi entrarono in Bologna, le copie già in vendita del
libro furono ritirate; e dopo lievi modificazioni, perchè l'opera non
avesse a incorrere nella censura della nuova polizia, il romanzo fu
rimesso in vendita in due volumetti, col titolo Vera storia di due
amanti infelici, ossia ultime lettere di Iacopo Ortis, 1799. E
riapparve, nel 1801, al ritorno dei Francesi, nella forma e col semplice
titolo primitivo.
Ma il Foscolo non pensava
allora più a continuare l'Ortis: pensava a combattere. Al seguito
del generale Macdonald fu alla Trebbia. Negli ultimi del giugno 1799, con
le milizie Cisalpine e Francesi, fu a Firenze: e vi conobbe il Niccolini.
Forse partecipò alla battaglia di Novi, del 15 agosto. Finalmente riparò
in Genova, stretta d'assedio dagli Austro-russi padroni di tutta l'Italia
settentrionale, e difesa dal generale Massena. In Genova pubblicò
l'ardito Discorso sull'Italia al generale Championnet, pieno di
idee che noi diremmo socialistiche: ristampò l'ode al Buonaparte, con una
lettera, ove rimprovera all'eroe il traffico di Venezia, e l'ammonisce a
non cedere alla tentazione di farsi tiranno. Corteggiò la marchesa Luisa
Pallavicino, e scrisse un'ode famosa, quand'ella fu gettata da cavallo, in
una sua passeggiata verso Sestri. Nel dicembre gli fu imposto di partir
per la Francia: giunse a Nizza, e doveva proseguire per Dijon: ma preferì
ed ottenne di ritornare a Genova, dove pure l'epidemia e la fame facevano
strage. Fu aggregato al generale Fantuzzi. Si segnalò alla ripresa del
forte dei Due fratelli: fu ferito al piede nel vano tentativo di
riconquistar la Coronata: quando perì il generale Fantuzzi, nel
quale il Foscolo vedeva raffigurato tutto il valore italiano; e ne fece
poi eloquente ricordo nella orazione per i Comizii di Lione.
Arresosi, il 4 giugno,
l'eroico presidio, i vinti, com'era nei patti, furono, su navi inglesi,
sbarcati ad Antibo. Ma la vittoria di Marengo aveva riaperto loro
l'Italia. Il Foscolo corse a Nizza di Monferrato, dov'era il quartiere
generale: di lì a Milano: dove venne aggiunto allo stato maggiore del
generale Pino. Fu in questi tempi, per ragioni del suo ufficio, in più
luoghi: a Lugo, per esterminarvi i briganti: più volte a Bologna, nel
novembre 1800 a Firenze. Quivi rivide il Niccolini: e conobbe la
giovinetta Isabella Roncioni, destinata sposa ad un marchese Pietro
Bartolomei fiorentino, che essa non amava. Era forse la prima volta che si
presentava al Foscolo una bellezza pura e verginale. L'adorò. Sentì
allora il bisogno di continuare l'Ortis, di trasformarlo. Gli venne
alle mani la Vera istoria dei due amanti infelici metà sua, metà
del Sassoli, anonima, ma col suo ritratto. Indignato dello strazio fatto
dell'opera sua, pubblicò nella Gazzetta di Firenze del 3 gennaio
1801 e nel Monitore Bolognese del 4 un rifiuto di riconoscere per
sue le tre edizioni da lui vedute dell'Ortis, "apocrife e
adulterate dalla viltà e dalla fame": le aggiunte del Sassoli, che
passava per il raccoglitore delle lettere, proclamò un "centone di
follie romanzesche, di frasi adulterate e di annotazioni vigliacche".
