Salvator Rosa

La poesia
(satira)


vv. 418-660

       Raro è quel libro, che non sia un centone
di cose a questo e quel tolte e rapite
sotto il pretesto dell’imitazione.
        Aristofano, Orazio, ove siete ite
anime grandi? Ah per pietate, un poco
fuor de’ sepolcri in questa luce uscite.
        Oh con quanta ragion vi chiamo, e invoco
che se oggi i furti recitar volessi,
Aristofano mio, verresti roco.
        Orazio, e tu se questi Autor leggessi,
oh come grideresti: Or sì che ai panni
gli stracci illustri son cuciti spessi.

        Che non badando al variar degli anni,
colla porpora Greca, e la Latina,
fanno vestiti da secondi Zanni (n.47)
        gl’Imitatori in quest’età meschina,
che battezzasti già Pecore serve, (n.48)
chiameresti uccellacci di rapina.
        Delle cose già dette ognun si serve;
non già per imitarle, ma di peso
le trascrivon per sue, penne proterve.
        E questa gente a travestirsi ha preso,
perché ne’ propri cenci ella s’avvede,
che in Pindo le saria l’andar conteso.
        Per vivere immortal dansi alle prede,
senza pena temer gl’ingegni accorti;
che per vivere il furto si concede.
        Né senza questo ancora han tutti i torti:
né s’apprezzano i vivi, e non si citano,
e passan solo le autorità dei morti.
        E se citati son, gli scherni irritano,
né s’han per penne degne, e teste gravi
quei, che su i Testi vecchi non s’aitano.
        Povero Mondo mio, sono tuoi bravi
chi svaligia il compagno, e chi produce
le sentenze furate ai padri, agli avi:
        e nelle stampe sol vive, e riluce
chi senza discrezion truffa, e rubacchia,
e chi le carte altrui spoglia, e traduce.
        Quindi taluno insuperbisce, e gracchia,
che, s’avesse a depor le penne altrui,
resterebbe d’Esopo la cornacchia.
        Stampansi i versi, e non si sa da cui;
e sebbene alla moda ogn’un li guarda,
si rinfaccian tra lor: Tu fosti: Io fui.
        Per i moderni la fama è infingarda,
per gli antichi non ha stanchezza alcuna;
ogni accento, ogni peto è una bombarda.
        La Fama è in somma un colpo di fortuna:
Burchiello, e Jacopone hanno il commento,
cotanto il mondo è regolato a luna:
        e sono ognor cento bestiacce, e cento,
che sol ne’ libri altrui dall’anticaglia
del saper, del valor fanno argomento.
        Ama questa vanissima canaglia
i rancidumi; e in Pindo mai non beve,
se di vieto non sa l’onda castaglia.
        Nessuno stile è ponderoso e greve,
se tarlate e stantie non ha le forme,
e gli dan vita momentanea e leve.
        Non biasmo già, che per esempi, e norme
prendi il Lazio, e la Grecia; anch’io divoto
le lor memorie adoro, e bacio l’orme.
        Dico di quei, che sol di fango e loto,
usan certi modacci alla dantesca,
e speran di fuggir la man di Cloto. (n.49)
        Di barbarie servile e pedantesca
la di lor Poesia cotanto è carca,
ch’è assai più dolce una canzon tedesca.
        Ma qui il mio ciglio molto più s’inarca:
non è con loro alcuna voce etrusca,
se non è nel Boccaccio, o nel Petrarca;
        e mentre vanno di parlare in busca,
i toscani mugnai legislatori,
gli trattano da porci con la Crusca.
        Usan cotanti scrupoli, e rigori
sopra una voce, e poi non si vergognano
di mille sciocchi e madornali errori.
        Sotto le stampe va ciò che si sognano,
senza che si riveda, e che si emendi,
perché solo a far grosso il libro agognano.
        E se un’opera loro in man tu prendi,
mentre il jam satis (n.50) ritrovar vorresti,
vedi per tutto il Quidlibet audendi.
        Sotto nomi speciosi, e manti onesti,
per occultar le presunzion ventose,
porta in fronte ogni libro i suoi protesti.
        Chi dice, che scorrette, e licenziose
andavan le sue figlie, e perciò vuole
maritarle co’ torchi, e farle spose.
        Un altro poscia si lamenta, e duole,
che un amico gli tolse la scrittura,
e l’ha contro sua voglia esposta al sole.
        Quell’empiamente si dichiara, e giura,
che visti i parti suoi stroppiati, e offesi,
per paterna pietà ne tolse cura.
        Questi, che per diletto i versi ha presi
per sottrarsi dal sonno i giorni estivi,
e ch’ha fatto quel libro in quattro mesi.
        Oh che scuse affettate! oh che motivi!
Son figlie d’ambizion queste modestie;
perché ti stimi assai, così tu scrivi.
        Ma peggio v’è: con danni, e con molestie
s’ascoltan negli studi, e ne’ collegi
legger al mondo umanità le bestie.
        Stolidezza de’ principi, e de’ regi,
che senza distinzion mandano al pari
cogl’ingegni plebei gl’ingegni egregi.
        Qual maraviglia è poi, che non s’impari?
Se i maestri son bufali ignoranti,
che possono insegnare agli scolari?
        E son forzati i miseri studianti
di Quintiliano in cambio, e di Gorgìa
sentir ragghiare in cattedra i pedanti.
        Da questo avvien, ch’Euterpe, e che Talìa (n.51)
sono state stroppiate: ognun presume
in Pindo andar senza saper la via:
        che delle scorte loro al cieco lume
mentre van dietro, d’Aganippe in vece
son condotti di Lete in riva al fiume.
        Di questi sì, che veramente lece
