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Giuseppe Bonghi Introduzione
Il carme Dei Sepolcri fu composto dal Foscolo nel 1806 fra i mesi di luglio e settembre e pubblicato a Brescia ai primi d'aprile del 1807. All'origine vi fu certamente una discussione che il Poeta, durante la breve visita a Venezia del 16-17 giugno 1806, ebbe nel salotto veneziano della Contessa Isabella Teòtochi Albrizzi con l'amico Ippolito Pindemonte, al quale verrà poi dedicato, sul tema delle sepolture, che in quegli anni, sulla spinta delle legislazioni sia della Francia che dell'Austria, stava modificando costumi e modi di vivere, in una società che cominciava a marciare speditamente sulla via del progresso economico-industriale e civile, favorita anche dalla diffusione delle teorie illuministiche. Il Pindemonte nel suo poemetto intitolato Cimiteri aveva espresso la sua contrarietà alla nuova legislazione e alla nuova filosofia, temendo che queste potessero portare a trascurare il culto dei defunti e il Foscolo aveva risposto, invece, con argomentazioni che affermavano la giustezza di quanto stava avvenendo. Ma a una più attenta analisi Foscolo capì che le idee esposte non corrispondevano al suo modo di sentire e alla sua concezione della vita e dei destini dell'umanità. Il Carme può essere diviso in quattro parti e un'introduzione: - 1) vv. - 1-22 - introduzione, in cui è dichiarata la materia generale, l'interesse dei vivi per le tombe: "Il sonno della morte non è certamente meno doloroso in un'urna confortata di pianto. Quando il sole non risplenderà più innanzi al poeta nessun compenso sarà per i giorni perduti una pietra che distingua le sue dalle infinite altre ossa. Persino l'ultima dea, la Speranza, abbandona i sepolcri; e tutto il tempo travolge nella sua notte, non soltanto gli uomini e le loro tombe ma le reliquie stesse della terra e del cielo". - 2) vv. 23-90 - parte prima, le tombe sono la "Celeste corrispondenza d'amorosi sensi" e "sol chi non lascia eredità d'affetti / poca gioia ha dell'urna"; ma una nuova legge impone la sepoltura fuori dai centri abitati, dallo sguardo pietoso degli uomini, e questa ha permesso che senza una tomba sia sepolto Parini, il cui corpo magari giace mischiato a quelli di infami che hanno lasciato la vita sul patibolo: "perché tuttavia l'uomo dovrebbe rinunciare alla benigna illusione del sepolcro, a quelle soavi cure della tomba per le quali ancora sopravvive sotterra? Una celeste dote esiste negli uomini; per questa dote si genera tra i vivi e i trapassati una corrispondenza di amorosi sensi; per questa dote noi viviamo con l'amico estinto e l'estinto con noi, se le sue ossa siano state accolte pietosamente dalla terra nativa, e un sasso conservi il ricordo del nome. Solo per chi non lascia sulla terra eredità di affetti il sepolcro è privo di senso, né alcuna voce dalla tomba può giungere ai viventi. Eppure nuove leggi vorrebbero contendere ai morti la memoria dei nome, e invidiare ai superstiti l'illusione del sepolcro. E senza tomba giace Parini, il sacerdote della Musa Talia, che nella sua povera casa scrisse poesie satiriche come omaggio alla dea, cantando del giovin signore, del moderno e corrotto Sardanapalo, per il quale sola dolcezza era il muggito dei buoi: le sue ceneri avrebbero dovuto essere accolte in una tomba, ornata di alberi ombrosi, tra le mura stesse di Milano, che pure è stata allettatrice di cantori senza dignità e senza virilità, ed ora giace privo di tomba in una fossa comune, nella quale forse il suo capo è insanguinato da quello mozzato di un ladro che ha lasciato sul patibolo la sua vita delittuosa. Invano sulle ossa del Parini la Musa Talia vigila pietosa per custodirle, invano prega che la notte sia larga di rugiada alle reliquie del poeta. Sulle tombe il conforto d’un fiore può sorgere soltanto quando viene onorato dal pianto amoroso e onorato dalla lode degli uomini, facendo sopravvivere l’estinto oltre la morte". - 3) vv. 91-150 - parte seconda: le tombe trovano la loro giustificazione nella storia; dopo aver delineato il significato di illusione e di tomba, Foscolo