Riprese il romanzo. La Teresa, la vedova Teresa, che forse in origine era
stata delineata col pensiero alla Monti o alla Isabella Albrizzi, diventò
una giovinetta, che adombrò la Isabella Roncioni. La prima parte del
romanzo, così rifatta, comparve con la indicazione Italia, 1801
(rarissima: se ne conserva un esemplare a Weimar, mandato dal Foscolo al
Goethe, il cui Werther tanto influì sull'Ortis). Nell'ottobre del
1802 il romanzo fu pubblicato intiero a Milano, dal Genio tipografico:
e fu dei più notevoli avvenimenti letterari dei primi anni dell'800.
* * *
Due anni prima della pubblicazione del romanzo, il Foscolo era ritornato a
Milano. Ma le ostilità, in alto, contro il poeta, che non aveva cantato
Marengo, incominciarono. Non gli fu conceduto il brevetto di capitano. Non
era pagato dei suoi stipendi, o solo in parte e a fatica. In una lettera
nobilmente sdegnosa, egli domandò le sue dimissioni. Il Monti e altri
amici si interposero. Gli fu concessa la paga di capitano aggiunto, ed
affidatagli la compilazione di una parte del codice militare.
Ma si era fatto troppo
mondano. E gli bisognavano danari molti. Giuocava, perdeva. Un amore
malefico e reale contrastava in lui l'amore, fatto di fantasia e di
memoria, per la Roncioni. Mentre scriveva il romanzo così appassionato e
così puro, una donna milanese, famosa per bellezze e per licenza,
traduceva per lui in italiano il Werther del Goethe: la contessa
Antonietta Fagnani, moglie dei conte Marco Arese, figlia di una marchesa
Fagnani, già fatta conoscere al mondo dall'amabile mordacità dello
Sterne. Documento del violento amore del Foscolo, c'è tutto un
epistolario. Egli, come sempre gli accadde, amò quella donna con serietà,
con intensità. Ma la donna era infedele e raggiratrice. I rivali parecchi
e indegni. Dopo due anni di passione esaltata, di rancori, di sospetti, di
umiliazioni, Ugo si liberò da quella catena.
Ma il Foscolo non aveva
soltanto fatto all'amore in quei due anni. Alle censure contro il
Buonaparte, che si leggono nel romanzo, egli preparava gli Italiani con
una Orazione a Bonaparte pel Congresso di Lione, pubblicata nel
gennaio 1802. A Lione il primo console aveva convocato 450 Italiani, perchè
deliberassero intorno alle sorti della Repubblica Cisalpina: che fu poi
chiamata Italiana, ed ebbe presidente esso il Buonaparte, e
vice-presidente il Melzi. Il governo commise al Foscolo l'orazione: il
quale, se, con molto impeto declamatorio, esalta il Buonaparte come
"liberatore di popoli" e "fondatore di repubblica",
con molto calor di eloquenza accusa i demagoghi, che in nome di lui e
della libertà francese malversavano i popoli della Cisalpina. - Dopo l'Ortis,
nel 1803, il Foscolo raccoglieva, dedicandoli al Niccolini, i suoi versi,
rifiutando tutti gli altri divulgati innanzi, e segnatamente l'ode a
Bonaparte liberatore (e probabilmente non per la sola inferiorità
artistica) e il Tieste; e ne faceva tre edizioni, l'ultima, la più
ricca, comprendente 12 sonetti, l'ode alla Pallavicini, e l'altra all'Amica
risanata. Nella quale ode, la deificazione che il poeta fa della
donna, la contessa Fagnani, ritornata gloriosamente e freddamente bella,
non è senza richiamo alle idee sulla poesia, svolte nella Chioma di
Berenice (pubblicata nel luglio del 1803), anch'essa dedicata al
Niccolini: traduzione del carme di Callimaco, già voltato in latino da
Catullo, accompagnata da un commento perpetuo e preceduta e seguita da
considerazioni sulla indole e gli uffici della poesia e, forse con
allusione agli adulatori napoleonici, sulle apoteosi, che i poeti sogliono
fare dei principi e degli eroi. Opera scritta in meno di tre mesi,
composta specialmente contro i pedanti e gli accademici, a dimostrare
quanta era dottrina nell'autore o quanto gli era facile acquistarla; ma il
pensatore rompe continuo di sotto l'erudito, come già negli scritti
dell'abate padovano Angelo Conti, che il Foscolo stimò gran demente, e i
cui Saggi qui pare tenesse a modello.
