Salvator Rosa
La poesia
(satira)
vv. 238-417
Così
di Pindo voi, musiche rane, lasciate il proprio per lappellativo, e per voler gracchiar perdete il pane. Chè in vece dun mestier fertile, e vivo, dietro alla morta e steril Poesia imparate a cantar sempre il passivo. E tal possesso ha in voi questeresia, che per un po dapplauso ebri correte a discoprir la vostra frenesia. Balordi senza senno che voi siete! Mentre andate morendo dalla fame, dimmortalarvi vi persuadete. E siete così grossi di legname, che non udite ognun muoversi a riso in sentirvi lodar le vostre dame. Stelle gli occhi, arco il ciglio, e cielo il viso, tuoni, e fulmini i detti, e lampi i guardi, bocca mista dInferno e Paradiso. Dir, che i sospiri son bombe e petardi, pioggia doro i capei, fucina il petto, ove il magnano (n.30) amor tempera i dardi; ed ho visto, e sentito in un sonetto dir duna donna, cui puzzava il fiato, arca darabi odor, muschio e zibetto. (n.31) Le metafore il sole han consumato, e convertito in baccalà Nettuno fu nomato da un certo il Dio salato. Fin la Croce di Dio fu da taluno chiamata Legno Santo: e pur costoro sfidan lAutor dellItaco Nessuno. (n.32) E dellamata sua, con qual decoro, i pidocchi colui cantando disse sembran fere dargento in campo doro. (n.33) E chi vuol creder chun ingegno uscisse, dai gangheri sì fuora, e bagattelle tanto arroganti di stampare ardisse? Le nostre alme trattar bestie da selle: mentre lor serba il Ciel da corpi sgombre biada deternità, stalla di stelle. (n.34) E in pensarlo il pensier vien che sadombre, fare il sol divenir boia che tagli colla scure de raggi il collo allombre. (n.35) Ma chi di tante bestie da sonagli legger può le pazzie, se i lor libracci delle risa dognun sono i bersagli? Che da certi eruditi animalacci giornalmente alle tenebre si danno mille strambotti, e mille scartafacci: e tale stima di sè stessi fanno, e di tanta albagia vanno imbevuti, chè molto men della vergogna il danno. Che per parer filosofi e saputi, se ne van per le strade unti e bisunti stracciati, sciatti, succidi, e barbuti: con chiome rabbuffate, ed occhi smunti, con scarpe tacconate, e collar storto, ricamati di zaccare (n.36) e trapunti. Cada il giorno allOccaso e sorga allOrto, sempre cogitabondi, e sempre astratti hanno un color ditterico, e di morto. Discorron tra se stessi come matti, facendo con la faccia, e con le mani mille smorfie ridicole, e mille atti. Per certi luoghi inusitati, e strani si mordon lugne, e col grattarsi il capo pensano ai Mammalucchi, e aglIndiani, e incerti di formar scanno o Priapo (n.37) con la rozza materia, che hanno in testa, di pensiero in pensier si fan da capo; con la mente impregnata, ed indigesta senza aver fine alcuno, e senza scopo, van borbottando in quella parte, e in questa. Han di fantasmi un embrione e dopo daver pensato, e ripensato un pezzo, partoriscono i monti, e nasce un topo. (n.38) Che quando credi udir cose di prezzo, e stai con una grande aspettazione, gli senti dare in frascherie da sezzo. La fava con le mele, e col melone, la ricotta coi ghiozzi, e colla zucca, languilla col savore, e col cardone. Bovo dAntona, Drusiana, e Ciucca son le materie, onde laltrui palpebre ogni Scrittore infastidisce, e stucca; anzi dal mal francese, e dalla febre, e dallistessa peste insin procacciano ai nomi, allopre lor vita celebre. Questi son quei che a dissetar si cacciano le labbra in mezzo al Caballin Condotto, quasti i poeti son, che se lallacciano. Oh Febo, oh Febo, e dove sei condotto? Questi gli studii son dun gran cervello? Sono