Giovanni Della Casa

Galateo
overo de' costumi


[XXV]
(Aneddoto del Maestro Chiarissimo
- il costume e la ragione sono i maestri per porre freno alla natura
- l'educazione deve essere impartita fin nella più tenera età
)

         Secondo che racconta una molto antica cronica, egli fu già nelle parti della Morea un buono uomo scultore, il quale per la sua chiara fama, sì come io credo, fu chiamato per sopranome maestro Chiarissimo; costui, essendo già di anni pieno, distese certo suo trattato et in quello raccolse tutti gli ammaestramenti dell'arte sua, sì come colui che ottimamente gli sapea, dimostrando come misurar si dovessero le membra umane, sì ciascuno da sé, sì l'uno per rispetto all'altro, accioché convenevolmente fossero infra sé rispondenti. Il qual suo volume egli chiamò Il Regolo, volendo significare che secondo quello si dovessero dirizzare e regolare le statue che per lo innanzi si farebbono per gli altri maestri, come le travi e le pietre e le mura si misurano con esso il regolo; ma, conciosiaché il dire è molto più agevol cosa che il fare e l'operare; et, oltre a-cciò, la maggior parte degli uomini (massimamente di noi laici et idioti) abbia sempre i sentimenti più presti che lo 'ntelletto, e conseguentemente meglio apprendiamo le cose singolari e gli essempi che le generali et i sillogismi, la qual parola dee voler dire in più aperto volgare le ragioni; perciò, avendo il sopra detto valent'uomo risguardo alla natura degli artefici, male atta agli ammaestramenti generali, e per mostrare anco più chiaramente la sua eccellenza, provedutosi di un fine marmo, con lunga fatica ne formò una statua così regolata in ogni suo membro et in ciascuna sua parte come gli ammaestramenti del suo trattato divisavano: e, come il libro avea nominato, così nominò la statua, pur Regolo chiamandola. Ora fosse piacer di Dio che a me venisse fatto almeno in parte l'una sola delle due cose che il sopra detto nobile scultore e maestro seppe fare perfettamente, cioè di raccozzare in questo volume quasi le debite misure dell'arte della quale io tratto! Percioché l'altra di fare il secondo Regolo, cioè di tenere et osservare ne' miei costumi le sopra dette misure, componendone quasi visibile essempio e materiale statua, non posso io guari oggimai fare, conciosiaché nelle cose appartenenti alle maniere e costumi degli uomini non basti aver la scienzia e la regola, ma convenga, oltre a-cciò, per metterle ad effetto, aver eziandio l'uso, il quale non si può acquistare in un momento né in breve spazio di tempo, ma conviensi fare in molti e molti anni: et a me ne avanzano, come tu vedi, oggimai pochi. Ma non per tanto non dèi tu prestare meno di fede a questi ammaestramenti, ché bene può l'uomo insegnare ad altri quella via per la quale caminando egli stesso errò, anzi, per aventura, coloro che si smarrirono hanno meglio ritenuto nella memoria i fallaci sentieri e dubbiosi che chi si tenne pure per la diritta. E se nella mia fanciullezza, quando gli animi sono teneri et arrendevoli, coloro a' quali caleva di me avessero saputo piegare i miei costumi, forse alquanto naturalmente duri e rozzi, et ammollirgli e polirgli, io sarei per aventura tale divenuto quale io ora procuro di render te, il quale mi dèi essere non meno che figliuol caro. Ché, quantunque le forze della natura siano grandi, non di meno ella pure è assai spesso vinta e corretta dall'usanza, ma vuolsi tosto incominciare a farsele incontro et a rintuzzarla prima che ella prenda soverchio potere e baldanza; ma le più persone nol fanno, anzi, drieto all'appetito sviate e sanza contrasto seguendolo dovunque esso le torca, credono di ubidire alla natura, quasi la ragione non sia negli uomini natural cosa, anzi ha ella, sì come donna e maestra, potere di mutar le corrotte usanze e di sovenire e di sollevare la natura, ove che ella inchini o caggia alcuna volta. Ma noi non la ascoltiamo per lo più, e così per lo più siamo simili a coloro a chi Dio non la diede, cioè alle bestie, nelle quali, non di meno, adopera pure alcuna cosa non la loro ragione (ché niuna ne hanno per se medesime), ma la nostra; come tu puoi vedere che i