Alessandro Manzoni
Carmagnola
Notizie storiche
Francesco di
Bartolommeo Bussone, contadino, nacque in Carmagnola, donde prese il nome di guerra che
gli è rimasto nella storia. Non si sa di certo in qual anno nascesse: il Tenivelli, che
ne scrisse la vita nella Biografia Piemontese, crede che sia stato verso il 1390.
Mentre ancor giovinetto pascolava delle pecore, l'aria fiera del suo volto fu osservata da
un soldato di ventura, che lo invitò ad andare con lui alla guerra. Egli lo seguì
volentieri, e si mise con esso al soldo di Facino Cane, celebre condottiero.
Qui la storia del Carmagnola comincia ad
esser legata con quella del suo tempo; io non toccherò di questa se non i fatti
principali, e particolarmente quelli che sono accennati o rappresentati nella tragedia.
Alcuni di essi sono raccontati così diversamente dagli storici, che è impossibile
formarsene e darne una opinione, certa ed unica: tra le relazioni spesso varie, e talvolta
opposte, ho scelto quelle che mi sono parse più verosimili, o sulle quali gli scrittori
vanno più d'accordo.
Alla morte di Giovanni Maria Visconti
Duca di Milano (1412), il di lui fratello Filippo Maria Conte di Pavia era rimasto erede,
in titolo, del Ducato. Ma questo Stato, ingrandito dal loro padre Giovanni Galeazzo, s'era
sfasciato nella minorità di Giovanni, pessimamente tutelata, e nel suo debole e crudele
governo. Molte città s'eran ribellate, alcune erano tornate in potere de' loro antichi
signori, d'altre s'erano fatti padroni i condottieri stessi delle truppe ducali. Facino
Cane, uno di questi, il quale di Tortona, Vercelli ed altre città s'era formato un
piccolo principato, morì in Pavia lo stesso giorno che Giovanni Maria fu ucciso dai
congiurati in Milano. Filippo sposò Beatrice Tenda vedova di Facino, e con questo mezzo
si trovò padrone delle città già possedute da lui, e de' suoi militi.
Era tra essi il Carmagnola, e ci aveva
già un comando. Questo esercito corse col nuovo Duca sopra Milano, ne scacciò il figlio
naturale di Barnabò Visconti, Astorre, il quale se n'era impadronito, e lo sforzò a
ritirarsi in Monza, dove, assediato, rimase ucciso. Il Carmagnola si segnalò tanto in
questa impresa, che fu nominato condottiero dal Duca.
Tutti gli storici riguardano il
Carmagnola come artefice della potenza di Filippo. Fu il Carmagnola che gli riacquistò in
poco tempo Piacenza, Brescia, Bergamo, e altre città. Alcune ritornarono allo Stato per
vendita o per semplice cessione di quelli che le avevano occupate, il terrore che già
ispirava il nome del nuovo condottiero sarà probabilmente stato il motivo di queste
transazioni. Egli espugnò inoltre Genova, e la riunì agli stati del Duca. E questo, che
nel 1412 era senza potere e come prigioniero in Pavia, possedeva nel 1424 venti città «
acquistate », per servirmi delle parole di Pietro Verri, « con le nozze della infelice Duchessa [01], e colla fede e coi valore del
Conte Francesco ». Venne il Carmagnola creato dal Duca conte di Castelnovo, sposò
Antonietta Visconti parente di esso, non si sa in qual grado; e si fabbricò in Milano il
palazzo chiamato ancora del Broletto.
