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Nel tempo in cui Giunone era adirata a causa di Semele contro la stirpe tebana, come dimostrò più volte, Atamante impazzì a tal punto che, vedendo la moglie camminare con i due figli in braccio, gridò. « Tendiamo le reti, così ch’io possa catturare mentre passa la leonessa e i suoi leoncini »; poi protese i crudeli artigli, afferrando il figlio che si chiamava Learco, e lo roteò per l’aria e lo scagliò con forza contro una roccia;. e la madre si gettò in mare, annegando con l’altro figlio che portava in braccio. E quando la fortuna abbatté la superbia dei Troiani che osava ogni cosa, di modo che il re (Priamo) fu distrutto col suo regno, Ecuba addolorata, infelice e prigioniera, dopo che vide Polissena morta, e del corpo del suo Polidoro sulla riva del mare (in Tracia, dove Polidoro era stato ucciso dal re Polinestore) piena di angoscia si accorse, fuor di senno latrò come un cane; a tal punto il dolore le sconvolse la mente. Il
canto inizia con due esempi attinti al repertorio classico (Ovidio -
Metamorfosi IV, versi 416-562; XIII, versi 399-575): quello della follia dì
Atamante, re di Orcomeno, e quello della follia di Ecuba, moglie di Priamo.
Atamante è oggetto della vendetta di Giunone: sua unica colpa è quella di far
parte del sangue tebano; egli sconta con la sua pazzia e fa pagare con la morte
ai suoi (la moglie Ino e i figli Learco e Melicerta) un male la cui radice non
è né in lui né in alcuno dei suoi antenati, ma nel supremo ordinatore
dell’universo: Giove infatti si era congiunto con Semele, figlia del re tebano
Cadmo. Di qui l’odio di Giunone contro i Tebani, odio che la dea ebbe modo di
manifestare più volte. Dante coglie quanto di tragico e di disumano
caratterizza la concezione che ebbero gli antichi della divinità, nemica dell’uomo,
meschina, vendicativa - l’invidia degli dei è un motivo che ricorre in tutta la
letteratura greca, da Omero ai tragici - mostrandoci in un primo tempo Atamante
trionfalmente, gioioso (la sua esultanza è in quel gridò, posto in principio di
verso e sul quale poggia l’ampia architettura delle due terzine precedenti)
alla vista della leonessa e dei due leoncini (tale .aspetto assumono ai suoi
occhi Ino e i figli), in un secondo tempo la sua trasformazione da uomo in
belva (e poi distese i dispíetati artigli: è lui che il Poeta dota di attributi
ferini, non le sue vittime; solo agli occhi di chi la divinità ha sviato dalla
ragione queste possono mostrarsi nell’aspetto di belve), in furia dissennata (e
rotollo e percosselo ad un sasso), Nella follia di Ecuba, moglie di Priamo,
re di Troia, l’intervento della divinità è meno circostanziato. si
manifesta indirettamente, come volontà impenetrabile (la fortuna), non è
riconducibile a motivi che l’uomo può determinare e sottoporre a giudizio (la
gelosia di Giunone nell’esempio precedente appariva invece come la proiezione
nell’assoluto - in una malvagità senza limiti - di un modo di sentire e di
atteggiarsi consueto e borghese). Colei che volve sua spera (canto VII, verso
96) e permuta, altre la difension di senni umani (canto VII, verso 81), i beni
del mondo, volgendo in basso l’altezza de’ Troian, superba potenza che aveva
perduto il senso delle umane proporzioni (che tutto ardiva: questo ardimento,
proprio a causa del suo oggetto - tutto - si converte in negazione e rovina),
restituisce Ecuba alla condizione dei dolore (verso 16), per poi condurla, alla
vista dei suoi due figli uccisi, al di là di ogni sofferenza umana, là dove la
parola si converte in latrato. Ma non si videro mai furie tebane o troiane slanciarsi con tanta crudeltà contro qualcuno, né colpire animali, né tanto meno esseri umani. come io vidi slanciarsi due anime pallide e nude, che, dando morsi, correvano come fa il maiale quando esce fuori dal porcile, Gli
esempi mitologici di Atamante ed Ecuba, trattati nello stile « alto », proprio
di quei componimenti che per Dante rientravano nel genere « tragico »,
introducono ad una realtà plebea e spregevole, espressa in sintesi, con
inusitato vigore, nel verso 27. I critici hanno variamente tentato di
giustificare o almeno di attenuare, ove ai loro occhi appariva
ingiustificabile. lo scarto tonale fra le sette terzine dell’esordio nelle
quali il tema della follia umana si proietta, filtrato attraverso la lettura
dei classici, in un tempo tanto remoto da apparire fermo, irreale (nel tempo
che Iunone: il tempo delle leggende) e la rappresentazione. d’una brutale
evidenza realistica e svolta nelle forme dello stile « comico », dello
spettacolo che si offre a Dante coll’irrompere, nella putrida calma della
decima bolgia, dei due dannati che falsificarono se stessi nelle forme altrui
(cfr. verso 41). Per il Sanguineti tuttavia questo scarto tonale non deve
essere né giustificato, né attenuato, ma “accolto e conservato nel discorso
esegetico: la frattura che separa le figure di Atamante e di Ecuba dalle due
ombre smorte e nude deve essere percepita come uno scatto indispensabile
all’articolazione del racconto, in tutta la sua drammatica intensità”. Per il
Bigí invece non esiste una reale frattura fra le sette terzine iniziali e le
due seguenti. “Come il fastoso apparato erudito e retorico delle comparazioni
mitiche accoglie in sé espressioni plasticamente energiche... così nella realistica
descrizione delle due ombre smorte e nude si insinuano raffinati moduli
retorici, qual sono non soltanto i parallelismi,dei versi 22 e 24... ma anche
l’allitterazione (smorte... mordendo... modo) e l’annominatio (porco...
