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Chi mai potrebbe sia pure in prosa parlare compiutamente del sangue e delle ferite che vidi allora, anche se le descrivesse più volte? Certamente ogni lingua sarebbe inadeguata a causa del nostro linguaggio e del nostro intelletto che hanno poca capacità a contenere fatti così straordinari. Se anche si riunisse tutta la gente che un tempo nella fortunosa terra di Puglia si dolse delle sue ferite per opera dei Romani (Troiani: in quanto discendevano da Enea e dai suoi compagni) e a causa del lungo conflitto che fruttò un così ingente bottino di anelli, come narra Livio, il quale non sbaglia,> con quella che provò dolori di ferite riportate nell’opporsi a Roberto Guiscardo, e con l’altra le cui ossa sono tuttora raccolte a Ceprano, là dove ogni pugliese fu traditore, e là presso Tagliacozzo, dove il vecchio Alardo vinse senza far uso delle armi, e ostentasse chi un suo membro trafitto e chi un suo membro mutilato, non sarebbe possibile uguagliare l’aspetto ripugnante della nona bolgia. L’esordio
di questo canto non si concreta, come quelli di altri canti di Malebolge, in un
quadro amorosamente delineato in tutti i suoi particolari, in una “miniatura”
vivente di vita propria nella desolazione dell’atmosfera infernale. Esso
propone già in maniera esplicita gli elementi fondamentali del canto,
caratterizzato dal “sistematico alternarsi della descrizione delle mutilazioni
infernali alla rievocazione di battaglie e di stragi terrene” (Fubini). Una botte, per il fatto che ha perduto la doga mediana o una delle laterali, non si apre certo così, come io vidi (aprirsi) un dannato, squarciato dal mento all’ano : gli intestini gli pendevano tra le gambe; gli si vedevano le interiora (la corata: polmoni, cuore, fegato, milza) e il lurido involucro che trasforma in sterco ciò che si inghiotte. Acutamente
il Momigliano rileva che la figura del dannato, così come è descritta in queste
due terzine, “sembra, più che un grande mutilato di una delle battaglie
accennate nell’esordio, un disgustoso pezzo anatomico”, mentre il Sanguineti,
dal canto suo, osserva che “ l’esplorazione anatomica, sul motivo del sangue e
delle piaghe, del forato, e del mozzo... giunge a questo sezionare crudele ed
esperto, che si compiace del dettaglio acre e crudo, freddamente avanzato, con
tutta la diligenza di una risentita inchiesta: in tale sentimento di penetrante
analisi è la stessa carica etica del canto, che si fa tecnica e tagliente
parola”. In particolare la funzione delle perifrasi (infin dove si trulla... ‘l
tristo sacco che merda la di quel che si trangugia) “qui non è già quella di equilibrare
la tensione della puntualità linguistica e il suo aspro colore con una qualche
distensione compensatrice, o con attenuata cautela rappresentativa, ma nasce,
proprio all’opposto, da una violenta intenzione degradante”. Mentre avidamente fissavo lo sguardo su di lui, mi guardò, e si aperse il petto con le mani, dicendo: « Vedi dunque come mi lacero! vedi come è straziato Maometto! Davanti a me lagrimando cammina Alì, spaccato nel volto dal mento ai capelli. Maometto
(560-633 d. C.), fondatore della religione isiamica, è posto nella bolgia in
cui sono puniti i seminator di scandalo e di scisma per aver determinato
un’ulteriore divisione religiosa fra i popoli. Una credenza diffusa nel
Medioevo vedeva in lui un cristiano che aveva abiurato alla propria fede e
addirittura un cardinale che aveva aspirato al papato. E tutti gli altri che vedi in questo luogo, furono da vivi seminatori di discordia e di scissione, e perciò sono così spaccati. Qui dietro è un diavolo che ci acconcia in modo tanto crudele, sottoponendo di nuovo ciascuno di questa turba al taglio della sua spada, quando abbiamo fatto il giro della bolgia dolorosa; poiché le ferite sono rimarginate prima che ciascuno di noi gli ritorni davanti. Ma chi sei tu che ti trattieni a guardare sul ponte, forse per ritardare di andare al castigo che è assegnato in giudizio in base a ciò di cui tu stesso ti sei accusato (davanti a Minosse; cfr. canto V, versi 7-8) ? » «Né morte ancora lo ha raggiunto, né lo spinge il peccato » rispose Virgilio « a subire la pena; ma per dargli una conoscenza completa delle pene infernali, io, che sono morto, debbo guidarlo quaggiù attraverso l’inferno di cerchio in cerchio: e ciò è vero com’è vero che ti sto parlando. » Furono più di cento le anime che, quando lo intesero, si fermarono nella bolgia a fissarmi dimenticando, per lo stupore. il loro tormento. « Dì dunque, tu che forse vedrai il sole tra poco, a fra Dolcino, se non vuole seguirmi all’inferno fra breve, di provvedersi di vettovaglie, in modo che l’assedio causato dalla neve non consenta al vescovo di Novara quella vittoria, che non sarebbe facile conquistare in altro modo. » Il