L'alta fama dell'esimio condottiero,
l'entusiasmo dei soldati per lui, il suo carattere fermo e altiero, la grandezza forse de'
suoi servizi, gli alienarono l'animo del Duca. I nemici del Conte, tra i quali il Bigli,
storico contemporaneo, cita Zanino Riccio e Oldrado Lampugnano, fomentarono i sospetti e
l'avversione del loro signore. Il Conte fu spedito governatore a Genova, e levato così
dalla direzione delle milizie. Aveva conservato il comando di trecento cavalli, il Duca
gli chiese per lettera che lo rinunziasse. Il Carmagnola rispose pregandolo che non
volesse spogliar dell'armi un uomo nutrito tra l'armi; e ben s'accorse, dice il Bigli [02], che questo era un consiglio de'
suoi nemici, i quali confidavano di poter tutto osare, quando lo avessero ridotto a
condizione privata. Non ottenendo risposta nè alle lagnanze, nè alla domanda espressa
d'esser licenziato dal servizio, il Conte si risolvette di recarsi in persona a parlare
col principe. Questo dimorava in Abbiategrasso. Quando il Carmagnola si presentò per
entrare nel castello, si sentì con sorpresa dire che aspettasse. Fattosi annunziare al
Duca, ebbe in risposta che era impedito, e che parlasse con Riccio. Insistette, dicendo
d'aver poche cose e da comunicarsi al Duca stesso, e gli fu replicata la prima risposta.
Allora, rivolto a Filippo che lo guardava da una balestriera, gli rimproverò la sua
ingratitudine e la sua perfidia, e giurò che presto si farebbe desiderare da chi non
voleva allora ascoltarlo; diede volta al cavallo, e partì coi pochi compagni che aveva
condotti con sè, inseguito invano da Oldrado, il quale, al dir del Bigli, credette meglio
di non arrivarlo.
Andò il Carmagnola in Piemonte, dove
abboccatosi con Amedeo, duca di Savoia, suo natural Principe, fece di tutto per inimicarlo
a Filippo; poi attraversando la Savoia, la Svizzera e il Tirolo, si portò a Treviso:
Filippo confiscò i beni assai ragguardevoli che il Carmagnola aveva nel Milanese
[03].
Giunto il Carmagnola a Venezia il giorno
23 di febbraio del 1425, vi fu accolto con distinzione, gli fu dato alloggio dal pubblico
nel Patriarcato, e concessa licenza di portar armi a lui e al suo seguito. Due giorni dopo
fu preso a servizio dalla Repubblica con 300 lance [04].
I Fiorentini, impegnati allora in una
guerra infelice contro il Duca Filippo, chiedevano l'alleanza dei Veneziani: il Duca
instava presso di essi perché volessero rimanere in pace con lui. In questo frattempo un
Giovanni Liprando, fuoruscito milanese, pattuì col Duca di ammazzare il Carmagnola,
purché gli fosse concesso di ritornare a casa. La trama fu sventata, e levò ai Veneziani
ogni dubbio che il Conte fosse mai più per riconciliarsi col suo antico principe. Il
Bigli attribuisce in gran parte a questa scoperta la risoluzione dei Veneziani per la
guerra. Il doge propose in senato che si consultasse il Carmagnola: questo consigliò la
guerra; il doge opinò pure caldamente per essa: e fu risoluta. La lega coi Fiorentinni e
con gli altri Stati d'Italia fu proclamata in Venezia il giorno 27 gennaio del 1426. Il
giorno 11 del mese seguente il Carmagnola fu creato capitano generale delle genti di terra
della repubblica: e il 15 gli fu dato dal Dogo il bastone e lo stendardo di capitano,
all'altare di San Marco.
Trascorrerò più rapidamente che mi
sarà possibile sugli avvenimenti di questa guerra, la quale fu interrotta da due paci,
fermandomi solo sui fatti che hanno somministrato materiali alla tragedia.
« Ridussesi la guerra in Lombardia, dove
fu governata dal Carmagnola virtuosamente, ed in pochi mesi tolse molte terre al Duca
insieme con la città di Brescia; la quale espugnazione in quelli tempi, e secondo quelle
guerre, fu tenuta mirabile » [05]. Papa
Martino V s'intromise; e sul finire dello stesso anno fu conclusa la pace, nella quale
Filippo cedette ai Veneziani Brescia col suo territorio.
Nella seconda guerra (1427) il Carmagnola
mise per la prima volta in uso un suo ritrovato di fortificare il campo con un doppio
recinto di carri, sopra ognuno dei quali stavano tre balestriori. Dopo molti piccoli
fatti, e dopo la presa d'alcune terre, s'accampò sotto il castello di Maclodio ch'era
ditoso da una guarnigione duchesca.
