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Una stessa lingua (quella di Virgilio) dapprima mi rimproverò, in modo da farmi arrossire, e poi mi ridiede conforto: così sento dIre che la lancia di Achille e di Peleo soleva essere causa in un primo tempo di una offerta dolorosa e in un secondo tempo di una offerta buona. Secondo
Ovidio (Remedia amoris 44-48) la lancia che Achille ebbe dal padre Peleo aveva
la proprietà di rimarginare le ferite da essa stessa prodotte. Nella lirica
medievale questa immagine ricorre di frequente per indicare lo stato d’animo,
duplice e contrastante, dell’amante alla vista della donna amata. Per il
Malagoli fra i termini su cui è basata la elaborata ma vigorosa struttura
metaforica della prima terzina (lingua... morse... tinse) non è possibile
stabilire un rapporto logico: “c’è in Dante solo il gusto dell’espressione
sensibile in se stessa”. Questo giudizio è sostanzialmente giusto: fortissima è
in Dante l’esigenza di tradurre nel concreto anche le esperienze psicologiche o
intellettuali più astratte. Occorre tuttavia ricordare che tra metafora e
metafora corrono in Dante rapporti analogici strettissimi, per cui un gruppo di
immagini raramente presenta un carattere di casualità. Noi voltammo le spalle alla decima bolgia lungo !’argine che la circonda, attraversandolo senza parlare. Qui era meno buio ché di notte e meno chiaro che di giorno, così che la mia vista si spingeva avanti di poco; ma udii un corno dal suono così fragoroso, che avrebbe fatto sembrare debole qualunque tuono, il quale suono, continuando a percorrere il suo cammino, fece rivolgere attentamente la mia vista verso un unico punto in direzione opposta a quella da cui proveniva. Dopo la grave disfatta, quando Carlo Magno perdette i paladini della fede, non suonò in modo così terribile Orlando. In
un’ambigua atmosfera di crepuscolo, che nega alle cose la nettezza dei loro contorni,
pur senza abolirli del tutto (e l’incertezza di questo crepuscolo,
simbolicamente, prelude allo spegnersi totale della vita che caratterizzerà la
condizione, morale e fisica, dei traditori imprigionati nel ghiaccio di
Cocito), il cupo suono di un corno diffonde, come una minaccia, un dolore
lancinante e incontenibile. Il Poeta ripensa all’agonia di Orlando nella gola
di Roncisvalle nei Pirenei (la disfatta ad opera degli Arabi della retroguardia
dell’esercito franco comandata da Orlando ebbe luogo nel 778 d. C.): quando il
paladino, già ferito, si risolse a suonare il corno per chiedere aiuto, la
maggior parte dei suoi compagni era morta. Ecco come la sua morte è descritta
nella Chanson de Roland (versi l753-1767): “Rolando ha messo l’olifante alle
labbra, l’imbocca bene e lo suona con grande forza. Alti sono i poggi e lunga è
la sua voce; trenta gran leghe l’odono rispondere. Carlo l’ode e tutto il suo
esercito... Il conte Rolando con pena ed affanno a gran dolore suona il suo
olifante. Dalla bocca sgorga il chiaro sangue. Le sue tempie si rompono per lo
sforzo. Altissimo è il rimbombo del corno: l’ode Carlo... il duca Namo lo
ascolta, l’ascoltano i Franchi”. Avevo per poco tempo tenuto la testa volta in quella direzione, allorché mi sembrò di scorgere numerose alte torri; per cui dissi: «Maestro, dimmi, che città è questa? » E Virgilio a me: « Poiché tu ti spingi con lo sguardo attraverso il buio troppo da lontano, accade poi che tu confonda nel raffigurarti ciò che vedi. Tu vedrai bene, se arriverai in quel luogo, quanto il senso (della vista) possa errare da lontano; perciò sprona maggiormente te stesso». Poi mi prese affettuosamente per mano, e disse: « Prima che noi giungiamo più innanzi, affinché la cosa ti appaia meno sorprendente, devi sapere che non sono torri, bensì giganti, e che stanno tutti nel pozzo lungo la sua parete circolare dall’ombelico in giù ». Il
verso 33 si contrappone idealmente a quello che, nel canto X. definiva lo
energico ergersi di Farinata (dalla cintola in su tutto ‘l vedrai). La
grandezza dell’eroe ghibellino era anzitutto forza morale (com’avesse l’inferno
in gran dispitto), carattere indomabile che si esprimeva, plasticamente, nel
suo atteggiamento statuario. Quella dei giganti, è bruta materialità, porta in