novarese Dolcino Tornielli, appartenente alla setta dei Fratelli Apostolici
fondata dal parmense Gherardo Segarelli, dopo che quest’ultimo fu bruciato vivo
nel 1296, raccolse un gran numero di seguaci nel Trentino e in altre regioni
dell’Italia settentrionale. Anche egli, non diversamente da Maometto, si
vantava profeta, predicando, tra l’altro, l’abolizione della gerarchia
ecclesiastica e la comunanza dei beni e delle donne. Contro di lui fu bandita
da Clemente V una crociata, alla quale parteciparono vescovi, feudatari e
comuni. Costretto ad arrendersi per mancanza di cibo e per la caduta di
un’abbondante nevicata sul monte Zebello (nel Biellese), ove si era rifugiato
con i suoi seguaci, fu condannato a morte e giustiziato nel 1307. Il verso 60
contiene un’allusione alla strenua resistenza che Dolcino e i suoi fedeli
opposero all’esercito dei Crociatí. I critici hanno fornito varie
interpretazioni in merito al consiglio che Maometto prega di trasmettere a
Dolcino. “E’ scherno verso l’aspettato compagno che non potrà rompere la cerchia
di nemici e di ghiaccio, o ingenua solidarietà? Ammirazione per lo strenuo
combattente, o derisione dei suoi sforzi?” si chiede lo Zingarelli, laddove il
VossIer è convinto che la visione di Dolcino assediato e ridotto ad arrendersi
per fame riempia di gioia Maometto. Considerazioni del genere rischiano
tuttavia - in un canto come questo. nel quale l’attenzione del Poeta è in primo
luogo presa dal modo della pena, dall’orrore (che in essa visibilmente si
esprime) per quanto vi è di peccaminoso nell’aizzare all’odio, nel negare,
attraverso la discordia e la anarchia, i principii dell’umano convivere - di
apparire eccessive. Opportunamente scrive in merito il Fubini: “moto e vita
porta nel canto quella improvvisa profezia-consiglio di Maometto, tanto diversa
nella sua vivacità da tutto quel che precede e sulla quale vano sarà al solito
voler psicologicamente sottilizzare, discutendo sulla opportuni. tà di un
consiglio effettivamente inutile o su di una pretesa malizia di quel dannato,
per non sentirvi altro che una commossa partecipazione del Poeta a un
avvenimento prossimo al tempo in cui scriveva, la commozione per quella difesa
disperata di fra Dolcino (che non implica un’approvazione dell’opera
dell’eretico) “. Dopo che aveva sollevato uno dei piedi per andarsene, Maornetto mi disse queste parole; quindi lo riappoggiò in terra per allontanarsi. Anche
l’atteggiamento di Maometto, il quale parla tenendo un piede sospeso e lo
poggia a terra solo dopo aver terminato la sua profezia, è stato variamente
interpretato. V. Rossi lo ha definito un atteggiamento da “ballerino” (metafora
in verità non troppo indovinata tenuto conto di quelli che sono gli elementi di
maggior rilievo del canto: l’orrore, l’osservazione spietata e precisa di
piaghe e mutilazioni), mentre il Momigliano, per caratterizzarlo, ricorre
anch’egli a un’immagine umoristica, quella della “cicogna”. Dante, secondo
questi critici. si prenderebbe gioco del dannato, scomponendo analiticamente
nelle sue fasi successive un movimento che, nella normale percezione delle
cose, cogliamo nella sua unità. Effettìvamente in questa terzina Maometto
prende ai nostri occhi l’aspetto di un manichino, di un fantoccio privo di vita
e mosso da una volontà che non è la sua (il Fubinì parla, a proposito di questa
e altre immagini analoghe del poema, di “rigidità burattinesca”, senza peraltro
vedere, nel caso di Maometto, l’aspetto tragico - espressione della sua
condizione di dannato - che essa riveste). Un altro, che aveva la gola bucata e il naso mozzato fin sotto le ciglia, e non aveva più che un solo orecchio fermatosi a guardare per lo stupore con gli altri, prima