cavalli fanno, che molte volte -anzi sempre- sarebbon per natura salvatichi, et il loro maestro gli rende mansueti et oltre a-cciò quasi dotti e costumati, percioché molti ne andrebbono con duro trotto, et egli insegna loro di andare con soave passo, e di stare e di correre e di girare e di saltare insegna egli similmente a molti, et essi lo apprendono, come tu sai che e' fanno. Ora, se il cavallo, il cane, gli uccelli e molti altri animali ancora più fieri di questi si sottomettono alla altrui ragione et ubidisconla et imparano quello che la loro natura non sapea, anzi ripugnava, e divengono quasi virtuosi e prudenti quanto la loro condizione sostiene, non per natura, ma per costume, quanto si dee credere che noi diverremmo migliori per gli ammaestramenti della nostra ragione medesima, se noi le dessimo orecchie? Ma i sensi amano et appetiscono il diletto presente, quale egli si sia, e la noia hanno in odio et indugianla, e perciò schifano anco la ragione e par loro amara, conciosiaché ella apparecchi loro innanzi non il piacere, molte volte nocivo, ma il bene, sempre faticoso e di amaro sapore al gusto ancora corrotto; percioché mentre noi viviamo secondo il senso, sì siamo noi simili al poverello infermo, cui ogni cibo, quantunque dilicato e soave, pare agro o salso, e duolsi della servente o del cuoco che niuna colpa hanno di ciò, imperoché egli sente pure la sua propria amaritudine in che egli ha la lingua rinvolta, con la quale si gusta, e non quella del cibo: così la ragione, che per sé è dolce, pare amara a noi per lo nostro sapore, e non per quello di lei. E perciò, sì come teneri e vezzosi, rifiutiamo di assaggiarla e ricopriamo la nostra viltà col dire che la natura non ha sprone o freno che la possa né spingere né ritenere: e certo, se i buoi o gli asini o forse i porci favellassero, io credo che non potrebbon proferire gran fatto più sconcia, né più sconvenevole, sentenza di questa. Noi ci saremmo pur fanciulli e negli anni maturi e nella ultima vecchiezza, e così vaneggeremmo canuti come noi facciamo bambini, se non fosse la ragione, che insieme con l'età cresce in noi, e, cresciuta, ne rende quasi di bestie uomini, sì che ella ha pure sopra i sensi e sopra l'appetito forza e potere, et è nostra cattività e non suo difetto, se noi trasandiamo nella vita e ne' costumi. Non è adunque vero che incontro alla natura non abbia freno né maestro: anzi ve ne ha due, ché l'uno è il costume e l'altro è la ragione, ma, come io ti ho detto poco di sopra, ella non può di scostumato far costumato sanza l'usanza, la quale è quasi parto e portato del tempo. Per la qual cosa si vuole tosto incominciare ad ascoltarla, non solamente perché così ha l'uomo più lungo spazio di avezzarsi ad essere quale ella insegna, et a divenire suo domestico et ad esser de' suoi, ma ancora però che la tenera età, sì come pura, più agevolmente si tigne d'ogni colore, et anco perché quelle cose alle quali altri si avezza prima sogliono sempre piacer più. E per questa cagione si dice che Diodato, sommo maestro di proferir le comedie, volle essere tuttavia il primo a proferire egli la sua, comeché degli altri che dovessero dire innanzi a-llui non fosse da far molta stima; ma non volea che la voce sua trovasse le orecchie altrui avezze ad altro suono, quantunque verso di sé peggior del suo. Poiché io non posso accordare l'opera con le parole, per quelle cagioni che io ti ho dette, come il maestro Chiarissimo fece, il quale seppe così fare come insegnare, assai mi fia l'aver detto in qualche parte quello che si dee fare, poiché in nessuna parte non vaglio a farlo io; ma, percioché in vedendo il buio si conosce quale è la luce et in udendo il silenzio sì si impara che sia il suono, sì potrai tu, mirando le mie poco aggradevoli e quasi oscure maniere, scorgere quale sia la luce de' piacevoli e laudevoli costumi. Al trattamento de' quali, che tosto oggimai arà suo fine, ritornando, diciamo che i modi piacevoli sono quelli che porgon diletto, o almeno non recano noia ad alcuno de' sentimenti, né all'appetito, né all'imaginazion di coloro co' quali noi usiamo: e di questi abbiamo noi favellato fin ad ora.