ne descrive l'origine: l'uomo quando esce dallo stato ferino, comincia a formare gruppi sociali che hanno bisogno, per cementare l'unione fra i singoli componenti, di norme e linguaggio per capirsi: proprio quando istituisce la famiglia, le leggi e il culto dei morti, non solo come elemento di pietà ma soprattutto come elemento eternante l'illusione di una vita che continua al di là della morte nella mente dei vivi, possiamo dire che sia nata la società civile: "Dal giorno in cui l’uomo istituì le nozze, i tribunali e gli altari (famiglia-legge-religione), superò la sua ferina barbarie primitiva, diventando pietoso verso se stesso e gli altri, e cominciò seppellire i corpi delle persone care togliendole all’insulto dell’aria maligna e delle belve feroci, il sepolcro è diventato testimonianza delle imprese passate un altare per i vivi: e non c’era impresa o decisione importante che non avesse avuto religiosamente il rito degli auspici presi sulle tombe degli antenati venerati come custodi e dèi (Lari) della Patria e sacro e rispettato divenne il giuramento prestato sulle loro tombe: questi riti tramandarono per lunghi secoli gli uomini. Né il culto dei morti è stato sempre così orrido e tenebroso come nei riti che furono propri delle età medioevali, ma un luogo d’incontro tra i vivi è stato il sepolcro, allietato da odorosi cipressi e cedri che impregnavano di puri profumi l’aria circostante (così diverso dal lezzo dei cadaveri impregnato d’incenso delle chiese medioevali) protendendo perenne verde e morbide ombre sulle urne mentre vasi preziosi raccoglievano le lacrime votive, mentre i vivi rubavano una faville al sole per rendere meno buia la sotterranea eterna notte, perché gli uomini emanando l’ultimo sospiro alla luce che sfugge cercano il sole. E sulle tombe venivano coltivati viole e amaranti, e i vivi si sedevano a libar latte e a raccontare le proprie pene, mentre intorno si spandeva la fragranza medesima degli Elisi; è una pietosa insania, una (folle) illusione nata dalla pietà che spinge a cercare e onorare i sepolcri, come fanno le britanne vergini, che curano le tombe suburbane. E mentre si crea un mausoleo già da vivo nelle reggie piene di adulazioni, il poeta prega che il destino gli prepari un avello in cui le sue ossa possano riposare una volta che il destino abbia cessato di dar corso alle vendette e l’amicizia possa raccogliere non una eredità di tesori materiali, ma l’esempio di nobili sentimenti e di una poesia libera da cortigiania e adulazione". - 4) vv. 151-225 - parte terza: è il momento della giustificazione civile delle tombe, che devono ispirare gli uomini forti a intraprendere una vita che può essere forte solo seguendo i grandi ideali che i grandi uomini con le loro opere ci hanno tramandato e dei quali le tombe sono la testimonianza sempre viva e presente; Firenze, che ha dato i natali a Dante, e Santa Croce che conserva le tombe dei grandi (Machiavelli, Petrarca, Alfieri, Michelangelo, ecc.) sono la esemplificazione efficace di questo concetto, insieme all'immagine delle tombe innalzate ai prodi di Maratona che evidenziano l'idea della morte come "giusta dispensiera" di fama e gloria per i generosi che hanno versato il sangue per la Patria e per coloro che hanno ben operato. Per questo la tomba appare come un "riposato albergo" nel quale cessa ogni vendetta e comincia per i morti nei vivi un'esistenza più alta e degna di onori: "Le urne dei grandi incitano l’animo dei forti a compiere gloriose imprese e rendono nobile e sacra al pellegrino la terra che le accoglie. Quando il poeta visitò in Santa Croce le tombe degli italiani più grandi, di Machiavelli che ha svelato alle genti di quante lagrime e sangue gronda lo scettro dei regnanti, di Michelangelo che in Roma costruì la cupola di San Pietro, di Galilei che vide sotto la volta celeste ruotare più mondi intorno al sole e aprì la via a Newton le vie del firmamento, dichiarò beata Firenze non solo per le felici aure piene di vita, per i natali e la lingua concessi a Dante Ghibellin fuggiasco e a Petrarca che dolcemente cantò d’amore; ma più beata perché