sé i segni della sconfitta e del disfacimento. Osserva il Chiari: “chiunque
ricorda il canto X dell’Inferno sa che per Farinata la condanna, che lo
imprigiona nell’arca rossa di fuoco, è superata dalla grandezza spirituale e
dalla nobiltà del magnanimo difensore a viso aperto di Firenze, e sente che qui
invece si insiste sul lungo distendersi dei corpi immensi al disopra della ripa
e nella profondità del pozzo, e che l’accenno alla loro mole non è accompagnato
da nessun tratto di libera vigoria, ma anzi è unito e superato dall’accenno
dell’immobilità che impone una forza divina, trionfante di essi, i superbi, in
eterno”. Come quando la nebbia si dissolve, l’occhio gradatamente distingue quello che nasconde il vapore che rende densa l’aria, così, penetrando con lo sguardo nell’aria spessa e buia, a mano a mano che mi avvicinavo all’orlo del pozzo, si dileguava il mio errore e aumentava la mia paura; poiché come il castello di Montereggioni è cinto di torri nella cerchia delle mura che lo circondano, così la sponda che gira intorno al pozzo soverchiavano come torri con metà del loro corpo i mostruosi giganti, che Giove sembra ancora minacciare col tuono dal cielo. Munita
di quattordici torri, la fortezza di Montereggioni era stata costruita dai
Senesi nel 1213 nella Val d’Elsa, per difendersi dagli attacchi dei Fiorentini.
La vigorosa similitudine dei versi 40-41 suggerisce l’idea di una forza
compatta ed impassibile (ma appunto per questo confinata entro i limiti di una
inanimata materialità). La sfida dei figli della terra a Giove (cfr. canto XIV,
versi 52-59) si propone qui non come un’azione cosciente e volta ad un fine, ma
come semplice esistenza dello smisurato, che, in quanto tale, minaccia
l’armonico coesistere delle cose e il regolare svolgersi degli eventi. E io già di uno di costoro intravvedevo il viso, le spalle e il petto e gran parte del ventre, e le due braccia abbandonate lungo i fianchi. Certamente la natura, quando smise di produrre simili esseri viventi, fece cosa molto buona, perché sottrasse a Marte (il dio della guerra) tali esecutori (delle sue volontà). E se la natura non si pente degli elefanti e delle balene. chi riflette con attenzione, la giudica per questo più giusta e più assennata; poiché nei casi in cui lo strumento della ragione si aggiunge alla volontà di nuocere e alla forza fisica, gli uomini non possono opporre alcuna difesa. La faccia di quel gigante mi sembrava lunga, e grossa come la pigna di San Pietro in Roma (questa figura di bronzo ai tempi di Dante si trovava nell’atrio di San Pietro; oggi invece è all’interno del Vaticano, nel cortile detto della, Pigna), e le altre membra erano proporzionate ad essa; così che la sponda, che gli serviva da veste dalla metà del corpo in giù, lasciava vedere tanto della parte superiore del suo corpo, che di arrivargli ai capelli tre abitanti della Frisia (rinomati per la loro alta statura) difficilmente avrebbero potuto vantarsi; poiché ne scorgevo trenta palmi (poco più di sette metri) abbondanti dal collo in giù. Secondo
il Grabher “i paragoni di misure mirerebbero a dare maggiore concretezza” alla
mole del gigante, mentre “in realtà la sminuiscono”. Opportunamente tuttavia il
Mattalia osserva: “La minuziosa precisione dì Dante... nella quale va parzialmente
perduta la misura fantastica che del gigante il lettore aveva ricevuto dai
versi 20-31, ha un suo preciso significato: il Poeta intende mantenere il
gigantesco nei limiti del ragionevolmente pensabile e immaginabile, entro i
limiti, precisando, in cui è possibile immaginare una figura sufficientemente
compatta e distinta nel suo insieme; e fuori dei quali, invece, l’immaginazione
« abborra », abborraccia, tende a sperdersi”. L’esigenza del razionale si
impone con maggior urgenza a Dante nel momento in cui deve affrontare il tema
delle forze e delle dimensioni smisurate che la tradizione attribuiva ai
