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Gli innumerevoli peccatori e le mostruose ferite avevano riempito d’orrore a tal punto i miei occhi, che questi erano desiderosi di piangere; ma Virgilio mi disse: « Che cosa scruti con tanta insistenza ? perché il tuo sguardo si posa ancora laggiù in mezzo alle abiette anime mutilate ? La
descrizione delle mutilazioni inferte dalla giustizia divina ai seminatori di
discordia si è mantenuta, lungo tutto l’arco del canto precedente, sul piano
di una cruda oggettività, volta ad esprimere la recisa condanna del Poeta per
coloro che hanno introdotto, nell’ordinato vivere sociale, i germi
dell’anarchia e della violenza. Soltanto qui, nei versi con cui il canto XXIX
inizia, riaffiora un elemento soggettivo: Dante esprime il proprio dolore, o,
meglio precisando, l’incommensurabilità del proprio dolore (splendido
l’accostamento di inebriate a luci: la fonte di ogni chiarezza,
dell’evidenza sensibile non meno che di quella razionale, è come travolta,
sommersa dalla sofferenza) alla vista dello spettacolo ritratto, in precedenza,
con mano ferma e spietata. Scrive il Sapegno: “La tensione drammatica che, nel
canto XXVIII, sorregge in un atroce crescendo la rappresentazione di sangue e di
piaghe dei seminatori di discordia, s’allenta e si scioglie, nella prima parte
del canto XXIX, in un tono di elegia tormentosa”. Sempre del Sapegno è
l’osservazione che il rimprovero di Virgilio “stimola Dante a sviscerare e
render chiaro dentro di sé il motivo segreto di quella perplessità e di
quell’angoscia, e, chiarendolo, a prender coscienza dei suoi limiti, e cioè a
superarlo”. La vaghezza di piangere - che nel Petrarca esprimerà un
compiacimento dello scrittore per il proprio soffrire, una fuga dal mondo
nell’interiorità dei sentimenti, là dove il mondo, riflettendosi,
perde progressivamente la fermezza dei suoi contorni, per dissolversi in
sogno, incertezza, sconforto (Rime XXXVII, verso 63: “gli occhi ...
di sempre pianger vaghi”, espressione lontanissima, come significato
complessivo, da quella del verso 3 di questo canto, per la presenza
dell’avverbio « sempre») è da Dante considerata colpevole, in quanto
allontana l’uomo dalla chiarezza razionale e dalla operosità (la virtute e
canoscenza di Ulisse). Non hai fatto così nelle altre bolge: se tu pretendi di contare le anime, pensa che la bolgia ha una circonferenza di ventidue miglia. E la luna è già sotto di, noi (agli antipodi di Gerusalemme: sono all’incirca le ore tredici): ormai il tempo concessoci è breve (dovendo i due poeti percorrere l’itinerario infernale in non più di ventiquattro ore ed essendone trascorse diciotto, restano loro soltanto sei ore per concludere il viaggio tra i dannati), e sono da vedere cose diverse da quelle che staì guardando». «Se tu avessi» gli risposi subito io « fatto attenzione al motivo per cui guardavo, forse mi avresti concesso di fermarmi ancora.» Intanto Virgilio si avviava, e io lo seguivo. già dandogli la risposta. e soggiungendo: « Dentro quella bolgia dove io poco fa avevo lo sguardo così fisso, credo che uno spirito della mia famiglia sconti con dolore il peccato che laggiù sì paga così atrocemente ». Disse allora Virgilio: « D’ora in poi non pensare più a lui: poni mente ad altre cose, ed egli resti là; giacché io lo vidi alla base del ponticello mentre ti indicava (agli altri dannati), e proferiva aspre minacce agitando il dito, e udii che lo chiamavano Geri del Bello. Geri
dei Bello, cugino di primo grado del padre di Dante, secondo quanto afferma uno
dei figli del Poeta, Pietro Alighieri, fu ucciso da un membro della famiglia dei
Sacchetti. Un altro dei figli del Poeta, Jacopo, attribuisce la sua morte
violenta al fatto che fosse un seminatore di discordia. L’inimicizia tra i
casati degli Alighieri e dei Sacchetti durò fino al 1342, Allorché, per
iniziativa del Duca d’Atene, fu stipulato in forma ufficiale un patto di
riconciliazione tra le due famiglie. “Dante - osserva il Grablier - non fa
entrare direttamente in scena la figura di Geri e non la fa parlare; eppure le dà
un rilievo potentissimo: con l’atmosfera che le suscita intorno riflettendo su
di essa i fieri e accorati sentimenti del proprio animo; chiudendola nel
disdegno e nel silenzio; facendo sì che soltanto Virgilio l’abbia vista e la
profili su uno sfondo scuro e lontano, dove resta incisa in un gesto: in quel