[XXVI]
(La bellezza femminile:
convenevole misura fra le parti verso di sé e fra le parti e 'l tutto
)

         Ma tu dèi oltre a-cciò sapere che gli uomini sono molto vaghi della bellezza e della misura e della convenevolezza, e, per lo contrario, delle sozze cose e contrafatte e difformi sono schifi: e questo è spezial nostro privilegio, ché gli altri animali non sanno conoscere che sia né bellezza né misura alcuna; e perciò, come cose non comuni con le bestie, ma proprie nostre, debbiam noi apprezzarle per sé medesime et averle care assai, e coloro viepiù che maggior sentimento hanno d'uomo, sì come quelli che più acconci sono a conoscerle. E comeché malagevolmente isprimere appunto si possa che cosa bellezza sia, non di meno, accioché tu pure abbi qualche contrasegno dell'esser di lei, voglio che sappi che, dove ha convenevole misura fra le parti verso di sé e fra le parti e 'l tutto, quivi è la bellezza: e quella cosa veramente bella si può chiamare, in cui la detta misura si truova. E per quello che io altre volte ne intesi da un dotto e scienziato uomo, vuole essere la bellezza uno quanto si può il più e la bruttezza per lo contrario è molti, sì come tu vedi che sono i visi delle belle e delle leggiadre giovani, percioché le fattezze di ciascuna di loro paion create pure per uno stesso viso; il che nelle brutte non adiviene, percioché, avendo elle gli occhi per aventura molto grossi e rilevati, e 'l naso picciolo e le guance paffute, e la bocca piatta e 'l mento in fuori, e la pelle bruna, pare che quel viso non sia di una sola donna, ma sia composto di visi di molte e fatto di pezzi. E trovasene di quelle, i membri delle quali sono bellissimi a riguardare ciascuno per sé, ma tutti insieme sono spiacevoli e sozzi, non per altro, se non che sono fattezze di più belle donne e non di questa una, sì che pare che ella le abbia prese in prestanza da questa e da quell'altra: e per aventura che quel dipintore che ebbe ignude dinanzi a sé le fanciulle calabresi, niuna altra cosa fece che riconoscere in molte i membri che elle aveano quasi accattato chi uno e chi un altro da una sola; alla quale fatto restituire da ciascuna il suo, lei si pose a ritrarre, imaginando che tale e così unita dovesse essere la bellezza di Venere. Né voglio io che tu ti pensi che ciò avenga de' visi e delle membra o de' corpi solamente, anzi interviene e nel favellare e nell'operare né più né meno, ché, se tu vedessi una nobile donna et ornata posta a lavar suoi stovigli nel rignagnolo della via publica, comeché per altro non ti calesse di lei, sì ti dispiacerebbe ella in ciò, che ella non si mostrerebbe pure una, ma più, percioché lo esser suo sarebbe di monda e di nobile donna e l'operare sarebbe di vile e di lorda femina; né perciò ti verrebbe di lei né odore né sapore aspero, né suono né colore alcuno spiacevole, né altramente farebbe noia al tuo appetito, ma dispiacerebbeti per sé quello sconcio e sconvenevol modo e diviso atto.