giganti. «Raphél may améch zabi almì» cominciò a gridare la mostruosa bocca, alla quale non si addicevano discorsi più gradevoli. E Virgilio, rivolgendosi a lui: « Spirito sciocco, accontentati del corno, e sfogati con quello quando ti prende l’ira o un’altra passione! Cerca intorno al tuo collo, e troverai la cinghia che lo tiene legato, o anima ottenebrata, e guardalo come attraversa il tuo petto possente ». Poi mi disse: « Da solo rivela chi egli sia; costui è Nembrot per il cui empio pensiero nel mondo non si usa più un unico linguaggio. Lasciamolo stare e non parliamo inutilmente; perché per lui ogni linguaggio è tale (così: cioè incomprensibile) come per altri è il suo, che non è conosciuto da nessuno. Nel
libro della Genesi (X 8-10; XI, 1-9) Nembrot, nipote di Cam e re di Babilonia,
è detto “forte cacciatore”; di qui è venuta probabilmente a Dante l’idea di
assegnargli il corno col quale esprime la sua rabbia e il suo dolore. La
letteratura patristica considera Nembrot responsabile della costruzione della
torre di Babele. Per questo Dante lo colloca, insieme con i titani che sì
ribellarono a Giove (veduto qui in quanto espressione dell’idea del divino),
tra i guardiani dei nono cerchio e gli fa pronunciare la frase incomprensibile
del verso 67. Questa espressione risulta dalla storpiatura di alcune parole
ebraiche. In merito al suo significato ogni discussione appare superflua dal
momento che Dante stesso ci avverte che la lingua che Nembrot parla non è
conosciuta che da quest’anima confusa. Percorremmo dunque un più lungo cammino, diretti verso sinistra; ed a un tiro di balestra incontrammo l’altro (gigante) molto più crudele nell’aspetto e più grande. Chi fosse l’artefice che lo legò, non so dire, ma egli aveva piegato davanti il braccio sinistro e dietro il braccio destro per mezzo di una catena che lo teneva legato dal collo in giù, in modo che essa gli si avvolgeva intorno per cinque giri nella parte visibile del corpo. «Questo superbo volle sperimentare la sua forza contro l’altissimo Giove » disse Virgilio, « per cui ha una simile ricompensa. Il suo nome è Fialte, e mostrò la sua grande forza al tempo in cui i giganti fecero paura agli dei: ora non muove. più le braccia che egli mosse. » Figlio
di Nettuno, il titano Efialte (o Fialte) fu tra i più accaniti nemici degli
dei. Gli antichi poeti gli attribuivano il tentativo di dare la scalata
all’Olimpo sovrapponendo il monte Ossa al monte Pelio. Questa pazzesca impresa
- che presenta evidenti analogie con il motivo della costruzione della torre di
Babele - determinò l’inizio della guerra fra dei e titani, guerra che si
combatté nella pianura di Flegra e nella quale lo stesso Giove, preso dal
panico, perdette la propria olimpica tradizionale maestà (cfr. canto XIV, versi
57-58). A proposito dei verso 96 acutamente osserva il Sapegno: “La pausa, che
isola il verso, sottolinea il contrasto fra quella superbia smisurata e folle
del titano, e l’impotenza, assoluta a cui l’ha ridotto l’inesorabile vendetta
divina; il presente move, in antitesi con menò, dà risalto all’incolmabile
diversità fra la dimensione umana e storica del tempo e quella divina, in cui
presente ed eterno coincidono”. E io a lui: « Se fosse possibile, vorrei che i miei occhi vedessero l’immane Briareo », Per cui Virgilio rispose: « Tu vedrai qui vicino Anteo, che sa esprimersi e non è legato, il quale ci deporrà sul fondo dell’inferno. Anteo,
figlio di Nettuno e della Terra. non appare incatenato come gli altri giganti
perché non prese parte alla lotta contro gli dei. Viveva, secondo quanto narra
Lucano (Farsaglia IV, 590 sgg.), in una grotta della Libia, e si cibava di
leoni. Fu ucciso da Ercole dopo un lungo e difficile combattimento. Il gigante
infatti riacquistava le sue forze ogni volta che toccava terra. L’eroe greco lo
fece morire tenendolo a lungo sollevato in aria. Quello che tu vuoi vedere é molto più distante, ed è incatenato e ha la stessa corporatura di Fialte, tranne che appare più terribile nel volto ». A
Briareo, definito “immenso” da Stazio . (Tebaide Il, 596), la tradizíone aveva
attribuito cento mani e cinquanta teste. Virgilio, descrivendo questo mostro
(Eneide X, versi 565-568), “premette un dicunt, dicono, si dice; e Dante ha
fermato questa riserva” (Mattalia). Il Sapegno mette in rilievo che “riducendo
Briareo a normale figura di uomo, seppure gigantesco”, Dante ci fornisce
l’esempio di “una mentalità razionalistica, tipicamente medievale, che
s’applicava soltanto ai particolari più inverosimili del dato leggendario,