affermar (come io lessi in un capitolo)
ch’han le lettre attaccate con la pece.  
        Io non voglio svoltar tutto il gomitolo
di certi cervellacci pellegrini,
che studian solamente a far il titolo;
        onde i lor libri con quei nomi fini
a prima vista sembran titolati;
esaminati poi, son contadini.
        Né potendo aspettar d’esser lodati
dal giudizio comune, escono alteri
da Sonetti e Canzoni accompagnati:
        e n’empion da sè stessi i fogli interi
sotto nome d’Incognito, e d’Incerto,
e si dan de’ Virgilj e degli Omeri.
        V’è poi talun, ch’avendo l’occhio aperto,
rifiuta i primi parti co’ secondi,
e così da un error l’altro è scoperto.
        Ma non so se più matti, o se più tondi,
se sian nel fare i libri, o dedicarli,
se più di errori, o adulazion fecondi.
        Di tempo, o di destin più non si parli:
la colpa è lor, se non sapendo leggere,
servon per esca ai ragnateli, ai tarli.
        Lor, non l’età, bisogneria correggere:
che in vece di lodar i Tolomei
fanno i poemi a quei, che non san reggere.
        E insino i battilani, e i figulei (n.52)
comprano da costor per quattro giuli
titol di Mecenati e, Semidei.
        Un poeta non c’è che non aduli:
e col Samosateno, e con il Ceo (n.53)
si mettono a cantar gli asini, e i muli.
        Con poche monete un uom plebeo,
degno d’esser cantato in archiloici,
fa di sé rimbombar l’Ebro, e ’l Peneo.  
        Ch’è dei Cinici ad onta, e degli Stoici,
senza temer le lingue de’ Satirici,
s’inalzano i Tiberj in versi eroici:
        egualmente da tragici, e da lirici
si fanno celebrare, e Claudio, e Vaccia,
e v’è chi per un pan fa penegirici,
        a fabbricare elogi ognun si sbraccia,
e infino gli scolar s’odon da Socrati
i Tiranni adulare a faccia a faccia.
        In lodar la virtù son tutti Arpocrati: (n.54)
e di Busiri (n.55) poi per avarizia
i Policrati scrivono e gli Isocrati.
        Termine mai non ha questa malizia;
e dietro a Glauco, per empir la pancia,
tessono encomi insino all’ingiustizia.
        Se vivesse colui, che la bilancia
non ben certa d’Astrea ridusse uguale,
a quanti sgraffieria gli occhi, e la guancia?
        Non vi stupite più, se il gran morale
lusinghieri vi nomini e bugiardi;
e Teocrito, zucche senza sale.
        Di Sparta già quegli animi gagliardi
della città per pubblico partito
scacciarono i cuochi e voi per infingardi:
        e ciò con gran ragion fu stabilito,
perché se quegli incitano il palato,
attendon questi a lusingar l’udito.
        L’istesso Omer dall’attico senato,
de’ poeti il maestro, il padre, il Dio,
fu tenuto per pazzo e condannato.
        Oh risorgesse Atene al secol mio,
che seppe già con adequata pena
a i Demágori (n.56) far pagare il fio!
        Loda i Tersiti Favorino (n.57), e a pena
ai principi moderni un figlio nasce,
che in augurj i cantor stancan la vena.
        Quando Cintia falciata (n.58) in ciel rinasce
ha da servir per cuna; e col zodiaco
hanno insieme le zone a far le fasce.
        Quanti dal Messicano al Egiziaco
fiumi nobili son, quanti il Gangetico
lido ne spinge al mar, quanti il Siriaco;
        tant’invitando va l’umor Poetico.
a battezzar talun, che per politica
cresce, e vive ateista, e muore eretico.
        E canta in vece di adoprar la critica,
ch’ei porterà la trionfante croce
dalla terra giudea per la menfitica.
        Che dalla Tule alla Tirintia foce, (n.59)
reciderà le redivive teste
dall’eresia crescente all’idra atroce.
        Che tralasciata la magion celeste
ricalcheran gli abbondanti calli,
con Astrea (n.60) le virtù profughe e meste.
        Per innalzar a un Re statue, e cavalli
hanno fatto insino un certo letterato
sudare i fuochi a liquefar metalli; (n.61)
        e un altro per lodar certo soldato,
dopo aver detto - è un Ercole secondo, -
ed averlo ad un Marte assomigliato;
        non parendogli aver toccato il fondo
soggiunse, e pose un po’ di più sù la mira:
ai bronzi tuoi serve di palla il mondo.
        Oh gran bestialità! come delira
l’umana mente! né a guarirla basta
quant’elleboro nasce in Anticira. (n.62)
        Divina Verità, quanto sei guasta,
da questi scioperati animi indegni,
che del falso, e del ver fanno una pasta.
        Predican per Atlanti, e per sostegni
della terra cadente uomini tali
che son rovine poi di stati, e regni,
        se un principe s’ammoglia, oh quanti oh quali
si lasciano veder subito in frotta
epitalamj e cantici nuziali!
        Ogni Poema poi mostra interrotta
di qualche grande la genealogia
dipinta in qualche scudo, o in qualche grotta.
        E quel che fa spiccar questa pazzia
è che la razza effigiata e scolta
dichiaran sempre i maghi in profezia.
        Ma se in costoro ogni virtute accolta
come dite, o Poeti; ond’è che ogn’uno
vi mira ignudi e lamentarvi ascolta?
        Se senza aita ogni scrittor digiuna
piange, questi non han virtute; ovvero
quel Letterato e querulo, o importuno.

 
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Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998