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La fiamma si era già raddrizzata e stava ferma perché più non parlava, e già si allontanava da noi col permesso del caro Virgilio, quando un’altra, che sopraggiungeva dietro di lei, ci fece volgere lo sguardo verso la sua punta a causa di un mormorio che da essa proveniva. Come il toro siciliano che muggì per la prima volta, e ciò fu cosa giusta, con il lamento di colui che l’aveva costruito con i suoi arnesi, muggiva con il gemito del martirizzato, tanto che, sebbene fosse fatto di rame, sembrava che lui stesso soffrisse, così, non trovando all’inizio né una via né un’apertura attraverso il fuoco, le parole dolorose si mutavano nel suono di quest’ultimo. Secondo
una leggenda riportata da diversi scrittori latini (Ovidìo, Plinio il Vecchio,
Valerio Massimo, Paolo Orosio) l’ateniese Perillo aveva costruito per il
tiranno d’Agrigento, Falaride, un bue di rame, che, arroventato, causava la
morte, tra atroci supplizi, dei condannati chiusi in esso. Il bue di Perillo
aveva la particolarità di trasformare in gemiti bovini le grida di questi
infelici. La prima vittima di questo strumento di tortura fu il suo stesso
inventore. L’inciso dantesco e ciò fu dritto riecheggia, in forma lapidaria una
più ampia considerazione di Ovidio (Ars amandi 1, 653-654): “Non esiste
infatti legge più giusta di quella per cui gli artefici di morte periscono ad
opera della loro arte”. Nel verso 9 il Torraca ha visto, con penetrante
acume, il compiacimento dell’artefice intento a perfezionare, con alacrità
disumana, il crudele prodotto del proprio ingegno. L’andamento della
similitudine, che ripropone, all’inizio di questo canto, il tema del linguaggio
dei consiglieri fraudolenti, già accennato in quello precedente (versi 85-90).
è faticoso, complesso, contorto. A causare in noi questa impressione
contribuiscono, fra l’altro, l’accavallarsi delle determinazioni - ognuna delle
quali. pur logicamente in funzione subordinata, tende ad assumere un valore
assoluto, ostacolando lo scorrere del discorso ~ e la ripetizione, appena
variata, dello stesso verbo mugghiare - assunto dapprima a chiarire una
circostanza secondaria ed in un secondo tempo il fatto sul quale poggia
l’intera comparazione. Bene osserva in proposito il Crispolti: “Evidentemente
Dante vuol produrre nei lettori una aspettazione, per cui tanto più le parole
di Guido appariscano gravi, quanto più hanno tardato ad essere profferite”.
Il Sanguineti, dal canto suo, nel raffrontare questa similitudine con quella premessa al racconto di Ulisse,
nota come “alla qualità dell’immagine invocata per Ulisse (la fiamma cui
vento affatica), sostenuta tutta, così puntualmerite sobria, ancora dai valori
descrittivi”, si contrappone quella dell’ “immagine singolarmente
addotta per Guido, insistente e diffusa, lentamente disvelatrice”.
Illuminante appare la seguente osservazione del Terracini: “il motivo di
questa voce che esce a stento e non naturale dalle fiamme non si limita a
questo esordio; lo ritroveremo implicito... in un elemento di stile: nell’onda
del discorso ora serrata, ora spezzata, e sin nella duplicità ora ambigua ora
drammatica, che scorre lungo tutto il raccontodi Guido e trae appunto la sua
prima origine dal suon confuso emesso dalla fiamma”. Ma dopo che ebbero trovato la loro via verso l’alto attraverso la punta, comunicandole quella vibrazione che la lingua aveva loro impresso mentre passavano, udimmo dire: « O tu al quale rivolgo la parola e che or ora parlavi in dialetto lombardo, dicendo “Adesso vattene; più non ti sprono a parlare”, sebbene io sia arrivato forse un po’ tardi, non ti dispiaccia rimanere a parlare con me: vedi che a me non rincresce, eppure brucio! Se tu proprio ora sei precipitato nell’inferno da quella amata terra italiana dalla quale ho portato tutti i miei peccati, dimmi se i Romagnoli sono in pace o in guerra; perché io nacqui nei monti là tra Urbino e il giogo da cui scaturisce il Tevere ». Il
personaggio che parla, fasciato dalla fiamma (i consiglieri fraudolenti non
sono trasformati in fiamme, ma da queste soltanto rivestiti, come risulta dal
verso 48 del canto XXVI) è il conte Guido I da Montefeltro. Nato intorno al
1220, militò nelle file del partito ghibellino e fu, nel 1268, vicario a Roma