Comandavano nel campo del Duca quattro
insigni condottieri, Angelo della Pergola, Guido Torello, Francesco Sforza e Niccolò Piccinino [06]. Essendo nata discordia tra di
loro, il giovine Filippo vi mandò con pieni poteri Carlo Malatesti pesarese, di
nobilissima famiglia; ma, dice il Bigli, alla nobiltà mancava l'ingegno. Questo storico
osserva che il supremo comando dato al Malatesti non bastò a levar di mezzo la rivalità
dei condottieri; mentre nel campo veneto a nessuno repugnava d'ubbidire al Carmagnola,
benché avesse sotto di sé condottieri celebri, e principi come Giovanfrancesco Gonzaga,
signore di Mantova, Antonio Manfredi, di Faenza, e Giovanni Varano, di Camerino.
Il Carmagnola seppe conoscere il
carattere del generale nemico, e cavarne profitto. Attaccò Maclodio, in vicinanza del
quale era il campo duchesco. I due eserciti si trovarono divisi da un terreno paludoso, in
mezzo al quale passava una strada elevata a guisa d'argine e tra le paludi s'alzavano qua
e là delle macchie poste su un terreno più sodo: il Conte mise in queste degli agguati,
e si diede a provocare il nemico. Nel campo duchesco i pareri erano vari: i racconti
storici lo sono poco meno. Ma lopinione che pare più comune, è che il Pergola e il
Torello, sospettando d'agguati, opinassero di non dar battaglia: che lo Sforza e il
Piccinino la volessero a ogni costo. Carlo [Malatesti] fu del parere degli ultimi; la
diede e fu pienamente sconfitto. Appena il suo esercito ebbe affrontato il nemico, fu
assalito a destra e a sinistra dall'imboscate, e gli furono fatti, secondo alcuni, cinque,
secondo altri, otto mila prigionieri. Il comandante fu preso anche lui; gli altri quattro,
chi in una maniera, chi nell'altra si sottrassero.
Un figlio del Pergola si trovò tra i
prigionieri.
La notte dopo la battaglia, i soldati
vittoriosi lasciarono in libertà quasi tutti i prigionieri. I commissari veneti, che
seguivano l'esercito, ne fecero delle lagnanze col Conte; il quale domandò a qualcheduno
de' suoi cosa fosse avvenuto de' prigionieri; ed essendogli risposto che tutti erano stati
messi in libertà, meno un quattrocento, ordinò che anche questi fossero rilasciati,
secondo l'uso [07].
Uno storico che non solo scriveva in quei
tempi, ma aveva militato on quelle guerre, Andrea Redusio, è il solo, per quanto io
sappia, che abbia indicata la vera ragione di quest'uso militare d'allora. Egli
l'attribuisce al timore che i soldati avevano di veder presto finite le guerre, e di
sentirsi gridare dai popoli: alla zappa i soldati [08].
I Signori veneti furono punti e
insospettiti dal procedere del Conte: ma senza giusta ragione. Infatti prendendo al soldo
un condottiero, dovevano aspettarsi che farebbe la guerra secondo le leggi della guerra
comunemente seguite: e non potevano senza indiscrezione pretendere che prendesse il
rischioso impegno d'opporsi a un'usanza così utile e cara ai soldati, esponendosi a
venire in odio a tutta la milizia, e a privarsi d'ogni appoggio. Avevano bensì ragione di
pretender da lui la fedeltà e lo zelo, ma non una devozione illimitata: questa s'accorda
solamente a una causa che si abbraccia per entusiasmo o per dovere. Non trovo però che,
dopo le prime osservazioni de' commissari, la Signoria abbia fatte col Carmagnola altre
lagnanze su questo fatto: non si parla anzi che d'onori e di ricompense.
Nell'aprile del 1428 fu conclusa tra i
Veneziani e il Duca un'altra di quelle solite paci.
