Salvator Rosa

La poesia
(satira)


vv. 1-237

        Le colonne spezzate, e i rotti marmi, (n.1)
là tra i platani suoi divelti, e scossi
Fronton (n.2) rimira all’echeggiar de’ carmi.
        Che da furore ascreo (n.3) spinti, e commossi
s’odon ognor tanti poeti, e tanti,
che manco gente in Maratona armossi.
        Suonan per tutto le ribecche, (n.4) e i canti,
e si vedon sol d’acque inebriati
i seguaci d’Apollo andar baccanti.
        Quei narra d’Eolo i prigionieri alati; (n.5)
di Vulcano e di Marte antri, e foreste,
e dal giudice inferno i rei dannati.
        Questi in mezzo agl’incanti, e alle tempeste
canta i velli rapiti; altri descrive
di Teseo i fatti, e le pazzie d’Oreste;
        La togate, e palliate argive (n.6)
altri specola, e detta, e sempre astratto
affettate elegie compone, e scrive.
        Maggior poeta è chi più ha del matto;
tutti cantano omai le cose intese;
tutti di novità son privi affatto.
        In tali accenti alte querele espresse
quel che nato in Aquino, (n.7) i propri allori
nel suol d’Aurunca (n.8) a coltivar si messe.
        Così di Pindo (n.9) i violati onori
sferzar ne’ colli suoi sentì già Roma
del flagello maggior de’ prischi errori.
        Ed oggi il tosco mio guasto idioma
non avrà il suo Lucilio; oggi ch’ascende
ciascuno in Dirce (n.10) a coronar la chioma?
        Non irrita il mio sdegno, e non mi offende
sola viltà di stile; a mille accuse
più possente cagione il cor m’accende.
        Troppo al secolo mio si son diffuse
le colpe de’ poeti; arse, e cadeo
la pianta virginal sacra alle muse.
        Tacer dunque non vuò, Nume Grineo, (n.11)
tu mi detta la voce, e tu m’inspira
d’Archiloco il furore, e di Tirteo. (n.12)
        Reggi la destra tu. Tolto alla lira
spinge dardo teban nervo canoro,
or che dai vizi altrui fomento ha l’ira.
        Conosco ben, che a saettar costoro
incurvar si dovria corno cidonio; (n.13)
che lento esce lo stral d’arco sonoro.
        Credon questi trattar plettro bistonio: (n.14)
né d’Eumolpo giammai cotanto odioso
il lapidato stil finse Petronio. (n.15)
        No, che tacer non vuo’: ma poi dubbioso
d’onde io muova il parlar rimango in forse,
tanto ho da dir, che incominciar non oso.
        Sono l’infamie lor così trascorse,
che s’io ne vo’ cantar, le voci estreme
son dal silenzio in sull’uscir precorse.
        Offre alla mente mia ristretto insieme
un indistinto Caos vizi infiniti,
e di mille pazzie confuso il seme.
        Quindi i traslati, e i paralleli arditi:
le parole ampollose, e i detti oscuri,
di grandezze, e decoro i sensi usciti.
        Quindi i concetti o mal espressi, o duri,
con il capo di bestia il busto umano,
della lingua stroppiata i motti impuri.
        Dell’iperbol qui l’abuso insano,
colà gl’inverosimil scoperti,
lo stil per tutto effeminato, e vano:
        il delfin nelle selve, e nei deserti,
ed il cignal nel mare, e dentro ai fiumi;
gli affetti vili, e i latrocinj aperti.
        Prive di nobiltà, prive di lumi;
l’adulazioni, e le lascivie enormi,
l’empietà verso Iddio, verso i costumi.
        Di tante, e tante iniquità deformi
provo acceso e confuso, e sprone e freno;
sofferenza irritata a che più dormi?
        Non vedi tu, che tutto il mondo è pieno
di questa razza inutile, e molesta,
che i poeti produr sembra il terreno?
        Per Dio, poeti, io vo’ sonare a festa,
me non lusinga ambizion di gloria:
violenza moral mi sprona, e desta.
        Di passar per poeta io non ho boria;
vada in Cirra (n.16) chi vuol, nulla mi preme
che sia scritta colà la mia memoria.
        Oh, che dolce follia di teste sceme!
sul più fallito, e sterile mestiero
fondare il patrimonio della speme!
        Sopra un verso sudar l’alma e il pensiero,
acciò che sia con numero costrutto,
se ogni sostanza poi termina in zero.
        Fiori, e frondi che val sparger per tutto;
se al fin si vede degli autunni al giro,
che di Parnaso (n.17) il fior non fa mai frutto?
        Con lusinghiero, e placido deliro
va il poeta spogliando Ermo, e Coaspe,
Sperchio, Bermio, Pettorsi, Ormus e Tiro,
        saccheggia il Tago, e sviscera l’Idaspe,
e non si trova un soldo al far de’ conti
tra le Partiche gemme, e l’Arimaspe. (n.18)
        Poeti, è ver che Apollo abita i monti;
ma questo non vuol dir che voi speriate
d’averci a posseder luoghi di monti.
        Ché possibil non è che voi troviate
tra quanti colli a Clavio (n.19) il tempo eresse
i monti di San Spirto o di pietate.  
        Io non so dove fondiate la messe,
s’altro seme non lo dà Clizio Dio (n.20),
che raccolta d’applausi, e di promesse.
        Superate la fame, e poi l’oblio;
che voi non manderete il grano a frangere,
se non prendete Cerere per Clio.
        Il vostro stato è troppo da compiangere,
mentre v’scolta ognun cigni dispersi
cantar per gloria, e per miseria piangere.
        A che star tutto lì tra lettre immersi?
Noto è alle genti anco idiote, e basse,
che non si fan lettre di cambio in versi.
        Giove io non leggo, che sapienza amasse,