di Corradino di Svevia. Nel 1275. in qualità di capitano generale dei Ghibellini
della Romagna, sgominò presso Faenza, al ponte San Procolo, i Guelfi bolognesi
e si impadronì di Cesena e di Bagnacavallo. Nel 1282, assediato in Forlì dalle
milizie guelfe guidate dal francese Giovanni d’Appia, fece una vittoriosa
sortita contro il nemico. Dopo la resa della città, fu confinato dalla Chiesa,
alla quale aveva fatto atto di sottomissione, in Piemonte, ma nel 1289 riprese
a combattere contro i Guelfi come podestà e capitano di guerra a Pisa. Tornato
ìn Romagna nel 1292, ottenne la signoria di Urbino. Dopo essersi riconciliato
col papa, indossò, nel 1296, il saio francescano. Morì due anni dopo. Stavo ancora attento e chinato verso il fondo, allorché Virgilio mi toccò nel fianco (tentò di costa), dicendo: « Parla tu; costui è italiano (latino) ». Ed io, che ero già preparato a rispondere, presi a parlare senza indugio: « O anima che sei celata laggiù, la tua Romagna non è, e non è mai stata, in pace nel cuore dei suoi signori; ma ora non vi lasciai alcun conflitto manifesto. Nella
primavera dei 1300, periodo in cui Dante immagina di aver compiuto il suo
viaggio nell’oltretomba, la Romagna appariva pacificata. Alla fine del 1299,
infatti, era stato posto termine, per intervento di Bonifacio VIII, alla guerra
combattuta dal marchese Azzo VIII d’Este contro il comune di Bologna e i
signori romagnoli. Ravenna si trova nella condizione in cui è stata per molti anni: l’aquila dei da Polenta se la custodisce, in modo da coprire con le ali anche Cervia. Dal
1270 Ravenna era sotto la signoria della famiglia da Polenta, che aveva come
stemma, secondo il Lana, “una aquila vermiglia nel campo giallo”; nel
1300 era signore di Ravenna Guido il Vecchio, il padre di Francesca da Rimini.
Il dominio dei signori di Ravenna si estendeva anche alla vicina Cervia. La città (la terra: Forlì) che già sostenne il lungo assedio e fece una strage di Francesi. è ora sotto il dominio degli artigli verdi (degli Ordelaffi). Signore
di Forlì, la città in cui Guido da Montefeltro sconfisse sanguinosamente
l’esercito francese guidato da Giovanni d’Appia, era in questo periodo
Scarpetta degli Ordelaffi, che Dante conobbe probabilmente di persona essendo
stato eletto nel 1303 capitano generale dei Bianchi esuli da Firenze. Secondo
il Lana, gli Ordelaffi avevano “le branche verdi d’un lione nel campo giallo
per arme”. E il vecchio Malatesta da Verrucchio e suo figlio, che fecero strazio di Montagna, là (a Rimini e nelle terre vicine) dove sono soliti farlo usano i denti a mo’ di succhiello. Malatesta
da Verrucchio, padre di Paolo e di Gianciotto (Inferno V, versi 88 sgg.), si
impadronì di Rimini dopo averne cacciati i Ghibellini nel 1295 e tenne la
signoria di questa città fino al 1312, anno in cui gli successe il figlio
Malatestino. I due Malatesta erano probabilmente soprannominati « mastini » per
la loro ferocia. Dante “inserisce qui il termine, con l’usuale immaginosa risoluzione
del linguaggio figurato dell’araldica, e in una serie di indicazioni araldiche,
quasi a suggerire che questa sarebbe stata la più degna insegna di una signoria
ferocemente avida e sanguinaria”. (Mattalia) Le città bagnate dal Lamone (Faenza) e dal Santerno (Imola) sono governate dal piccolo leone in campo bianco, che cambia partito da una stagione all’altra. Maghinardo
Pagani da Susinana, il quale “aveva per arme un lione nel campo bianco”
(Lana), fu signore di Imola e Faenza e morì nel 1302. Scrive di lui il Villani
nella sua Cronaca (VII, 149), dopo averlo definito Il grande savio tiranno”: “ghibellino
era di sua nazione e in sue opere, ma co’ Fiorentini era guelfo e nimico di
tutti i loro nímici, o guelfi o ghibellini che fossono; e in ognì oste e
battaglia ch’e’ Fiorentini facessono, mentre fu in vita, fu con sua gente a
loro servigio e capitano”. Gli antichi commentatori interpretano il verso
51 come se contenesse un’allusione al fatto che Maghinardo Pagani era
ghibellino in Romagna e guelfo, in quanto amico della guelfa Firenze, in
Toscana. Dei moderni il Torraca vede riassunti in questa definizione lapidaria
“i frequenti e rapidi passaggi di Maghinardo da una ad un’altra delle