degli altri spalancò la gola, che da ogni parte era di fuori insanguinata, e disse: « O tu che nessun peccato condanna e che io conobbi in Italia, se non mi trae in inganno ricordati di Pier da Medicina, se mai torni a vedere la dolce pianura che scende da Vercelli a Marcabò. Su
Pier da Medicina non si hanno notizie sicure. Appartenne ad una famiglia nobile
che governò l’omonima cittadina Romagnola; di lui i commentatori antichi dicono
che fu promotore di discordie tra i nobili di Bologna e tra i comuni di Bologna
e Firenze. Benvenuto da Imola sostiene che Dante fu ospite alla corte di questi
feudatari. E informa i due più ragguardevoli cittadini di Fano, messer Guido e anche Angiolello, che se la preveggenza nell’inferno non è errata, saranno gettati fuori della loro nave, e affogati presso Cattolica per il tradimento di uno sleale tiranno. Guido
del Cassero e Angiolello di Carignano furono uccisi, secondo alcuni, nel 1312,
poco dopo che Malatestino da Verrucchio (cfr. canto XXVII, verso 46) successe
al padre nella signoria di Rimini. Il fatto non è comunque storicamente
accertato. Così il Lana illustra la profezia di Pier da Medicina: Guido del
Cassero e Angiolello di Carignano “furon richiesti da Malatestino de’ Malatesti
da Arimino di parlamentare insieme per provvedere al buono stato della
contrada; e ordinonno lo parlamento alla Cattolica, per luogo comunale: seppe
sì ordinare lo detto Malatestino, ch’elli li fece uccidere”. Fra le isole di Cipro e di Maiorca Nettuno non vide mai un misfatto così grande, né da parte di pirati, né da parte di Greci. Nota
finemente il Malagoli che “l’accento di sdegno del peccatore contro il
tradimento fello di Malatestino si congiunge al senso della propria colpa, che
emana dalle prime parole (tu cui colpa non condanna, verso 70) e al tremito di
delicati affetti che anima i versi successivi; e anche in seguito, quando
l’anima presenterà a Dante un altro peccatore, il senso del peccato e della
colpa spira dalle parole (versi 96-99)”. Quel traditore (Malatestino da Verrucchío, cieco d’un occhio) che vede soltanto con un occhio, e signoreggia la città che uno che è qui con me vorrebbe non aver mai visto, li inviterà a un abboccamento con lui; dopo farà in modo che essi non avranno più bisogno né di voti né di preghiere per scampare dal vento dei monte Focara ». Il
Lana spiega che “Focara è un luogo sopra mare nella Marca, tra Pesaro e la
Cattolica, in lo qual luogo è spesso di gran fortune [tempeste]; e usano molto
li marinari, che si trovano in quello luogo al tempo della fortuna, di pregare
Dio e li santi e di fare molti voti”; i versi 89-90 stanno quindi a significare
che Guido e Angiolello saranno uccisi prima di giungere in quel luogo. L’atroce
fatto di sangue che il dannato pronostica a Dante non ha nulla di
indeterminato, non si cela nelle immagini enimmatiche che rendono così
potentemente suggestive altre profezie di dannati (per esempio quella di Vanni
Fucci). Ma la cornice in cui esso si svolge conferisce alle sue esatte
determinazioni (la perifrasi del verso 85 incombe tuttavia minacciosa, senza
circostanziarsi: il traditor che vede pur con l’uno vi assume dimensioni
gigantesche: quelle dei male insondabile) il respiro della tragedia. Osserva il
Momigliano che la terzina 82-84 “dà al fatto proporzioni straordinarie” e che
“l’orizzonte immenso del Mediterraneo lo allarga fantasticamente”, mentre
l’espressione poi farà sì, ch’al vento di Focara... “ha la medesima latitudine
di quell’orizzonte marino. E per effetto di questo racconto di stile così
unitario il truce fatto è circondato costantemente da una potente ventata di
fortunale”. E io a lui: « Mostrami e spiegami, se vuoi che io rechi nel mondo notizie di te, chi è colui al quale è stata dolorosa la vista (di Rimini) ». Allora appoggiò la mano sulla mascella di un suo compagno e gli aprì la bocca, gridando: « E’ proprio lui, e non parla. Costui, esiliato (da Roma), tolse a Cesare ogni esitazione, sostenendo che chi è preparato sempre sopporta con danno l’indugio ». Oh quanto mi sembrava avvilito con la lingua recisa nella gola, Curione, che fu così audace nel parlare!