[XXVII]
(La bellezza è armonia: anche il vestire deve essere armonico)

         Convienti adunque guardare eziandio da queste disordinate e sconvenevoli maniere con pari studio, anzi con maggiore che da quelle delle quali io t'ho fin qui detto, percioché egli è più malagevole a conoscer quando altri erra in queste che quando si erra in quelle, conciosiaché più agevole si veggia essere il sentire che lo 'ntendere. Ma, non di meno, può bene spesso avenire che quello che spiace a' sensi spiaccia eziandio allo 'ntelletto, ma non per la medesima cagione, come io ti dissi di sopra, mostrandoti che l'uomo si dee vestire all'usanza che si vestono gli altri, accioché non mostri di riprendergli e di correggerli; la qual cosa è di noia allo appetito della più gente, che ama di esser lodata, ma ella dispiace eziandio al giudicio degli uomini intendenti, percioché i panni che sono d'un altro millesimo non s'accordano con la persona che è pur di questo. E similmente sono spiacevoli coloro che si vestono al rigattiere: ché mostra che il farsetto si voglia azzuffar co' calzari, sì male gli stanno i panni indosso. Sì che molte di quelle cose che si sono dette di sopra, o per aventura tutte, dirittamente si possono qui replicare, con ciò sia cosa che in quelle non si sia questa misura servata, della quale noi al presente favelliamo, né recato in uno et accordato insieme il tempo e 'l luogo e l'opera e la persona, come si convenia di fare, percioché la mente degli uomini lo aggradisce e prendene piacere e diletto: ma holle volute più tosto accozzare e divisare sotto quella quasi insegna de' sensi e dello appetito che assegnarle allo 'ntelletto, accioché ciascuno le possa riconoscere più agevolmente, conciosiaché il sentire e l'appetire sia cosa agevole a fare a ciascuno, ma intendere non possa così generalmente ogniuno, e maggiormente questo che noi chiamiamo bellezza e leggiadria o avenentezza.


[XXVIII]
(Fuggire vizi come lussuria, avarizia, crudeltà
- ogni azione deve essere armonica
)

         Non si dee adunque l'uomo contentare di fare le cose buone, ma dee studiare di farle anco leggiadre: e non è altro leggiadria che una cotale quasi luce che risplende dalla convenevolezza delle cose che sono ben composte e ben divisate l'una con l'altra e tutte insieme, sanza la qual misura eziandio il bene non è bello e la bellezza non è piacevole. E sì come le vivande, quantunque sane e salutifere, non piacerebbono agl'invitati se elle o niun sapore avessero o lo avessero cattivo, così sono alcuna volta i costumi delle persone, comeché per se stessi in niuna cosa nocivi, non di meno sciocchi et amari, se altri non gli condisce di una cotale dolcezza, la quale si chiama (sì come io credo) grazia e leggiadria. Per la qual cosa ciascun vizio per sé, sanza altra cagione, convien che dispiaccia altrui, conciosiaché i vitii siano cose sconcie e sconvenevoli sì, che gli animi temperati e composti sentono della loro sconvenevolezza dispiacere e noia. Per che innanzi ad ogni altra cosa conviene a chi ama di esser piacevole in conversando con la gente il fuggire i vitii e più i più sozzi, come lussuria, avarizia, crudeltà e gli altri, de' quali alcuni sono vili (come lo essere goloso e lo inebriarsi), alcuni laidi (come lo essere lussurioso), alcuni scelerati (come lo essere micidiale): e similmente gli altri, ciascuno in se stesso e per la sua proprietà è schifato dalle persone, chi più e chi meno, ma, tutti generalmente, sì come disordinate cose, rendono l'uomo nell'usar con gli altri spiacevole, come io ti mostrai anco di sopra. Ma perché io non presi a mostrarti i peccati, ma gli errori, degli uomini, non dee esser mia presente cura il trattar della natura de' vitii e delle virtù, ma solamente degli acconci e degli sconci modi che noi l'uno con l'altro usiamo: uno de' quali