minacciar forte col dito che evoca un volto, un’anima, un dramma.” Tu eri allora così completamente occupato a guardare il signore di Hautefort (colui che già tenne Altaforte: Bertran de Born), che non volgesti lo sguardo in quella direzione, finché quello (Geri) non se ne fu andato ». « O mio signore, la sua morte violenta che non è stata ancora vendicata » dissi « da alcuno che (per vincolo di sangue) sia partecipe dell’ingiuria subìta, lo riempie di sdegno; per cui egli, come io penso, si allontanò
senza rivolgermi la parola: proprio per ciò mi ha reso più pietoso verso di
lui. » La
vendetta privata era, ai tempi di Dante. un diritto che le leggi riconoscevano e
riservavano alla parentela dell’offeso; questa era considerata consorte, cioè
compartecipe del danno subito. Per il Grablier “Dante resta qui legato al
senso medioevale della consorteria e dei suoi offesi diritti”, laddove
l’interpretazione che il Sapegno dà della “pietà” del Poeta nei
confronti del suo congiunto appare più complessa, sfumata e, in ultima analisi,
più persuasiva. Secondo il punto di vista del Sapegno “la meditazione del
messaggio cristiano e l’alto senso della giustizia e della pace, maturato
attraverso le amare vicende dell’esilio e la susseguente speculazione
politica” avrebbero determinato in Dante, nel periodo in cui scriveva la
Commedia, “un atteggiamento di distacco e di superiorità nei riguardi di
certe superstiti usanze barbariche dei suoi contemporanei”. In particolare.
nell’episodio di Geri del Bello, da nessuna delle parole del Poeta “traspare
il rimpianto di una vendetta mancata; sì, se mai, un senso di alta e pur
distaccata pietà, che comprende e compatisce, ma non è mai ìndulgenza e tanto
meno rinunzia ad un ideale etico superiore”. Così discorremmo finché si giunse in quella parte del ponte dalla quale per la prima volta l’altra bolgia sarebbe visibile, se vi fosse più luce, interamente, fino in fondo. Allorché giungemmo sopra l’ultima fossa circolare di Malebolge, così che i dannati, che vi erano dentro potevano mostrarsi alla nostra vista, mi colpirono terribili lamenti, penetranti come frecce dalle punte armate di dolore; per cui mi coprii le orecchie con le mani. La
decima bolgia è designata, al verso 40, col termine chiostra (luogo chiuso nel
quale sono a loro volta chiuse le anime dei peccatori), parola usata nel
Medioevo anche per indicare il chiostro, il monastero. L’ambiguità di questa
parola legittima l’immagine dei conversi: poiché la bolgia è un chiostro, i
dannati in essa contenuti si determinano sarcasticamente - ma è un sarcasmo
triste, severo, affatto alieno dalla leggiera ironia che alcuni hanno preteso
scorgervi - come frati (i conversi sono i frati laici, non ordinati sacerdoti).
Prendendo lo spunto dall’analisi di due immagini contenute nelle terzine 40 e
43 (quella del conversi e quella dei lamenti... che di pietà ferrati avean li
strali, metafora quest’ultima giudicata da molti barocca, priva di risonanze
liriche, freddamente concettuale, e dal Sapegno, con più precisa determinazione
storica, ricondotta nell’ambito del linguaggio lirico medievale) il Gallardo
osserva: “L’immagine, ricercata, elaborata, è caratteristica di questo
canto, in cui lo stile raffinatissimo, non solo, come già altrove, nell’uso
di vocaboli dotti o plebei, il cui accostamento rende prezioso l’insieme, ma
anche nel giro delle frasi, nella scelta delle immagini, che, anche se ispirate
alla vita comune, sono rappresentate in modo da farne sottolineare il carattere
raro e inconsueto, crea una sorta di distacco tra il Poeta e il mondo di mali
fisici, di morbi ripugnanti e pietosi che egli descrive da artista consapevole
della propria arte”. Quale sarebbe il dolore, se le malattie degli ospedali della Valdichiana e della Maremma e della Sardegna (tre zone particolarmente paludose e malsane) che si manifestano tra luglio e settembre, fossero riunite insieme in una fossa, tale era il dolore in questo luogo, e da esso emanava un fetore simile a quello che suole diffondersi dalle membra putrefatte. Lo
spettacolo dei dannati racchiusi nella decima bolgia è veduto dapprima nel suo
complesso: l’orrore che ne deriva non trova riscontro nella realtà dei mali
della terra. Il Poeta ricorre perciò ad una similitudine analoga a quella con
cui si apre il canto XXVIII, nonché a quella che, nel canto XXIV (versi 85-90),
introduce allo spettacolo delle trasformazioni dei ladrì. Si tratta di