serbava accolte in un tempio le glorie della Patria, le uniche superstiti che mai avrebbero potuto essere invase e conquistate, dal giorno in cui le Alpi non han più formato un baluardo difensivo per l’Italia. Da un tempio in cui splenda sull’Italia e nell’animo di uomini forti e coraggiosi la speranza di gloria, gli italiani avrebbero tratto gli auspici per il loro riscatto. Proprio nel tempio di Santa Croce veniva a meditare l'Alfieri che da quei marmi traeva l'unico conforto e l'unica speranza, dopo aver errato muto sulle sponde dell’Arno mirando i campi e il cielo e nessuna presenza umana gli raddolciva l’animo. Tra le mura di Santa Croce spirano quegli ideali ed ora Alfieri abita grande fra quei grandi. E in quel tempio un Nume, una potenza arcana e misteriosa, parla, il dio della Patria che ha nutrito l’animo e la virtù greca contro i Persiani in Maratona, dove Atene consacrò tombe per i suoi prodi che la salvarono dalla distruzione: il navigante che viaggiava presso l’Eubea nell’ampia oscurità poteva vedere un balenar d’elmi e di spade che cozzavano, e l’igneo vapore delle pire che ardevano i corpi degli eroi e le larve guerriere cercar la battaglia nel frastuono delle armi e del suono delle tube, fra i cavalli scalpitanti che incalzavano sugli elmi dei moribondi, fra i pianti e gli inni e il canto delle Parche. Felice il Pindemonte che nella sua giovinezza veleggiò per i mari della Grecia e udì l'eco delle antiche imprese! E se il timoniere diresse la prua della nave oltre le isole greche, certamente d’antichi fatti udisti risuonare i lidi dell’Ellesponto: ai generosi la morte è giusta dispensiera di gloria, una gloria che nè il senno astuto di un Ulisse né il favore di re come Agamennone avrebbe potuto mai togliere, come Ulisse non aveva potuto conservare le armi di Achille che spettavano di diritto ad Aiace perché l’onda del mare incitata dagli dei infernali le aveva ritolte alla poppa della sua nave per ricondurle sulla tomba dello stesso Aiace che reso folle dallo smacco subito si uccise".
- 5) vv. 226-295 - parte quarta: contiene la "giustificazione poetica": in questi versi troviamo la sostanza dell’esistenza stessa della poesia; si apre con la figura dello stesso Foscolo, che i tempi e il desio d'onore / fan per diversa gente ir fuggitivo (tema dell'esilio) e si chiude con la grandiosa figura di Ettore, che muore per la difesa della patria, eroe sfortunato, così come sfortunato era stato il Foscolo. Uno dei compiti della poesia è proprio quello di celebrare gli eroi e di tramandarne le imprese e la gloria: così la gloria dell'eroe troiano è eternata dal canto di Omero e di Foscolo, insieme alle donne iliache, che sulle tombe degli eroi caduti sciolgono in segno di lutto le loro chiome, alla stirpe di Elettra amata da Giove e ai suoi discendenti Dardano, Ilo e Assaraco. Il carme si chiude col concetto dell'illusione che nel futuro le tombe possano essere onorate da lagrimati affetti per cui men duro sarà il sonno della morte.
Nella tabella sottostante riportiamo i personaggi trattati nel carme
I personaggi
Perfettamente
fusi risultano in questo carme l'elemento romantico e l'elemento
neoclassico, che diventa quasi la naturale sostanza del primo; ancora una
volta la poesia si tuffa nel passato per trovare quella forza che permetta
di superare la dolorosità di un presente che è fatto di incertezze e nel
quale le cose più belle cadono troppo presto. Gli stessi versi sono
costruiti con una armoniosità che rare volte trovano l'uguale nella
storia della poesia italiana. –
Le figure poetiche
Poche opere poetiche trascendono come questa la figura dell'autore, si
innalzano ad un tale significato; eppure l'immagine del poeta si impone
nei versi con tale evidenza immediata. Poche opere poetiche sono legate
come i Sepolcri ad un momento storico determinato, alle speranze di una
nazione in un momento particolare della sua storia; eppure poche sono le
pagine da cui derivi una musica come questa, " che va dal più remoto
passato al più indefinito avvenire ". A questa osservazione
occorre aggiungere che il Foscolo visse in un'epoca: |