* * *
Continuando nelle strettezze, il Foscolo pensò di abbandonare la milizia.
Chiese di esser mandato segretario di legazione, o a Parigi, o in Toscana.
Da Parigi si rispose che il Foscolo era "testa assai calda": che
il Console voleva riservata a sé la nomina dei ministri e dei segretari
di legazione. E il Foscolo, che si teneva già sicuro di andare almeno in
Toscana, non fu nominato: sgradito come pare che fosse al generale Murat,
comandante supremo dell'esercito franco-italiano.
Domandò allora il poeta
di prender parte alla spedizione, che il Bonaparte preparava, o mostrava
di preparare, contro l'Inghilterra, radunando un esercito sulle coste
della Piccardia e della Normandia, nel quale aveva piacere di arruolare
Italiani, per "donner de l'orgueil et de la fierté nationale à la
jeunesse italienne ", come diceva in una lettera al vice-presidente
Melzi; e l'unico merito, rispetto all'Italia, che il Foscolo riconobbe in
Napoleone fu appunto di aver data coscienza di sè e disciplina militare
agli Italiani, imbelli e fiaccati da secoli di servitù. Non senza
difficoltà fu accolta la domanda del poeta.
La divisione italiana si
mosse nel novembre del 1803. Ma solo nell'aprile del 1804 il Foscolo,
addetto allo stato maggiore del generale Pino, col grado di capitano, ebbe
l'ordine di recarsi a Valenciennes. Partì, molestato dalla indigenza, e
col rammarico di sapersi alienato l'animo del Melzi, presso cui, in una
lunga lettera rimasta incompiuta, cercò di scolparsi. Confinato a
Valenciennes, al comando delle reclute e degli invalidi, chiese il posto
di capo-battaglione, che non gli fu conceduto nè allora nè più tardi:
giacchè il Murat, divenuto governatore di Parigi, " cuore di leone e
testa d'asino", come il Foscolo l'ebbe più tardi a chiamare, non gli
volle perdonare la troppo franca italianità dell'orazione pei Comizii di
Lione. Il Foscolo si discolpò al Murat per lettera, e gli mandò
l'orazione: nessuna risposta: bensì, dall'alto, l'ammonimento a non
mandar più lettere chiuse al governatore di Parigi.
Ogni speranza di
avanzamento era finita. Il Foscolo si confortò come spesso, troppo
spesso, nell'amore. Ammesso in una famiglia inglese prigioniera a Valenciènnes,
vi conobbe la signorina Sofia o forse Fanny Emeryth: dalla quale apprese
gli elementi della lingua inglese, e la lasciò con nel grembo una
creatura sua, quella Floriana, che apparirà, poi, inaspettata, a
confortare, o forse a turbare di rimorsi, gli ultimi anni del poeta.
Ma tenuto basso dai
superiori, il Foscolo tanto più si affezionava agli inferiori. Fu
patrocinatore dei rei nei tribunali di guerra; ed è a stampa la difesa
che fece del sergente Armani; accusato di tentato assassinio del suo
capitano. Finalmente fu mandato a Calais, ispettore delle truppe
imbarcate. Di qui mandò al Monti la Epistola, commovente di
nostalgia, amara di scetticismo. E quivi in quel facile mondo di ufficiali
francesi ed italiani - corteggiò più d'una donna, e più puramente e
lungamente delle altre la giovinetta figlia dell'intendente generale
Claudio Pètiet.