Secondo
quanto narra Lucano nella Farsaglía (I, versi 261 sgg.), il tribuno della plebe
Caio Curione, costretto a fuggire da Roma perché troppo apertamente aveva preso
le parti di Cesare, convinse il triumviro reduce dalla Gallia a varcare il
Rubicone con queste parole: “Mentre i partiti trepidano, non consolidati da
alcuna forza, tronca gli indugi: è sempre stato dannoso dilazionare le cose già
pronte”. Egli appare agli occhi di Dante come il vero responsabile della guerra
civile tra Cesare e Pompeo, e quìndi, in quanto seminatore di discordia,
colpevole. “Considerato in se stesso e nelle sue conseguenze immediate, il
consiglio da lui dato a Cesare fu la causa della sua dannazione; ma fu quel
consiglio che liberò al volo inenarrabile il sacrosanto segno dell’aquila [cfr,
Paradiso canto VI) e scatenò gli eventi onde per volere di Roma nacque
l’Impero. Talché se Cesare, « primo principe sommo ». è tra gli spiriti magni
nella luce del nobile castello (Inferno IV, verso 123) e Curione quaggiù nella
nona bolgia sozza, questi ci appare come lo strumento inconsapevole e la
vittima tragica della sacra volontà della storia.” (RossiFrascino) E uno che aveva entrambe le mani tagliate, alzando i moncherini nell’aria tenebrosa, così che il sangue gli imbrattava il volto, urlò: « Ti ricorderai anche del Mosca, che dissi, ahimè!, “Cosa fatta non può disfarsi, parole che furono origine di sventure per i Toscani ». E io replicai: « E rovina della tua stirpe »; per cui egli, aggiungendo dolore a dolore, se ne andò via come una persona esacerbata e fuori di sé.
A
Mosca dei Lamberti (cfr. Inferno VI, verso 80) gli storici fiorentini del
Trecento fanno risalire la divisione dei cittadini di Firenze in Guelfi e
Ghibellini, seguita all’uccisione (1215), ad opera della famiglia degli Amidei,
di Buondelmonte dei Buondelmonti. Non avendo quest’ultimo mantenuto fede alla
promessa di sposare una fanciulla degli Amidei, costoro si radunarono insieme
ai loro consorti per decidere sul modo di punirlo. Fu in quell’occasione che
“il Mosca de’ Lamberti disse la mala parola: « Cosa fatta, capo ha », cioè che
fosse morto: e così fu fatto” (Villani - Cronaca V, 38). Mosca dei Lamberti
morì a Reggio, dove ricopriva la carica di podestà, nel 1243. I Lamberti furono
banditi da Firenze, insieme con gli altri Ghibellini, nel 1258 ed esclusi dai
provvedimenti di amnistia dei 1268 e 1280, anno a partire dal quale non si sa
quasi più nulla di loro. La presentazione che il Poeta fa della figura di
questo peccatore, promotore anch’egli, come Curione, di una lunga vicenda di
odi e di violenze (ma annoverato, nell’episodio di Ciacco, tra coloro ch’a ben
far puoser, li ‘ngegni), è tragica. priva delle sottolineature grottesche le
quali rendono mostruose, irriducibili ad una misura umana, le figure di
Maometto o di Curione. Mosca è consapevole del male che ha arrecato a sé (la
dannazione), a Firenze, alla sua stirpe. “Lo lacerano il sentimento della
patria e quello della famiglia: e questo fa più acuto l’altro. Botta e
risposta, dogliose ed acri, che riconducono il pensiero nostro alla scena tra