anziché aggredirlo e rifiutarlo nella tua integrità”. Mai vi fu terremoto tanto violento, che scuotesse una torre con lo stesso impeto con il quale fu pronto a scuotersi Fialte. Allora più che mai ebbi paura della morte, e non vi sarebbe stato bisogno d’altro oltre la paura (perché io morissi), se non avessi veduto le catene. Allora proseguimmo nel nostro cammino, e giungemmo presso Anteo, che sovrastava la parete rocciosa di oltre sei metri, se non si teneva conto della testa. Alle: “alla - secondo l’Anonimo Fiorentino -
è una misura in Fiandra... ch’è intorno di braccia due e mezzo”. Il Poeta ci
fornisce le misure del corpo di Anteo con un procedimento analogo a quello da lui usato per definire, nelle sue reali
dimensioni, la grandezza di Nembrot: “invece di offrire la misura dell’insieme,
Dante la sdoppia ponendo la necessità di una somma di due grandezze di per sé
già eccezionali: l’effetto è la nozione visiva dei gigantesco, ma (e questa è
la funzione dell’indicazione numerica) contenuto nei limiti” (Mattalia). «O tu che nella fortunosa valle che fece Scipione erede di gloria, quando Annibale fu volto in fuga col suo esercito, portasti un giorno innumerevoli leoni catturati, e che se avessi preso parte alla grande guerra dei tuoi fratelli, ancora vi è chi potrebbe credere che avrebbero vinto i giganti (i figli della terra), deponici, e non sdegnare di farlo, dove il freddo congela le acque di Cocito. Non ci fare andare né da Tizio né da Tifo (il primo di questi due giganti fu fulminato da Apollo per aver tentato di sedurre Latona, il secondo da Giove): il mio compagno può darti ciò che nell’inferno è desiderato (la fama tra i vivi); perciò abbassati, e non volgere altrove il viso. Egli ti può ancora dare, gloria nel mondo. poiché egli vive, e attende ancora di vivere a lungo se la grazia divina non lo chiama a sé prima dei tempo. » La
preghiera che Virgilio rivolge ad Anteo “rivela indirettamente - scrive il
Grabber - il carattere di questo e degli altri giganti, toccando ciò che può
stimolare il loro animo: la superbia della forza e l’ombrosa velleità della
fama”. Si insinua, nelle parole del poeta latino, una sottile ironia (ancor par
che si creda ... ), ma, accanto e al di là di questa ironia, il suo discorso ha
un respiro, ampio e solenne. Per il solo fatto di essere vissuto nella valle
che vide il trionfo di Scipione, nel 202 a. C. a Zama, sulle milizie
cartaginesi dì Annibale, Anteo appare a Dante più nobile del suoi compagni, più
degno di essere elogiato, partecipe, sia pure in modo oscuro ed indiretto, del
compiersi provvidenziale di un grande disegno storico. Così parlò Virgilio; e Anteo stese sollecito le mani, di cui Ercole aveva sentito una volta la stretta poderosa, e afferrò la mia guida. Virgilio, quando si sentì afferrare, mi disse: «Avvicinati, così che io possa prenderti»; poi fece in modo che egli ed io formassimo un solo fascio. Come appare la Garisenda (la minore delle due famose torri di Bologna) quando la si guarda dalla parte in cui è inclinata, allorché una nuvola passa sopra ad essa, in direzione contraria alla sua pendenza (sì, che ella incontro penda: sembra allora che la nuvola sia ferma e la torre stia per piombare a terra), così apparve Anteo a me che facevo attenzione per vederlo nell’atto del suo piegarsi, e fu un momento tale che avrei voluto andare per un’altra strada. Ma dolcemente ci depose sul fondo che imprigiona Lucifero e Giuda; né, così chinato, lì indugiò, ma si levò diritto come in una nave l’albero. La
similitudine della Garisenda - nella quale la limpida osservazione di un dato
reale si congiunge ad un senso allucinante di incubo - ripropone, in termini di
movimento e dì miracolo, l’immagine delle torri che aveva fin qui definito
staticamente, come masse minacciose ma immote, i giganti. Il carattere
miracoloso della discesa dei due poeti dall’argine estremo dell’ottavo cerchio
sul fondo del nono è espresso con particolare rilievo - attraverso
un’avversativa e la netta contrapposizione, tonale e ritmica, dei due emistichi
- dal verso 142. Il sovrannaturale si dispiega poi grandiosamente ai nostri
occhi nell’immagine conclusiva del canto, analoga a quella che pone fine alla
discesa di Gerione. |
Copyright © 1999 Luigi De Bellis