porcil), che adornano e riscattano proprio il bestiale paragone.” Giustamente
questo critico osserva che, nel modo in cui sono presentati dal Poeta, i due
esempi mitologici dell’esordio “non rimangono generici ornamenti culturali, ma
assumono il compito di creare alla bestiale pena dei falsificatori di persona
una solenne cornice letteraria, che metta potentemente in rilievo la tragica
serietà di quella pena e renda anzi esplicita in essa la presenza del giudizio
divino”. L’una raggiunse Capocchio, e l’azzannò alla nuca, così che, trascinandolo per terra, gli fece grattare il ventre sul duro terreno. E l’Aretino, che restò lì, tremante di paura, mi disse.
«Quello spiritello è Gianni Schicchi, e va rabbiosamente riducendo in questo
stato gli altri». Gianni
Schicchi dei Cavalcanti, morto prima del 1280, fu protagonista di una beffa
rimasta celebre in Firenze: fingendosi Buoso Donati (un omonímo del Buoso
Donati che appare nel canto XXV, verso 140), dettò testamento In proprio
favore, attribuendosi, fra gli altri beni, la più pregevole delle cavalle di
Buoso. « Oh! » gli dissi, « augurandoti che quell’altro spiritello non ti addenti, non ti dispiaccia dirmi chi esso sia prima che si allontani di qui » Mi rispose: « Quello è l’antico spirito della sciagurata Mirra, che diventò contro ogni lecito amore la amante del padre. Costei giunse a peccare con quello, mutando le proprie sembianze in quelle di un’altra, così come Gianni Schicchi che là cammina, osò, per prendersi la cavalla migliore della mandria, fingersi Buoso Donati, facendo testamento e dando a questo testamento valore, legale ». Al
personaggio della cronaca dei suoi tempi Dante accoppia qui, come altrove (cfr.
ad esempio il canto XVIII e, in questo stesso canto, la presentazione parallela
di maestro Adamo e Sinone) un personaggio dell’antichìtà classica, derivato da
una tradizione poetica illustre. Questi paragoni tra figure appartenenti ad ambiti storici diversissimi sono
tipici, per quanto non esclusivi, della cultura medievale. Nella Commedia essi
sanzionano l’equiparazione, davanti al tribunale dì Dio, ove i soli valori
etici si palesano reali, del grande ingegno (il personaggio mitologico o storico,
nobilitato,’ dall’ornato eloquio degli antichi) al meschino protagonista di
vicende municipali, indegne di assurgere a dignità di storía e di leggenda. E dopo che i due furenti sui quali avevo soffermato lo sguardo, passarono oltre, rivolsi l’attenzione agli altri sventurati. Ne vidi uno, simile a un liuto, se soltanto avesse avuto l’inguine separato dalle gambe. La pesante idropisia, la quale deforma a tal punto le membra a causa degli umori naturali che non riesce ad assimilare, che la faccia non é proporzionata al ventre, gli faceva tenere le labbra aperte come fa il tisico, che per
la sete rivolta un labbro verso il mento e l’altro verso l’alto. Diversamente
da Gianni Schicchi e da Mirra, personaggi tipici, esempi di peccatori la cui
funzione poetica si esaurisce nel proporre al pellegrino le con sequenze dei
propri peccati, maestro Adamo, iI protagonista dell’episodio che ha una vita
interiore ricchissima e complessa. Prima però di Indurlo a parlare - e nelle
sue parole il. trapasso dal patetico al crudele, dalla finezza del sentire al
contendere, grossolano e spietato riveleranno un’estrema mobilità di stati
d’animo - il Poeta ce lo presenta nel suo grottesco, inverosimile aspetto
esteriore, nell’immobilità che appare come la premessa necessaria della sua
degradazione ad oggetto. Ciò che attira l’attenzione di Dante non è infatti in
primo luogo la componente umaria del peccatore che gli sta di fronte (questa
non potrebbe trovare espressione più impersonale: io vidi un...; qui il pronome
in prima persona esprime, la vita, mentre l’’indefinito preannuncia già la perdita qualsiasi individualità), ma il
rapporto che si può istituire tra una parte del corpo di questo dannato ed un oggetto convesso. Il leuto d’altro canto,