il Poeta e Farinata.” (Crescini) Ma io restai a osservare fissamente la schiera dei dannati, e vidi una cosa, che avrei timore di riferire da solo, senz’altra testimonianza, ma mi rende sicuro la coscienza, che è la valente compagnia che infonde coraggio all’uomo sotto la protezione della sua purezza. Senza alcun dubbio vidi, e mi pare ancora di vederlo, un tronco privo di testa camminare come camminavano gli altri dannati della sciagurata schiera e con la mano teneva sospeso per i capelli il capo mozzato come fosse stato una lanterna; e quello ci guardava, e diceva: « Ohimè! »
Il
dannato che avanza, con passo in tutto simile a quello dei suoi compagni di
pena (come nota il Momigliano, dopo che il verso 118 ha sottolineato
“l’allucinante evidenza della visione”, la frase successiva “mette dinanzi agli
occhi l’incredibile naturalezza di quel camminare di un busto senza capo”),
tenendo in mano la propria testa a guisa di lanterna (immagine suggerita dalla
presenza nella testa degli occhi e del cerebro - cfr. verso 140 - l’organo
attraverso cui istituiamo un ordine, una luminosa evidenza nel mondo e in noi
stessi), è Bertran de Born, signore dei castello di Hautefort in Aquitania e
rinomato poeta provenzale. Vissuto nella seconda metà del secolo XII, fu amico
di Enrico Il, re d’Inghilterra e duca d’Aquitania, e del figlio di lui, Enrico
III soprannominato il Re giovane, che il padre aveva associato al trono. Dante
accoglie la voce second o la quale Enrico III si ribellò al padre dietro i
consigli di Bertran de Born. Con gli occhi della propria testa guidava il suo corpo, ed erano due parti in un corpo e un corpo in due parti: come ciò può avvenire, lo sa Dio che così dispone. Quando si trovò proprio alla base del ponte, levò alto il suo braccio insieme con la testa, per farci giungere meglio le sue parole, che furono: « Osserva dunque la pena angosciosa tu che, vivo, te ne vai guardando i morti: vedi se ce n’è una straziante come la mia. E affinché tu possa recare notizie di me, sappi che io sono Bertran de Born, colui che diede al Re giovane i cattivi consigli. Feci diventare il padre e il figlio nemici tra loro: Achitofel non causò maggior danno ad Assalonne e a Davide con i suoi perfidi incitamenti. Achitofel,
consigliere di Davide, istigò Assalonne a ribellarsi al padre e ad ucciderlo
(II Samuele XV, 12 sgg.; XVI, 15 sqg.; XVII, I sgg.), Riguardo all’espressione
in sé ribelli, il Mattalia rileva che, essendo tanto Enrico Il d’Inghilterra
che suo figlio Enrico III investiti dell’autorità regia, “erano due-uno [cfr.
verso 125; un’espressione analoga ricorre nella descrizione della seconda
metamorfosi della bolgia dei ladri; Interno XXV, 77]. e ognuno, ribellandosi
all’alter ego, veniva a trovarsi in stato di ribellione anche contro se stesso.
Solo così interpretando si può spiegare come l’idea del reato di ribellione si
possa applicare a un padre nei confronti del figlio”. Poiché io divisi persone così unite, reco il mio cervello diviso, misero me!, dalla sua orìgine (principio: il midollo spinale) che sta in questo busto. In tal modo è applicata nella mia persona la legge del contrappasso ». La
formulazione teorica del contrappasso è in San Tommaso (Summa Theologica II.
II, 61,4): “La forma dei giudizio divino è che uno soffra secondo quello che ha
fatto, secondo il detto di Matteo (VII, 2): sarete giudicati
col giudizio con cui avrete giudicato; e sarete misurati con la misura con la
quale avrete misurato. Perciò la giustízia si identifica semplicemente con il
contrappasso”. |
Copyright © 1999 Luigi De Bellis