similitudini ipotetiche (anche se, per quella del canto XXIV, questa
designazione non appare convalidata dalla sua struttura sintattica), il cui
termine di raffronto risulta dalla presenza simultanea, in un luogo
relativamente ristretto, dì elementi reali che nella nostra esperienza si
mostrano ampìamente dispersi nel tempo e nello spazio. Per quel che riguarda in
particolare il rapporto che lega la similitudine ìniziale del canto dei
seminatori di discordia a quella che ha come suo termine di raffronto i morbi
contenuti negli ospedali della Valdichiana, della Maremma e della Sardegna,
chiarificatrici appaiono le seguenti osservazioni del Grabher: “Dal carname
dei corpi « smozzicati » (verso 6), eccoci al carname de le marcite membre,
dal «modo sozzo» (XXVIII, 21) al puzzo. Di tormento in tormento la persona
umana è « torta », dilaniata, si disfà, marcisce; e Dante si tormenta anche
lui a cercare nel nostro mondo una realtà che si avvìcini a quella paurosa
realtà e ne dia una qualche immagìne; come ha chiaramente mostrato
all’inizio del canto precedente, dove ha sentito l’insufficienza dell’arte
e dell’umano linguaggio e dove ha chiamato a paragone tutta la gente straziata
durante secoli di guerre”. Noi scendemmo dal lungo ponte (l’insieme degli archi di pietra che attraversano Malebolge) sull’ultimo argine, sempre dalla parte sinistra; e allora la mia vista divenne più chiara giù verso il fondo, là dove l’infallibile giustizia esecutrice dei voleri di Dio punisce i falsari che segna sul suo libro mentre sono ancora ìn vita (qui: sulla terra). Non credo che fosse maggiormente triste vedere in Egina tutto il popolo malato, quando l’aria fu così piena di germi pestilenziali, che morirono tutti gli esseri viventi, fino al piccolo verme, dopodiché gli antichi abitanti, secondo quanto i poeti affermano come cosa certa, rinacquero dalla specie delle formiche, di quanto fosse vedere in quella buia valle soffrire le anime ammucchiate in cumuli orribili. Secondo
quanto narra Ovidio nelle Metamorfosi (VII, versi 523-660), Giunone per
vendicarsi della ninfa Egina amata da Giove, inviò nell’isola in cui la ninfa
dimorava (e che da questa ninfa prese il nome) una pestilenza alla quale il solo
re Eaco sopravvisse. Questi ottenne da Giove che le formiche da lui scorte
mentre si trovava sotto una quercia si trasformassero in uomini. Dante condensa,
in un breve giro di frasi, il diffuso racconto ovidiano, non senza una punta di
lieve ironia verso l’illustre modello al quale si è ispirato (verso 63). Come
ha posto acutamente in rilievo il Malagoli, sia lo spettacolo apparso agli occhi
di Dante dall’alto dell’ultimo argine di Malebolge sia l’evocazione
mitologica della peste di Egina “si sviluppano dall’espressione a veder,
che, posta all’inizio (verso 58) e ripetuta alla fine (verso 65), regge tutto
il complesso periodo... E come nel primo termine di paragone la visività
risalta nell’immagine del cascaron tutti, così nel secondo si concreta nella
rappresentazione degli spiriti languenti per diverse biche”. Alcuni giacevano sul ventre, altri addossati gli uni alle spalle degli altri, altri ancora si trascinavano carponi lungo il miserevole cammino. Procedevamo lentamente senza parlare, osservando e ascoltando i malati, che non potevano alzarsi in piedi. lo vidi due sedere appoggiati l’uno all’altro, come si mette a scaldare teglia contro teglia, macchiati di croste dalla testa ai piedi; e giammai vidi usare la striglia da un garzone di stalla quando è atteso dal suo padrone, né da colui che sta sveglio malvolentieri (e quindi desidera terminare presto il suo lavoro), con la furia con la quale ognuno di essi si grattava spesso con le unghie per il gran tormento del prurito, che non trovava altro sollievo; e le unghie staccavano le croste, come il coltello raschia le squame della scardova (pesce d’acqua dolce) o di altro pesce che le abbia anche più grandi. « O tu che ti togli le croste (come se fossero le maglie di un’armatura: ti dismaglíe) con le unghie » cominciò a dire Virgilio a uno di loro, « e che talvolta le usi come fossero tenaglie, dicci se tra quelli che sono in questo luogo vi è qualche italiano; così possa l’unghia durarti in eterno per il lavoro che compi. » Nell’
“insistente brulicare di immagini scelte con bizzarra fantasia” che
caratterizza la presentazione dei due peccatori che siedono a sé poggiati V.