se ha nel ventre di maestro Adamo un perfetto riscontro per quel che riguarda
la sua definizione geometrica, si lega, per associazione d’immagini, ad un mondo gioioso e spensierato (il mondo
delle gaie brigate, dei balli dei canti) il quale, contrastando in maniera
stridente con la cupa atmosfera infernale, rende più sinistra e, feroce la
minuziosa indagine del Poeta. l’immagine del leuto si dimostra tuttavia
adeguata soltanto entro i limiti di una prima approssimazione. Ecco quindi che
si fa scrupolo di rettificarla attraverso una proposizione ipotetica, nella
quale compare, forma di perifrasi (l’altro che l’uomo ha forcuto), qualcosa
(l’altro) che potrebbe infirmarne la validità. Dante analizza, esita: ha dì
fronte a sé un oggetto strano, mai visto prima, non suscettibile, di
classificazione. Indubbiamente è ancora un oggetto, ma qualcosa in esso fa
pensare all’uomo. Poi, d’un tratto s’accorge che questo strumento musicale, la
curva perfetta di questo leuto,. alberga in sé un principio di vita. La cosa
inanimata dei verso 49 (un) diventa per questa persona ancora, finzione,
apparenza; il Poeta è ancora in diritto di dubitare: colui che 9li sta di
fronte si trova nell’atteggiamento di un vivo, ma in questo atteggiamento
appare come immobilizzato. Occorre aggiungere che, se la conversione dell’un
del verso 49 nel lui del verso 55 esprime un progressivo avvicinamento
all’umano dell’essere che in un primo tempo si era proposto all’attenzione del
Poeta come, pura geometria, il lui sintatticamente è subordinato in quanto
complemento oggetto, all’astrazione del termine tecnico (la grave idropesi) che
ne definisce, entro limiti precisi e ristretti, le possibilità di vita. « O voi che vi trovate nel mondo del dolore senza alcuna pena, e non ne conosco la ragione », ci disse quello, « osservate e fate attenzione all’infelicità del maestro Adamo: io ebbi, da vivo, tutto ciò che desiderai, e ora misero me! ardentemente desidero una sola goccia di acqua. i piccoli ruscelli che dai verdi colli del Casentino scendono giù nell’Arno, rendendo freschi e umidi i loro alvei, mi sono sempre davanti agli occhi, e non invano, poiché il ricordo che ho di essi m’inaridisce ben più che il male a causa del quale mi assottiglio nel volto. Maestro
(cioè « dottore », uomo provvisto di studi) Adamo da Brescia, o. secondo altri,
da Brest, allora sotto dominio inglese (in documenti dell’epoca questo
personaggio è menzionato come Anglicus o de Anglia), fu ospite nel Casentino
dei conti Guidi dì Romena e, secondo l’Anonimo Fiorentino, fu da essi
incaricato di battere fiorini con il conio di Firenze. Questi risultarono
“buoni di peso ma non di lega, però ch’egli erano di XXI carati dove elli
debbono essere dí XXIII; sì che tre carati v’avea dentro di rame o d’altro
metallo [il carato è la . ventiquattresima parte di un’oncia] ... Di questi
fiorini se ne spesono assai: ora nel fine,
venendo un dì il maestro Adamo a Firenze, spendendo di questi fiorini,
furono conosciuti essere falsati: fu preso e ivi fu arso”; questo avvenne, nel
1281. grottesco ammasso di materia; balza improvvisamente una foga di passioni che riempie di sé tutta la scena”. La
presenza dei due pellegrini, immuni da pena, nel mondo. dell’eterno dolore,
non attira in. modo particolare l’attenzione di questo dannato, ma gli
serve unicamente per mettere in maggior rilievo la propria infelice condizione;