La guerra risorta nel 1431, non ebbe per
il Conte così prosperi cominciamenti come le due passate. Il castellano che comandava in
Soncino per il Duca, si finse disposto a cedere per tradimento quel castello al
Carmagnola. Questo ci andò con una parte dell'esercito, e cadde in un agguato, dove
lasciò prigionieri, secondo il Bigli, secento cavalli e molti fanti, salvandosi lui a
stento.
Pochi giorni dopo, Nicola Trevisani,
capitano dell'armata veneta sul Po, venne alle prese coi galeoni del Duca. Il Piccinino e
lo Sforza, facendo le viste di voler attaccare il Carmagnola, lo rattennero dal venire in
aiuto all'armata veneta, e intanto imbarcarono gran parte delle loro genti di terra sulle
navi del Duca. Quando il Carmagnola s'avvide dell'inganno, e corse per sostenere i suoi,
la battaglia era vicino all'altra riva. L'armata veneta fu sconfitta, e il capitano di
essa fuggì in una barchetta.
Gli storici veneti accusano qui il
Carmagnola d'aver patteggiato col nemico che non avrebbe soccorse le navi. Gli storici che
non hanno preso il tristo assunto di giustificare i suoi uccisori, non gli danno altra
taccia che d'esserci lasciato ingannare da uno stratagemma. Par certo che la condotta del
Trevisani fosse imprudente da principio, e irresoluta nella battaglia [09]. Fu bandito, e gli furono confiscati i beni; « e al
capitano generale (Carmagnola), per imputazione di non aver dato favore all'armata, con
lettere del Senato fu scritta una lieve riprensione » [10].
Il giorno 18 d'ottobre, il Carmagnola
diede ordine al Cavalcabò, uno de' suoi condottieri, di sorprendere Cremona. Questo
riuscì ad occuparne una parte; ma essendosi i cittadini levati a stormo, dovette
abandonare l'impresa, e ritornare al campo.
Il Carmagnola non credette a proposito
d'andar col grosso dell'esercito a sostenere quest'impresa; e mi par cosa strana che ciò
gli sia stato imputato a tradimento dalla Signoria. La resistenza, probabilmente
inaspettata, del popolo spiega benissimo perché il generale non si sia ostinato a
combattere una città, che sperava d'occupare tranquillamente per sorpresa: il tradimento
non ispiega nulla; giacché non si sa vedere perché il Carmagnola avrebbe ordinata la
spedizione, il cattivo esito della quale non fu d'alcun vantaggio per il nemico per il
nemico.
Ma la Signoria, risoluta, secondo
l'espressione del Navagero, a liberarsi del Carmagnola, cercò in qual maniera potesse
averlo nelle mani disarmato; e non ne trovò una più pronta né più sicura, che
d'invitarlo a Venezia col pretesto di consultarlo sulla pace. Ci andò senza sospetto e in
tutto il viaggio furono fatti onori straordinari a lui, e al Gonzaga che l'accompagnava.
Tutti gli storici, anche veneziani, sono d'accordo in questo; pare anzi che raccontino con
un sentimento di compiacenza questo procedere, come un bel tratto di ciò che altre volte
si chiamava prudenza e virtù politica. Arrivato a Venezia « gli furono mandati incontro
otto gentiluomini, avanti ch'egli smontasse a casa sua, che l'accompagnarono a San Marco » [11]. Entrato che fu nel palazzo
ducale, si rimandarono le sue genti, dicendo loro che il Conte si fermerebbe a lungo col
doge. Fu arrestato nel palazzo, e condotto in prigione. Fu esaminato da una Giunta, alla
quale il Navagero dà nome di Collegio secreto; e condannato a morte, fu, il giorno 5 di
maggio del 1432, condotto con le sbarre alla bocca tra le due colonne della Piazzetta, e
decapitato. La moglie e una figlia del Conte (o due figlie, secondo alcuni) si trovavano
allora in Venezia.