sconci modi fu quello del Conte Ricciardo (del quale io t'ho di sopra narrato), che, come difforme e male accordato con gli altri costumi di lui belli e misurati, quel valoroso Vescovo, come buono et ammaestrato cantore suole le false voci, tantosto ebbe sentito. Conviensi adunque alle costumate persone aver risguardo a questa misura che io ti ho detto, nello andare, nello stare, nel sedere, negli atti, nel portamento e nel vestire e nelle parole e nel silenzio e nel posare e nell'operare. Per che non si dee l'uomo ornare a guisa di femina, accioché l'ornamento non sia uno e la persona un altro, come io veggo fare ad alcuni che hanno i capelli e la barba inanellata col ferro caldo, e 'l viso e la gola e le mani cotanto strebbiate e cotanto stropicciate che si disdirebbe ad ogni feminetta, anzi ad ogni meretrice, quale ha più fretta di spacciare la sua mercatanzia e di venderla a prezzo. Non si vuole né putire né olire, accioché il gentile non renda odore di poltroniero, né del maschio venga odore di femina o di meretrice; né perciò stimo io che alla tua età si disdichino alcuni odoruzzi semplici di acque stillate. I tuoi panni convien che siano secondo il costume degli altri di tuo tempo o di tua condizione, per le cagioni che io ho dette di sopra; ché noi non abbiamo potere di mutar le usanze a nostro senno, ma il tempo le crea, e consumale altresì il tempo. Puossi bene ciascuno appropriare l'usanza comune; ché se tu arai per aventura le gambe molto lunghe e le robe si usino corte, potrai far la tua roba non delle più, ma delle meno, corte, e se alcuno le avesse o troppo sottili o grosse fuor di modo, o forse torte, non dee farsi le calze di colori molto accesi, né molto vaghi, per non invitare altrui a mirare il suo difetto. Niuna tua vesta vuole essere molto molto leggiadra, né molto molto fregiata, accioché non si dica che tu porti le calze di Ganimede o che tu ti sii messo il farsetto di Cupido, ma, quale ella si sia, vuole essere assettata alla persona e starti bene, accioché non paia che tu abbi indosso i panni d'un altro, e sopra tutto confarsi alla tua condizione, accioché il cherico non sia vestito da soldato e il soldato da giocolare. Essendo Castruccio in Roma con Lodovico il Bavero in molta gloria e trionfo, Duca di Lucca e di Pistoia e Conte di Palazzo e Senator di Roma e Signore e Maestro della corte del detto Bavero, per leggiadria e grandigia si fece una roba di sciamito cremesì, e dinanzi al petto un motto a lettere d'oro: EGLI È COME DIO VUOLE, e nelle spalle di drieto simili lettere che diceano: E' SARÀ COME DIO VORRÀ: questa roba credo io che tu stesso conoschi che si sarebbe più confatta al trombetto di Castruccio che ella non si confece a-llui. E quantunque i re siano sciolti da ogni legge, non saprei io tuttavia lodare il re Manfredi in ciò, che egli sempre si vestì di drappi verdi. Debbiamo adunque procacciare che la vesta bene stia non solo al dosso, ma ancora al grado, di chi la porta, et oltre a-cciò, che ella si convenga eziandio alla contrada ove noi dimoriamo, con ciò sia cosa che sì come in altri paesi sono altre misure, e non di meno il vendere et il comperare et il mercatantare ha luogo in ciascuna terra, così sono in diverse contrade diverse usanze, e pure in ogni paese può l'uomo usare e ripararsi acconciamente. Le penne che i Napoletani e gli Spagniuoli usano di portare in capo e le pompe e i ricami male hanno luogo tra le robe degli uomini gravi e tra gli abiti cittadini, e molto meno le armi e le maglie; sì che quello che in Verona per aventura converrebbe, si disdirà in Vinegia, percioché questi così fregiati e così impennati et armati non istanno bene in quella veneranda città pacifica e moderata, anzi paiono quasi ortica o lappole fra le erbe dolci e domestiche degli orti; e perciò sono poco ricevuti