“ad essa chiede di volgere lo sguardo... L’inflessibile, giustizia che mi tormenta trae motivo dal luogo dove io peccai per farmi emettere più frequenti sospiri. Lì si trova Romena, dove falsificai la moneta che porta impressa l’immagine di San Giovanni Battista (il fiorino di Firenze); per questo abbandonai sulla terra il mio corpo bruciato. Ma se mi fosse concesso di vedere qui l’anima malvagia di Guido (Guido Il dei conti Guidi) o di Alessandro o dei loro fratello (Aghinolfo o Ildebrandino), non cambierei tale vista con (tutta l’acqua di) fonte Branda (la celebre fontana senese o, secondo alcuni, una fonte nei pressi di Romena). In questa bolgia si trova già una (di queste anime), se gli spiriti rabbiosi che s’aggirano qui intorno dicono la verità; ma a che mi giova, dal momento che non posso muovermi ? Se io fossi ancora agile soltanto quanto basta per percorrere un’oncia (circa due centimetri e mezzo) in cent’anni, mi sarei messo gia in cammino, cercandolo in questa moltitudine deforme, nonostante che la bolgia abbia una circonferenza di undici miglia, e non sia larga meno di mezzo miglio. Per causa loro mi trovo in tale compagnia: essi mi costrinsero a coniare i fiorini che avevano tre carati di metallo vile. » E io a lui: «Chi sono i due infelici che fumano come d’inverno una mano bagnata, giacendo accostati l’uno all’altro alla tua destra? » Scarsa
appare la partecipazione del Poeta al dolore dei due dannati che si trovano
alla destra di maestro Adamo: il termine tapini appare qui generico
convenzionale, soverchiato dalla cruda evidenza del paragone che ne degrada il
soffrire al livello di un fenomeno naturale. Dal canto suo il termine confini
riporta la figura di maestro Adamo alla primitiva condizione del suo
manifestarsi: egli appare nuovamente, agli occhi di Dante, come una forma
geometrica priva di anima. « Li trovai qui » rispose, « quando caddi in questo precipizio, e da allora non si sono più mossi, né credo che si muoveranno mai più. Una di quelle anime è la bugiarda che accusò Giuseppe;
l’altra è il menzognero Sinone, il greco che ingannò i Troiani: emanano tanto
puzzo di untume bruciato a causa della febbre ardente. » Secondo
quanto narra il libro della Genesi (XXXIX, 7-23), la moglie dell’egiziano
Putifar, non essendo riuscita a piegare alle sue voglie Giuseppe, figlio di
Giacobbe, lo accusò di aver tentato di sedurla. Sinone è il greco che persuase
con l’inganno i Troiani a far entrare nella loro città il cavallo di legno
escogitato da Ulisse,(cfr. canto XXVI, versi 59-60) : con questo stratagemma
l’esercito acheo s’impadronì di Troia e la rase al suolo (Eneide Il, versi
13-558). E uno di loro, che s’ebbe a male forse d’essere menzionato con tanto disonore, gli colpì col pugno il teso ventre. Quello risuonò come fosse stato un tamburo; e maestro Adamo gli colpì la faccia col suo braccio, che non sembrò meno duro (del pugno di Sinone), dicendogli: « Anche se non posso muovermi a causa delle membra che sono pesanti, ho il braccio agile per colpire ». Allora l’altro rispose: «Quando tu .andavi al rogo, non l’avevi tanto pronto (cioè: eri legato): ma così pronto e anche di più l’avevi quando coniavi le monete false ». E l’idropico: « In ciò tu dici il vero; ma non fosti altrettanto verace testimonio quando a Troia ti chiesero la verità (a proposito del cavallo di legno) ». « Se io dissi il falso, ebbene tu hai falsificato il denaro » disse Sinone; « e se io sono qui per una sola colpa, tu, invece (ti trovi qui) per aver commesso più colpe (ogni fiorino, da te falsificato, è una colpa) che qualsiasi altro dannato! » «Ricordati, o spergiuro, del cavallo » rispose quello che aveva la pancia gonfia; « e ti sia motivo d’amarezza che tutti lo sappiano! » « E a te sia motivo d’amarezza la sete che ti screpola la lingua » disse il greco « e gli umori putridi che gonfiano il tuo ventre a tal punto da trasformarlo in una siepe che t’impedisce la vista! » E quello delle monete. « In modo non diverso ti si lacera la bocca a causa della tua malattia (che ti costringe a tenerla spalancata), come al solito; poiché se io ho sete e l’idropisia mi gonfia, tu hai il bruciore e il mai di testa; e per leccare lo specchio in cui Narciso affogò (cioè l’acqua; Narciso è il mitico giovane che si invaghì della propria immagine riflessa in uno stagno e che, volendo afferrarla, annegò), |