Rossi ha scorto un “atteggiamento scherzoso” del Poeta nei loro confronti,
il Sapegno uno stato d’animo “altrettanto lontano dallo sdegno come dalla
pietà”, mentre il Grablier ritiene piuttosto che “nella stessa struttura
fonica e ritmica del passo” si rifletta, “in un clima di... allucinante
disperazione”, la gran rabbia del pizzicor che tormenta i due dannati.
Indipendentemente comunque dalla particolare tonalità che ciascuna di questi
critici ha creduto di individuare in queste terzine, occorre rilevare la
funzione degradante, intesa a costringere l’umano entro i termini della bruta
materia, che rivestono i paragoni della tegghia, della stregghia, del coltel,
nonché l’amaro sarcasmo che caratterizza le parole dì Virgilio.
« Noi, che tu qui vedi ambedue così sfigurati, siamo italiani » rispose uno di loro piangendo; « ma tu chi sei che hai chiesto di noi? » E Virgilio disse: « Sono uno che scende giù di cerchio in cerchio con questo essere vivente, e voglio mostrargli l’inferno ». Allora si staccarono l’uno dall’altro (si ruppe lo comun rincalzo: si ruppe il reciproco appoggio); e ciascuno tremando si rivolse a me con altri che avevano ascoltato indirettamente. Dopo
le crude immagini dei versi precedenti, un gerundio - tremando - riconduce i
dannati di questa bolgia entro una dimensione umana, ci fa sentire in loro, al
di là dei peccatori, dei nostri simili. Le metafore fin qui usate dal Poeta
avevano accentuato l’immobilità di questi dannati - quasi fossero cose
inanimate: ricordiamo le biche, i covoni di anime del verso 66 - o una loro
mobilità frenetica, che nulla più aveva di umano (versi 76-84). Qui come
altrove, in presenza di Dante - il vivo che nella immobilità dell’eterno
riconduce il tremore del tempo, il brivido, se non della speranza, dei
rimpianto, degli affetti perduti - la morta gente risuscita per un attimo alla
vita. Nel verso 98 “la meraviglia si risolve tutta in un tremare. Sulla cruda
materialità della scena spicca più netta la vibrazione della vita morale: più
netta e più cupa” (Malagoli). Il buon Virgilio si accostò con tutta la persona a me, dicendo: « Chiedi loro ciò che vuoi »; e io cominciai, dal momento che egli lo volle : « Possa il ricordo di voi non dileguarsi in terra dalla memoria degli uomini, ma possa vivere per molti anni, ditemi chi siete e di quali città: la vostra ripugnante e
dolorosa pena non vi impedisca, per la paura, di rivelarmi i vostri nomi ». Nel
rivolgersi ai due falsari Dante si dimostra più cortese e pietoso di Virgilio:
li tratta come uomini, riesce a scorgere in loro la nostalgia per il mondo dei
vivi (il primo mondo, quel mondo che nessuno dei dannati, per quanto oppresso
dalle pene più atroci, riesce a dimenticare) e il desiderio di sopravvivere nel
ricordo di questi. Il solo dolore che Virgilio aveva invece veduto in essi era
stato il pizzicor, che non ha più soccorso, il solo desiderio attribuito loro
dal poeta latìno era stato quello di poter etternalmente proseguire a lacerarsi
con le unghie. « Io nacqui ad Arezzo, e Albero da Siena » rispose uno « mi fece mandare al rogo; ma la colpa per la quale io morii non è quella che mi conduce in questa bolgia. E’ vero che gli dissi, scherzando: “Io saprei alzarmi in volo per l’aria”; e quello, che era curioso e stolto, volle che gliene insegnassi la maniera; e solo perché non fecì di lui un Dedalo (il mitico costruttore del Labirinto, che attraversò a volo il Mediterraneo, da Creta alla Sicilia; cfr. canto XVII, versi 109-111), mi fece bruciare da un tale che lo teneva in conto di figlio (il vescovo di Siena). Ma nell’ultima delle dieci bolge, per la sofisticazione dei
metalli (alchimia) che praticai in terra, mi condannò Minosse, a cui non è
possibile sbaglìare. »
Il
personaggio che qui parla è Griffolino d’Arezzo, definito da un antico
commentatore, il Bambaglioli, “grande e sottilissimo alchimista”. E dissi a Virgilio: «Vi fu mai gente così fatua come la senese? Di certo non lo è tanto nemmeno quella francese! » Allora l’altro lebbroso, che mi udì, rispose alle mie parole: « Escludi Stricca che seppe spendere con moderazione, < |