nelle nobili brigate, sì come difformi da loro. Non dee l'uomo nobile correre per via, né troppo affrettarsi, ché ciò conviene a palafreniere e non a gentiluomo, sanza che l'uomo s'affanna e suda et ansa, le quali cose sono disdicevoli a così fatte persone. Né perciò si dee andare sì lento né sì contegnoso come femina o come sposa, et in camminando troppo dimenarsi disconviene. Né le mani si vogliono tenere spenzolate, né scagliare le braccia, né gittarle, sì che paia che l'uom semini le biade nel campo, né affissare gli occhi altrui nel viso, come se egli vi avesse alcuna maraviglia. Sono alcuni che in andando levano il piè tanto alto come cavallo che abbia lo spavento, e pare che tirino le gambe fuori d'uno staio; altri percuote il piede in terra sì forte che poco maggiore è il romore delle carra; tale gitta l'uno de' piedi in fuori, e tale brandisce la gamba; chi si china ad ogni passo a tirar sù le calze, e chi scuote le groppe e pavoneggiasi: le quai cose spiacciono non come molto, ma come poco avenenti. Ché, se il tuo palafreno porta per aventura la bocca aperta o mostra la lingua, comeché ciò alla bontà di lui non rilievi nulla, al prezzo si monterebbe assai e troverestine molto meno, non perché egli fosse per ciò men forte, ma perché egli men leggiadro ne sarebbe. E se la leggiadria s'apprezza negli animali et anco nelle cose che anima non hanno né sentimento, come noi veggiamo che due case ugualmente buone et agiate non hanno perciò uguale prezzo se l'una averà convenevoli misure e l'altra le abbia sconvenevoli, quanto si dee ella maggiormente procacciare et apprezzar negli uomini?


[XXIX]
(Norme generali di comportamento)

         Non istà bene grattarsi sedendo a tavola, e vuolsi in quel tempo guardar l'uomo più che e' può di sputare e, se pure si fa, facciasi per acconcio modo. Io ho più volte udito che si sono trovate delle nazioni così sobrie che non isputavano già mai: ben possiamo noi tenercene per brieve spazio! Debbiamo eziandio guardarci di prendere il cibo sì ingordamente che perciò si generi singhiozzo o altro spiacevole atto, come fa chi s'affretta sì, che convenga che egli ansi e soffi con noia di tutta la brigata. Non istà medesimamente bene a fregarsi i denti con la tovagliuola e meno col dito, che sono atti difformi; né risciacquarsi la bocca e sputare il vino sta bene in palese; né in levandosi da tavola portar lo stecco a guisa d'uccello che faccia suo nido, o sopra l'orecchia come barbieri, è gentil costume. E chi porta legato al collo lo stuzzicadenti erra sanza fallo, ché, oltra che quello è uno strano arnese a veder trar di seno ad un gentiluomo e ci fa sovenire di questi cavadenti che noi veggiamo salir su per le panche, egli mostra anco che altri sia molto apparecchiato e provveduto per li servigi della gola; e non so io ben dire perché questi cotali non portino altresì il cucchiaio legato al collo! Non si conviene anco lo abbandonarsi sopra la mensa, né lo empiersi di vivanda amendue i lati della bocca sì che le guance ne gonfino; e non si vuol fare atto alcuno per lo quale altri mostri che gli sia grandemente piaciuta la vivanda o 'l vino, che sono costumi da tavernieri e da Cinciglioni. Invitar coloro che sono a tavola e dire:
         - Voi non mangiate stamane? -
o
         - Voi non avete cosa che vi piaccia? -
o
         - Assaggiate di questo, o di quest'altro -