Ma l'imperatore sospese
l'impresa contro l'Inghilterra, volendo prepararsi alla campagna contro
l'Austria, del 1805. Gran parte dell'esercito fu richiamato e il Foscolo
fu destinato a Boulogne: ove ingannò l'ozio dell'attesa e sfogò il
malumore, traducendo il Viaggio sentimentale dello Sterne, e
riassumendo la sua vita, o meglio ritraendo il suo carattere e il suo
credo filosofico e morale, nella Notizia di Didimo Chierico.
Nel gennaio 1806, poichè
la spedizione contro d'Inghilterra pareva aggiornata a maggio, il Foscolo
ottenne un permesso di quattro mesi, per ritornare a Venezia. Passando da
Parigi, ebbe la debolezza di pregare - naturalmente invano - per ottenere
le decorazioni della Legion d'onore e della Corona di ferro. Colà visitò
anche il giovane Manzoni da lui conosciuto a Milano, e che tra breve
avrebbe ricordato, con tanta lode, in una nota dei Sepolcri: e da lui, e
più dalla madre contessa Beccaria, ebbe una accoglienza fredda, che lo
amareggiò. Era a Milano nel marzo, donde partì per Venezia. Vi rivide la
madre, la sorella, l'Isabella Albrizzi Teotochi, più che mai letterata e
autorevole fra i belli ingegni letterati.
Passati i quattro mesi,
ritornò, renitente, a Milano. A Padova visitò il Cesarotti, che tra
qualche anno gli divenne nemico, quando il Foscolo fu sospettato autore di
un mordacissimo epigramma contro la Pronea, poema che e tutto
un'apoteosi di Napoleone. A Verona rivide il Pindemonte, che gli lesse
saggi della versione dell'Odissea, e forse anche il primo canto di un suo
poema sui Cimiteri, rimasto incompiuto dopo la comparsa dei Sepolcri: e
potè essere eccitamento al carme foscoliano, se un poema, dove il Foscolo
gittò tutto sè stesso, aveva bisogno di eccitamenti od occasioni
esteriori.
A Milano era ministro
della guerra il generale Caffarelli, che molto amò il Foscolo e comprese
che egli aveva più diritti ad affermarsi come uomo di lettere che
obblighi di mostrarsi ufficiale modello. Lo incaricò della traduzione dei
Commentarj della battaglia di Marengo del generale Alessandro
Berthier, e lo volle a Milano a sua disposizione, senza nessun obbligo di
servizio militare.
* * *
La libertà, almeno parziale, di cui venne a godere, la vicinanza del
Monti che gli aveva letto l'Iliade e il Bardo (sul quale
scrisse un articolo di molta lode), la oramai sicura coscienza delle
proprie energie nella pienezza dell'ingegno e dell'età, rianimarono il
Foscolo alla produzione poetica, oltrechè agli studi negli antichi: cose
che in lui, il quale leggeva col cuore e trasferendo sempre sè nel
passato e il passato nel presente, andavano di pari passo. Meditò molti Inni
(uno sui cavalli): distese l'inno alla Nave delle Muse, che è
frammento di un poema dal titolo Alceo: compose - ma restò
incompiuto - un Sermone, oscurissimo, non meno contro i suoi nemici
letterari che contro la strapotenza di Napoleone. Continuò la traduzione
dell'Iliade, già incominciata in Francia. E credette giovare agli
Italiani col diffondere quella educazione e quegli spiriti militari, che
più in essi si desideravano. Onde imprese a illustrare le opere di un
grande capitano italiano, Raimondo Montecuccoli, non conosciuto sino
allora che in una pessima versione francese: e letto poi nella edizione
del Grassi, assai migliore di quella del Foscolo.
Nel gennaio del 1807 si
recò a Brescia, per intendersi col tipografo Bettoni; e a intervalli vi
rimase fino al settembre, attratto dall'amenità del luogo, dalla cortesia
degli amici e dalla simpatia per la contessa Maria Martinengo Cesaresco.