Nulla d'autentico si ha sull'innocenza o
sulla reitá di questo grand'uomo. Era da aspettarsi che gli storici veneziani, che
volevano scrivere e viver tranquilli, l'avrebbero trovato colpevole. Essi esprimono
quest'opinione come una cosa di fatto, e con quella negligenza che è naturale a chi parla
in favore della forza. Senza perdersi in congetture, asseriscono che il Carmagnola fu
convinto coi tormenti, coi testimoni e con le sue proprie lettere. Di questi tre mezzi di
prova, il solo che si sappia di certo essere stato adoprato è l'infamissimo primo, quello
che non prova nulla.
Ma oltre la mancanza assoluta di
testimonianze dirette, storiche, che confermino la reità del Carmagnola, molte
riflessioni la fanno parere improbabile. Né i Veneziani hanno rivelato mai quali fossero
le condizioni del tradimento pattuito; né da altra parte s'è saputo mai nulla d'un tale
trattato. Quest'accusa è isolata nella storia, e non si appoggia a nulla, se non a
qualche svantaggio di guerra, il quale anche si spiega senza ricorrere a questa
supposizione: e sarebbe una legge stravagante non meno che atroce, quella che volesse
imputato a perfidia del generale ogni evento infelice. Si badi inoltre all'essere il Conte
andato a Venezia senza esitazione, senza riguardi e senza precauzioni: si badi all'aver
sempre la Signoria fatto un mistero di questo fatto, malgrado la taccia d'ingratitudine e
d'ingiustizia che gli si dava in Italia; si badi alla crudele precauzione di mandare il
Conte al supplizio con le sbarre alla bocca, precauzione tanto più da notarsi, in quanto
s'adoprava con uno che non era veneziano, e non poteva aver partigiani nel popolo; si badi
finalmente al carattere noto del Carmagnola e del Duca di Milano, e si vedrà che l'uno e
l'altro ripugnano alla supposizione d'un trattato di questa sorte tra di loro. Una
riconciliazione segreta con un uomo che gli era stato orribilmente ingrato, e che aveva
tentato di farlo ammazzare, un patto di far la guerra da stracco, anzi di lasciarsi
battere, non s'accordano con l'animo impetuoso, attivo, avido di gloria del Carmagnola. Il
Duca non era perdonatore; e il Carmagnola, che lo conosceva meglio d'ogni altro, non
avrebbe mai potuto credere a una riconciliazione stabile e sicura con lui. Il disegno di
ritornare con Filippo offeso non poteva mai venire in mente a quell'uomo, che aveva
esperimentate le retribuzioni di Filippo beneficato.
Ho cercato se negli storici contemporanei
si trovasse qualche traccia dun'opinione pubblica, diversa da quella che la Signoria
veneta ha voluto far prevalere; ed ecco ciò che n'ho potuto raccogliere.
Un cronista di Bologna, dopo aver
raccontata la fine del Carmagnola, soggiunge: « Dissesi che questo hanno fatto perché
egli non faceva lealmente per loro la guerra contra il Duca di Milano, come egli doveva, e
che s'intendeva col Duca. Altri dicono che, come vedevano tutto lo Stato loro posto nelle
mani del Conte, capitano d'un tanto esercito, parendo loro di stare a gran pericolo, e non
sapendo con qual miglior modo potessero deporlo, han trovato cagione di tradimento contra
di lui. Iddio voglia che abbiano fatto saviamente; perché par pure, che per questo la
Signoria abbia molto diminuita la sua possanza, ed esaltata quella del Duca di Milano » [12].
E il Poggio: « Certuni dicono che non
abbia meritata la morte con delitto di sorte veruna; ma che ne fosse cagione la sua
superbia, insultante verso i cittadini veneti, e odiosa a tutti » [13].
Il Corio poi, scrittore non
contemporaneo, ma di poco posteriore, dice così: « Gli tolsero il valsente di più di
trecento migliaia di ducati, i quali furono piuttosto cagione della sua morte che altro ».