non mi pare laudevol costume, tutto che il più delle persone lo abbia per famigliare e per domestico, perché, quantunque ciò facendo mostrino che loro caglia di colui cui essi invitano, sono eziandio molte volte cagione che quegli desini con poca libertà, percioché gli pare che gli sia posto mente e vergognasi. Il presentare alcuna cosa del piattello che si ha dinanzi non credo che stia bene, se non fosse molto maggior di grado colui che presenta, sì che il presentato ne riceva onore, percioché tra gli uguali di condizione pare che colui che dona si faccia in un certo modo maggior dell'altro e talora quello che altri dona non piace a colui a chi è donato, sanza che mostra che il convito non sia abondevole d'intromessi o non sia ben divisato, quando all'uno avanza et all'altro manca; e potrebbe il signor della casa prenderlosi ad onta; non di meno in ciò si dee fare come si fa e non come è bene di fare, e vuolsi più tosto errare con gli altri in questi sì fatti costumi che far bene solo. Ma, che che in ciò si convenga, non dèi tu rifiutar quello che ti è porto, ché pare che tu sprezzi e tu riprenda colui che 'l ti porge. Lo invitare a bere (la qual usanza, sì come non nostra, noi nominiamo con vocabolo forestiero, cioè far brindisi) è verso di sé biasimevole e nelle nostre contrade non è ancora venuto in uso, sì che egli non si dee fare; e, se altri invitarà te, potrai agevolmente non accettar lo 'nvito e dire che tu ti arrendi per vinto, ringraziandolo, o pure assaggiando il vino per cortesia, sanza altramente bere. E quantunque questo brindisi, secondo che io ho sentito affermare a più letterati uomini, sia antica usanza stata nelle parti di Grecia, e comeché essi lodino molto un buon uomo di quel tempo che ebbe nome Socrate, per ciò che egli durò a bere tutta una notte quanto la fu lunga a gara con un altro buon uomo che si faceva chiamare Aristofane, e la mattina vegnente in su l'alba fece una sottil misura per geometria, che nulla errò, sì che ben mostrava che 'l vino non gli avea fatto noia; e tutto che affermino oltre a-cciò che, così come lo arrischiarsi spesse volte ne' pericoli della morte fa l'uomo franco e sicuro, così lo avezzarsi a' pericoli della scostumatezza rende altrui temperato e costumato, e, percioché il bere del vino a quel modo, per gara, abondevolmente e soverchio è gran battaglia alle forze del bevitore, vogliono che ciò si faccia per una cotal pruova della nostra fermezza e per avezzarci a resistere alle forti tentazioni e a vincerle: ciò non ostante a me pare il contrario et istimo che le loro ragioni sieno assai frivole. E troviamo che gli uomini letterati per pompa di loro parlare fanno bene spesso che il torto vince e che la ragion perde, sì che non diamo loro fede in questo: et anco potrebbe essere che eglino in ciò volessino scusare e ricoprire il peccato della loro terra corrotta di questo vizio, conciosiaché il riprenderla parea forse pericoloso e temeano non per aventura avenisse loro quello che era avenuto al medesimo Socrate per lo suo soverchio andare biasimando ciascuno. Percioché per invidia gli furono apposti molti articoli di eresia et altri villani peccati, onde fu condannato nella persona, comeché falsamente, ché di vero fu buono e catolico secondo la loro falsa idolatria; ma certo perché egli beesse cotanto vino quella notte nessuna lode meritò, percioché più ne arebbe bevuto o tenuto un tino! E se niuna noia non gli fece, ciò fu più tosto virtù di robusto cièlabro, che continenza di costumato uomo. E che che si dichino le antiche croniche sopra ciò, io ringrazio Dio che, con molte altre pestilenze che ci sono venute d'oltra monti, non è fino a qui pervenuta a noi questa pessima, di prender non solamente in giuoco, ma eziandio in pregio lo inebriarsi. Né crederò io mai che la temperanza si debba apprendere da sì fatto maestro quale è il vino e l'ebrezza. Il siniscalco da sé non dee invitare i forestieri, né ritenergli a mangiar col suo signore, e niuno aveduto uomo sarà che si ponga a tavola per suo invito: ma sono alle volte i famigliari sì prosontuosi che quello che tocca al padrone vogliono fare pure essi. Le quali cose sono dette da noi in questo luogo più per incidenza che perché l'ordine che noi pigliammo da principio lo richiegga.