Quivi pubblicò, nei primi d'aprile, coi tipi del Bettoni, i Sepolcri;
e negli ultimi l'Esperimento di traduzione dell'Iliade:
contenente una lettera dedicatoria al Monti, la versione letterale del
primo libro fatta dal Cesarotti, la versione poetica sua, e di fronte
quella del Monti: oltre alcune considerazioni del Cesarotti, del Monti e
sue sulla difficoltà di tradurre alcuni singoli passi di Omero, come il
cenno di Giove.
Specie tra i giovani, i Sepolcri
destarono un'eco di universale ammirazione. Ma un Guillon, ex-prete
francese, nel francesizzante Giornale italiano, del 22 gennaio
1807, si levò a deprezzare il carme, di cui non aveva sentita l'alta
poesia, ma solo intuito gli spiriti profondamente italiani. E il Foscolo
dette subito fuori, ex abundantia cordis una Lettera al Guillon
su la sua incompetenza a giudicare i poeti italiani: un colpo di
scudiscio o di scopa che fece tacere per sempre i! critico; ma altri,
della stessa specie. avrebbero più tardi presa la rivincita.
* * *
Nel maggio del 1808 uscì il primo volume del Montecuccoli. E la grave e
nobile fatica era giovata non poco ad ottenere al Foscolo, in quell'anno,
la cattedra di eloquenza all'università di Pavia; per la quale il governo
gli conservava anche la metà dello stipendio di capitano: in tutto L.
6600: non poco per quei tempi, anche se poco alle voglie da grande signore
del Foscolo, che a Pavia volle mettere su una casa in tutto punto. Vero è
che egli sperava di rimanere sempre a Pavia, in un ufficio nel quale
avrebbe potuto finalmente affermare tutto se stesso. Poichè
l'insegnamento di eloquenza non voleva per lui essere precettistica
pedantesca, ma una nuova revisione del prodotto letterario, ricondotto
alla sua origine psicologica, alla sua ragione di essere politica e
sociale. Ciò che si scorge dalla prolusione, detta il 22 gennaio 1809, Dell'origine
e dell'uffizio della letteratura, davanti a un pubblico numerosissimo,
presente il Monti, che quattro anni innanzi aveva pur parlato
eloquentemente da quella cattedra.
Ma, prima ancora che il
Foscolo pronunziasse quella prolusione, la cattedra, insieme con altre, fu
soppressa: conservato ai professori lo stipendio per quell'anno: liberi di
fare o no le loro lezioni. Il Foscolo fece le sue lezioni, che durarono
fin al 6 di giugno; e molto si adoperò, forse sperò che la cattedra gli
fosse conservata. Ma come si sarebbe fatta una eccezione per lui, che non
aveva invitato alla prolusione i ministri, e si era rifiutato, nonostante
le insistenze anche del Monti, di fare in essa il solito encomio a
Napoleone e quello al principe Vicerè?
Con questo atto il
Foscolo rivendicava la libertà delle lettere proclamata dal suo Alfieri e
alla quale si mantenne fedele tutta la vita. Tanto più spiace che neppure
in quegli anni il poeta sapesse imporsi una condotta più rigidamente
morale. Pare che troppo approfittasse della onerosità di amici, come di
Ugo Brunetti da Lodi ispettore nell'esercito, e di Paolo Montevecchi,
marchigiano, studente di matematica e suo coinquilino a Pavia. Anche,
amico di Paolo Bignami, banchiere a Milano, amò la moglie di lui
Maddalena, che tentò di uccidersi. per salvarsi dai rimproveri del
marito, finalmente indignato. E insieme alla Bignami, o forse subito dopo,
amoreggiò con la Francesca Giovio, di Como, figlia del conte Gian
Battista, un letterato e patrizio all'antica, che voleva un gran bene al
Foscolo. Nell'agosto del 1809 il Foscolo però scriveva alla contessina,
pregandola di dimenticarlo e di accettare il marito, che il padre le
proponeva: un colonnello, il barone Vautrè.
* * *
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