fazioni di Faenza e di tutta Romagna. Le storie romagnole attestano che egli fu
quando favorevole, quando ribelle ai rettori pontifici; nemico a vicenda ed
amico de’ Manfredi, de’ Calboli. de’ Malatesta guelfi; ora capo de’ Ghibellini,
ora combattente in campo contro di essi; benedetto, scomunicato, ribenedetto
dalla Chiesa”. E Cesena che è bagnata dal Savio, così com’è sistemata tra la pianura e l’Appennino, vive tra la tirannide e la libertà. Cesena,
bagnata dal fiume Savio, fu governata dal 1296 al luglio del 1300 da un cugino
di Guido da Montefeltro, Galasso da Montefeltro, che Dante nel Convivio (IV,
XI, 14) menziona tra i signori più liberali. Nel quadro che Dante presenta a
Guido sulle condizioni della Romagna ogni cosa, secondo quanto scrive il Croce,
“è espressa in modo concreto e con immagini corpulente: gli stemmi, i nomi
dei signori, i fiumi che bagnano quella terra, gli avvenimenti di cui essa fu
teatro, si affollano all’immaginazione come esseri vivi, e della sorte di
ciascuna città si parla come se si parlasse degli affanni e dei travagli delle
proprie figliuole, e Romagna, che le lega tra loro, è tra esse come la
primogenita: Romagna tua”. Ora ti prego di raccontarci chi sei: non essere restio a parlare più che non lo sia stato io, se vuoi che il tuo nome abbia nel mondo una fama duratura ». Dopo che la fiamma ebbe alquanto rumoreggiato com’era solita fare, mosse la cima aguzza di qua e di là, e poi pronunciò tali parole : « Se io pensassi che la mia risposta fosse data a una persona che prima o poi tornasse sulla terra, questa fiamma sarebbe silenziosa; ma poiché da questo abisso mai alcuno ritornò vivo, se è vero ciò che mi si dice, ti rispondo senza timore d’essere coperto d’infamia. Osserva
il Terracini, in merito a questa risposta di Guido a Dante: “Questo spirito
cosi guardingo e ragionatore, si dimostra ciecamente ignaro dell’errore che lo
insidia al fondo della sua stessa argomentazione... il dannato è qui
tragicamente cieco; più parla sicuro, più poeta e lettore lo vedono brancolare
nel vuoto. Dapprima una ipotesi data come irreale (s’io credessi ... starìa),
poi sopraggiunge un più forte e più certo argomento (ma però... ), appena
attenuato dall’ombra di un dubbio, prospettato per altro come assurdo (s’i’ odo
il vero); infine la conclusione ciecamente decisa: sanza tema d’infamia ti
rispondo”. Fui guerriero, e poi frate francescano, ritenendo che, cinto da quel cordiglio, avrei riparato (alle mie colpe); e sicuramente ciò che io credevo si sarebbe avverato del tutto, se non fosse stato per il papa, che mal gliene incolga!, che mi ece ricadere nei peccati di prima; e voglio che tu ascolti in qual modo e perché. Finché fui il principio informativo (forma lui: in quanto anima, nel significato solito della Scolastica) del corpo che mi diede mia madre (cioè: finché fui vivo), le mie azioni non furono il risultato della forza, ma dell’astuzia (di volpe). Io conobbi tutte le astuzie e tutti i raggiri, e li usai così bene, che la loro fama raggiunse i confini del mondo. Quando mi accorsi di essere arrivato a quell’età (la vecchiaia) in cui ognuno dovrebbe ammainare le vele e radunare le sartie, quello che prima mi era piaciuto, allora mi dispiacque, e dopo essermi pentito e confessato mi feci frate; ah povero infelice!, e ciò mi avrebbe giovato. L’immagine
contenuta nel verso 81 è svolta ampiamente in un passo del Convivio (IV,
XXVIII, 3 e 8) ove è fatto anche l’elogio di Guido da Montefeltro: “la naturale
morte è quasi a noi porto di lunga navigazione e riposo. Ed è così: [ché], come
lo buono marinaio, come esso appropinqua al porto, cala le sue vele, e
soavemente, con debile conducimento, entra in quello; così noi dovemo calare le
vele delle nostre mondane operazioni e tornare a Dio con tutto nostro
intendimento e cuore, sì che a quello porto si vegna con tutta soavìtade e con
tutta pace... Certo lo cavaliere Lancelotto non volse entrare con le vele alte,
né lo nobilissimo nostro latino Guido montefeltrano. Bene questi nobili calaro
le vele delle mondane operazioni, che nella loro lunga etade a religione si