Senza dar molto peso a quest'ultirna
congettura, mi pare che le prime due, cioè il timore e le vendette private dell'amor
proprio, bastino, per que' tempi, a dare di questo avvenimento una spiegazione probabile,
e certo più probabile dun tradimento contrario all'indole e all'interesse dell'uomo
a cui fu imputato.
Tra quegli storici moderni, che non
adottando ciecamente le tradizioni antiche, le hanno esaminate con un libero giudizio, uno
solo, ch'io sappia, si mostrò persuaso affatto che il Carmagnola sia stato colpito da una
giusta sentenza. Questo è il Conte Verri; ma basta leggere il passo della sua Storia, che
si riferisce a questo avvenimento, per essere subito convinti che la sua opinione è
venuta dal non aver lui voluto informarsi esattamente dei fatti, sui quali andava
stabilita. Ecco le sue parole: « O foss'egli allontanato, per una ripugnanza dell'animo,
dal portare così la distruzione ad un Principe, dal quale aveva un tempo ottenuto gli
onori, e sotto del quale aveva acquistata la celebrità , ovvero fossegli ancora
nella fiducia, che umiliato il Duca venisse a fargli proposizioni di accomodamento, e gli
sacrificasse i meschini nemici, che avevano ardito di nuocergli, cioè i vilissimi
cortigiani suoi: o qualunque ne fosse il motivo, il Conte Francesco Carmagnola, malgrado
il dissenso dei Procuratori veneti, e malgrado la decisa loro opposizione, volle
rimandare, disarmati bensì ma liberi, al Duca tutti i generali ed i soldati
numerosissimi, che aveva fatti prigionieri nella vittoria del giorno 11 di ottobre 1427 .
. . Il séguito delle sue imprese fece sempre più palese il suo animo; poiché trascuro
tutte le occasioni, e lentamente progredendo, lasció sempre tempo ai ducali di
sostenersi. In somma, giunse a tale evidenza la cattiva fede del Conte Francesco
Carmagnola, che venne, dopo formale processo, decapitato in Venezia . . . come reo di alto
tradimento ». Fa stupore il vedere addotto in prova della reità dun uomo un
giudizio secreto di que' tempi, da uno storico che ne ha tanto conosciuta l'iniquità, e
che tanto si studia di farla conoscere a' suoi lettori. In quanto al fatto de'
prigionieri, ognuno vede gli errori della relazione che ho trascritta. Il Conte di
Carmagnola non rimandò liberi tutti i soldati, ma quattrocento soli; non rimandò i
generali, perché di questi non fu preso che il Malatesti, e fu ritenuto; non è esatto il
dire che i soldati fossero rimandati al Duca, furono semplicemente messi in libertà. Non
vedo poi perché si entri in congetture per ispiegare la condotta del Carmagnola in questa
occasione, quando la storia ne dà per motivo un'usanza comune.
La sorte del Carmagnola fece un gran
rumore in tutta l'Italia; e pare che in particolare i Piemontesi la sentissero più
acerbamente, e ne serbassero memoria, come lo indica il seguente aneddoto raccontato dal
Denina.
Il primo sospetto che i Veneziani ebbero
del segreto della lega di Cambrai, venne dalle relazioni d'un loro agente in Milano, il
quale era venuto a sapere « che un Carlo Giuffredo Piemontese, che si trovava fra i
Segretari di Stato del Governo di Milano ai servigi del Re Luigi, andava fra i suoi
famigliari dicendo essere venuto il tempo in cui sarebbesi abbondantemente vendicata la
morte del Conte Francesco Carmagnola suo compatriotto » [14].
Non ho citato questo tratto per
applaudire a un sentimento di vendetta, e di patriottismo municipale, ma come un indizio
del caso che si faceva di questo gran capitano in quella nobile e bellicosa parte
d'Italia, che lo considerava più specialmente come suo.
A quegli avvenimenti che si sono scelti
per farne il materiale della presente Tragedia, s'è conservato il loro ordine
cronologico, e le loro circostanze essenziali, se se ne eccettui l'aver supposto accaduto
in Venezia l'attentato contro la vita del Carmagnola, quando invece accadde in Treviso.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 gennaio 1999