che quando il mondo ancor vagiva in culla
avea Minerva in capo, e se la trasse. (n.21)
        Quest’applauso, che voi tanto trastulla,
dolc’è per chi vivendo, e l’ode, e il vede,
ma dopo morte non si sente nulla.
        È più dotto oggidì chi più possiede;
scienza senza denar cosa è da sciocchi,
e sudor di virtù non ha mercede.
        Per aver fama basta aver bajocchi;
che l’immortalità si stima un sogno;
son galli i ricchi, e i letterati allocchi.
        Quanto adesso vi dico io non trasogno;
da Pindo all’ospedal facil’è il varco;
poichè il saper è padre del bisogno.
        Gettate a terra la viola e l’arco,
che in quest’età d’ignorantoni, e Mimi
già s’adempì la profezia d’Ipparco.
        Presi già sono i luoghi più sublimi;
ed il proverbio pubblico risuona:
in ogni arte, e mestier beati i primi.
        Cangiato è il mondo, oh quanti ne minchiona
la foja della guerra, e della stampa,
la pania (n.22) della Corte e d’Elicona!
        Sfortunato colui, che l’orme stampa
ne’ lidi di Libetro (n.23) avidi e scarsi,
che vi sta mal per sempre, o non vi campa.
        Torna il conto, o fratelli a spoetarsi:
cantan sino i ragazzi a bocca piena.
Che il poeta è il primiero a declinarsi.
        Con più d’un guidalesco in sulla schiena
ai nostri dì l’Aganippeo polledro (n.24)
tanto smagrito è più, quant’ha più vena.
        L’opere a partorir degne di cedro
vi conducon le stelle in qualche stalla,
perché un Cavallo è a voi Duce, e Sinedro. (n.25)
        Chi veglia sulle carte, oh quanto falla!
Che a lottar con fortuna in questi giorni
esser unto non val d’umor di Palla. (n.26)
        Nè di Febo (n.27) il calor riscalda i forni:
e se chiacchiere avete con la pala,
non s’empion d’Amaltea con queste i corni. (n.28)
        Il rimedio a non far vita sì mala
è ben dover, ch’oggi vi mostri, insegni
la formica imitar, non la cicala.
        Non v’accorgete omai da tanti segni,
che nell’inferno della povertade
sono l’alme dannate i bell’ingegni?
        Chi di voi può mostrarmi una cittade,
ove una Musa sia grassa, e gradita,
se chiuse son le generose strade?
        Imparate qualch’arte, onde la vita
tragga il pan quotidiano, e poi cantate
quanto vi par La Bella Margherita.
        Passa la gioventude, e l’ore andate
la vecchiezza mendica di sostanza
bestemmia poi de la perduta etate.
        Il motto è noto, e cognito abbastanza.
A chi la povertà fitt’ha nell’ossa
refrigerante impiastro è la speranza.
        Non aspettate l’ultima percossa;
non fate più da sericani vermi
che stolti da per lor si fan la fossa. Appetir quel che offende uso è da infermi;
contro al vostro bisogno, al vostro male
il saper di saper son frali schermi.
        Ma volete un esempio naturale,
che la vostra sciocchezza esprima al vivo,
e rappresenti il vostro umor bestiale?
        Era volato un dì tutto giulivo
con un pezzo di cacio parmigiano
un corvo in cima ad un antico olivo.
        La volpe il vide, e s’accostò pian piano,
per farlo rimanere un bel somaro,
se il cacio gli potea cavar di mano.
        Ma perché tra di lor eran del paro
scaltri e furfanti, e come dir si suole,
era tra galeotto, e marinaro;
        ella, che scorso avea tutte le scuole,
ed era masvigliacca in quintessenza,
cominciò verso lui con tai parole:
        gran maestra è di noi l’esperienza;
ella ci guida in questa bassa riva,
madre di veritade e di prudenza.
        Quando da un certo io predicar sentiva,
che la fama ha due facce, ed è fallace,
a maligna bugia l’attribuiva.
        Ma ora l’occhio è testimon verace
di quanto udì l’orecchio, e ben conosco,
che questa fama è un animal mendace.
        Già, perché si dicea, che nero, e fosco
eri più della pece, e del carbone,
mi ti fingea spazzacamin da bosco.
        Ma quanto è falsa l’immaginazione;
tu sei più bianco che non è la neve,
e, pazza, io ti stimava un calabrone.
        Troppo gran danno la virtù riceve
da questa fama infame, e scellerata,
sempre bugiarda, appassionata, e leve.
        Perde teco, per Dio, la saponata:
tu sembri giusto tra coteste fronde,
tra le foglie di fico una giuncata;
        e se al candor la voce corrisponde,
ne incaco quanti cigni alzano il grido
là del Cefiso (n.29) alle famose sponde.
        Se tu cantar sapessi, io me la rido
di quanti uccelli ha il mondo: eh! che tu sai
che in un bel corpo una bell’alma ha il nido.
        Così disse la furba, e disse assai,
che il corvo d’ambizion gonfiato, e pregno
credè saper quel che non seppe mai.
        E per mostrar del canto il bell’ingegno
si compose, si scosse, e il fiato prese,
e a cantar cominciò sopra quel legno.
        Ma mentre egli stordia tutto il paese
col solito crà, crà, dal rostro aperto
cascò il formaggio, e la comar lo prese.
        Onde per farla da cantor esperto
si trovò digiun, come quel cane,
che lasciò il certo per segui l’incerto.
 
 
 
 
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Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998