[XXX]
(Ancora norme di comportamento)

Non si dee alcuno spogliare, e spezialmente scalzare, in publico, cioè là dove onesta brigata sia, ché non si confà quello atto con quel luogo, e potrebbe anco avenire che quelle parti del corpo che si ricuoprono si scoprissero con vergogna di lui e di chi le vedesse. Né pettinarsi né lavarsi le mani si vuole tra le persone, ché sono cose da fare nella camera e non in palese, salvo (io dico del lavar le mani) quando si vuole ire a tavola, percioché allora si convien lavarsele in palese, quantunque tu niun bisogno ne avessi, affinché chi intigne teco nel medesimo piattello il sappia certo. Non si vuol medesimamente comparir con la cuffia della notte in capo, né allacciarsi anco le calze in presanza della gente. Sono alcuni che hanno per vezzo di torcer tratto tratto la bocca o gli occhi o di gonfiar le gote e di soffiare o di fare col viso simili diversi atti sconci; costoro conviene del tutto che se ne rimanghino, percioché la dea Pallade - secondamente che già mi fu detto da certi letterati - si dilettò un tempo di sonare la cornamusa, et era di ciò solenne maestra. Avenne che, sonando ella un giorno a suo diletto sopra una fonte, si specchiò nell'acqua e, avedutasi de' nuovi atti che sonando le conveniva fare col viso, se ne vergognò e gittò via quella cornamusa; e nel vero fece bene, percioché non è stormento da femine, anzi disconviene parimente a' maschi, se non fossero cotali uomini di vile condizione che 'l fanno a prezzo e per arte. E quello che io dico degli sconci atti del viso, ha similmente luogo in tutte le membra, ché non istà bene né mostrar la lingua, né troppo stuzzicarsi la barba, come molti hanno per usanza di fare, né stropicciar le mani l'una con l'altra, né gittar sospiri e metter guai, né tremare o riscuotersi (il che medesimamente sogliono fare alcuni), né prostendersi e prostendendosi gridare per dolcezza:
         - Oimé, oimé! -
come villano che si desti al pagliaio. E chi fa strepito con la bocca per segno di maraviglia e talora di disprezzo, si contrafà cosa laida, sì come tu puoi vedere; e le cose contrafatte non sono troppo lungi dalle vere. Non si voglion fare cotali risa sciocche, né anco grasse o difformi, né rider per usanza e non per bisogno, né de' tuoi medesimi motti voglio che tu ti rida, che è un lodarti da te stesso: egli tocca di ridere a chi ode e non a chi dice! Né voglio io che tu ti facci a credere che, percioché ciascuna di queste cose è un picciolo errore, tutte insieme siano un picciolo errore, anzi se n'è fatto e composto di molti piccioli un grande, come io dissi da principio; e quanto minori sono, tanto più è di mestiero che altri v'affisi l'occhio, percioché essi non si scorgono agevolmente, ma sottentrano nell'usanza che altri non se ne avede. E come le spese minute per lo continuare occultamente consumano lo avere, così questi leggieri peccati di nascosto guastano col numero e con la moltitudine loro la bella e buona creanza: per che non è da farsene beffe. Vuolsi anco por mente come l'uom muove il corpo, massimamente in favellando, percioché egli aviene assai spesso che altri è sì attento a quello che egli ragiona che poco gli cale d'altro; e chi dimena il capo e chi straluna gli occhi e l'un ciglio lieva a mezzo la fronte e l'altro china fino al mento, e tale torce la bocca, et alcuni altri sputano addosso e nel viso a coloro co' quali ragionano; trovansi anco di quelli che muovono sì fattamente le mani come se essi ti volessero cacciar le mosche: che sono difformi maniere e spiacevoli. Et io udii già raccontare (ché molto ho usato con persone scienziate, come tu sai) che un valente uomo, il quale fu nominato Pindaro, soleva dire che tutto quello che ha in sé soave sapore et acconcio fu condito per mano della Leggiadria e della Avenentezza. Ora, che debbo io dire di quelli che escono dello scrittoio fra la gente con la penna nell'orecchio? E di chi porta il fazzoletto in bocca? O di chi l'una delle gambe mette in su la tavola? E di chi si sputa in su le dita? E di altre innumerabili sciocchezze? le quali né si potrebbon tutte raccorre, né io intendo di mettermi alla pruova: anzi, saranno per aventura molti che diranno queste medesime che io ho dette essere soverchie.



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Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998