rendero, ogni mondano diletto e opera disponendo”. Il capo (Bonifacio VIII) dei Farisei dei nostri giorni, conducendo una guerra vicino a Roma, e non contro Saraceni né contro Ebrei (cioè contro i nemici della religione cattolica), giacché ogni suo avversario era cristiano, ma nessuno era stato a conquistare Acri né a commerciare nel paese dei Sultano, non rispettò in sé né l’elevato incarico né gli ordini sacerdotali, né in me quel cordone francescano che rendeva un tempo più magro chi se ne cingeva. Bonifacio
VIII (cfr. canto XIX, versi 52~57) è chiamato il più grande (questo il
significato del termine principe) dei Farisei moderni; il sarcasmo dei Poeta
coinvolge nella medesima condanna il papa, considerato responsabile del suo
esilio e del trionfo del partito dei Neri in Firenze, e le alte gerarchie
ecclesiastiche del suo tempo. I Farisei sono tacciati nel Vangelo di ipocrisia;
alla doppiezza di Bonifacio VIII Dante ha già fatto riferimento nel canto VI,
verso 69 (con la forza di tal che testé piaggia). Scrive il Chimenz: “la
tremenda perifrasi iniziale (lo principe de’ nuovi Farisci), benché così carica
di disprezzo, non suona come ingiuria da persona a persona: Fariseo Bonifazio,
ma Farisei anche gli altri prelati di cui egli è il capo: la condanna generale
attenua quella particolare: Bonifazio risulta solo l’esponente di una
situazione generale, della degenerazione globale della Chiesa. La posizione dei
dannato rispetto a Bonifazio appare, in questa requisitoria, identica a quella
di Dante: li muove entrambi l’odio personale per un danno ricevuto, ma in
entrambi l’odio è purificato e redento, trasformatosi in passione morale. La
requisitoria non sarebbe diversa sulla bocca di Dante stesso”. Ma come l’imperatore Costantino mandò a chiamare dalla grotta dei monte Soratte papa Silvestro I per essere guarito dalla lebbra, così quegli mi fece andare da lui come medico per guarirlo dalla febbre della sua superbia: mi chiese consiglio, e io tacqui, perché le sue parole mi sembrarono dissennate.
Nel
Medioevo era assai diffusa la versione leggendaria della conversione al
Cristianesimo dell’imperatore Costantino, avvenuta in seguito alla sua
guarigione ad opera di papa Silvestro. Secondo l’Anonimo Fiorentino,
l’imperatore, ammalato di lebbra, richiese l’intervento di papa Silvestro che,
per sfuggire alla persecuzione contro i cristiani, si era rifugiato in una
grotta del monte Soratte: “e elli il battezzò; e subito guarì della lebbra e
credette”. Egli poi disse: “Non aver timore; t’assolvo fin d’ora, e tu indicami il modo di abbattere Palestrina. E’ in mio potere chiudere e aprire. come tu ben sai, il regno dei cieli; perciò due sono le chiavi che il mio predecessore (Celestino V, che rinunciò al trono pontificio) rifiutò “.
Dopo
aver rivelato, in un’espressione brutale e aliena da qualsiasi infingimento (sì
come Penestrino in terra getti), la sua sete di dominio e la violenza del suo
odio, Bonifacio VIII, “mascherando di unzione pia il sussulto della sua anima
profana, scocca il colpo maestro della sua sacrilega astuzia [finor
t’assolvo]... Ma tosto egli si risolleva alla sua superba maestà (ora maestà
pontificale) nel verso lo ciel poss’io serrare e disserrare, che noi vediamo,
tanta ne è l’efficacia, illuminato da uno sguardo di trionfo e accompagnato da
un ampio gesto di dominio... Di sotto al variare degli atteggiamenti traspare
in Bonifacio l’esasperata tensione di tutto il suo cuore verso lo scopo
agognato; ma ora che egli si sente vincitore, quella tensione s’allenta nel
frizzo ingeneroso verso il povero Celestino, con cui finisce la grandiosa
rappresentazione diretta dell’odiato pontefice” (Rossi-Frascino). Allora i fondati argomenti mi spinsero là dove il silenzio mi parve la risoluzione peggiore, per cui dissi: “Padre, giacché tu mi assolvi da quella colpa in cui ora devo cadere, promettere molto e mantenere poco ti faranno trionfare (sui tuoi nemici) nell’eccelso tuo trono”. Molto persuasiva è l’interpretazione avanzata dal Chimenz del mutamento avvenuto nell’animo di Guido dopo la assoluzione anticipata impartitagli dal pontefice, mutamento che si riflette nella struttura sintattica e stilistica dei versi 108-111: “Fissati i termini del patto, che le pause imposte dalla fine del verso dopo: lavi e cader deggio sembrano rendere incrollabili, improvvisamente il frate appare liberato da ogni esitazione e da ogni scrupolo. La sua mente, ora sgombra, |