questi i pensier dun capo dotto? Lodar le mosche, i grilli, e il ravanello, ed altre scioccherie, chhanno composto il Berni, il Mauro, il Lasca, ed il Burchiello. Per sublimi materie hanno disposto, dietro a Bion, Pittagora, ed Antemio lodar le rape, le cipolle, e il mosto. In ogni frontispizio, ogni proemio più di Clitorio (n.39) han lodi le cantine; che a un poeta è peccato esser abstemio: e le penne più illustri, e pellegrine van lodando i caratteri golosi, con Eufrone (n.40) il tinello e le cucine. Quindi è, che i nomi lor sono gli Ozïosi gli Addormentati, i Rozzi, e gli Umoristi, glInsensati, i Fantastici, e gli Ombrosi. (n.41) Quindi è, che dove appena eran già visti nelle Accademie i lauri, e ne licei, gli osti oggidì ne son provisti. Ite a dolervi poi, moderni Orfei, che per i vostri affanni è già finita, la razza degli Augusti, e de Pompei. È che dalle Reggie era sbandita la mendica virtù; ma i vostri modi, hanno già la Poesia guasta, e avvilita. E le vostre invenzioni, e gli episodi son degne di taverne e lupanari: e voi ne prenderete e premii e lodi? Altro ci vuol per farsi illustri e chiari, che straccar tutto il dì Bembi, e Boccacci, e Fabbriche del Mondo, (n.42) e Dizionarj. De vostri studj i gloriosi impacci. Loccupazion de vostri ingegni aguzzi fecondi han solo da schiccherar versacci. Stirar con le tenaglie i concettuzzi, attacconar le rime con la cera, ad ogni accento far gli equivocuzzi: aver dei grilli in capo una miniera, far contrapposti ad ogni paroluccia, e scrivere e stampar ogni chimera. Dentro ai vostri versi oltre la buccia legge giammai, più dun la trova tale, bisognosa dimpiastro, e della gruccia. E creder di lasciar nome immortale, con portar frasche in Pindo, e unitamente fare il somaro, il mulo, e il vetturale? Chi cerca di piacer solo al presente, non creda mai daver a far soggiorno in mano ai dotti, e alla futura gente. Anzi avrà culla, e tomba in un sol giorno: chi stampa avverta, che alloblio non sono né barche, né cavalli da ritorno. Componimento cè che al primo suono letto da chi lo fece, fa schiamazzo; che sotto gli occhi poi non è più buono. Eppur il mondo è sì balordo e pazzo, e fatto gli occhi tanto ignorantoni, chi non scerne dal rosso il paonazzo. Applaude ai Bavj, ai Mevj arciasinoni, (n.43) che non avendo letto altro che Dante, voglion far sopra i Tassi i Salomoni. E con censura sciocca, ed arrogante al poema immortal del gran Torquato di contrapporre ardiscono il Morgante. Oh troppo ardito stuol, mal consigliato! che un ottuso cervel voglia trafiggere chi men degli altri in poetare ha errato! Non tincruscar tantoltre, o non taffliggere de carmi altrui, che il tuo latrar non muove: se Infarinato (n.44) sei vatti a far friggere. Son degli scarafaggi usate prove daquila i parti ad invidiar rivolti, il portar gli escrementi in grembo a Giove. Anco alla prisca età furono molti, che posposer lEneide ai versi dEnnio: secolo non fu mai privo di stolti. Torno, o poeti, a voi: dentro un biennio, benché avvezzo con Verre, (n.45) i furti vostri non conterebbe il Correttor dErennio. (n.46) Oh vergogna, oh rossor de tempi nostri! I sughi espressi dallaltrui fatiche servono oggi di balsami, e dinchiostri. Credonsi di celar queste formiche, chhan per Febo, e per Clio, seggio, e caverna il gran rubato alle caverne antiche: e senza adoperar staccio, o lanterna si distingue con breve osservazione, la farina chè vecchia e la moderna. |
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© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998