Giacomo Leopardi
Discorso di un italiano
intorno alla poesia romantica
parte prima
Se alla difesa
delle opinioni de' nostri padri e de' nostri avi e di tutti i secoli combattute oggi da
molti intorno all'arte dello scrivere e segnatamente alla poetica si fossero levati uomini
famosi e grandi, e se agl'ingegni forti e vasti si fosse fatta incontro la forza e la
vastità degl'ingegni, e ai pensieri sublimi profondi, la sublimità e profondità dei
pensieri, né ci sarebbe oramai bisogno d'altre discussioni, né quando bene ci fosse
stato, avrei però ardito io di farmi avanti. Ora s'è risposto fin qui alle cose colle
parole, e agli argomenti colle facezie, e alla ragione coll'autorità, e la guerra è
stata fra la plebe e gli atleti, e fra i giornalisti e i filosofi, di maniera che non è
maraviglia se questi imbaldanziscono e paiono tenere il campo, e noi tra paurosi e
vergognosi e superbi, tenendoci al sicuro come dentro a recinti di muraglie e di torri,
gl'insultiamo tuttavia cogli stessi motteggi, quasi ch'esser ultimo a replicare fosse
vincere; né però questo stesso ci è conceduto. Ma se la nostra causa è giusta e buona,
e se noi siamo gagliardi e valorosi, e se confidiamo nel favore della ragione e della
verità, che non usciamo e non combattiamo? e perché mostriamo di non intendere quello
che intendiamo ottimamente ma che non ci quadra, o come ci persuadiamo senza nessuna
considerazione che sia falso quello che non intendiamo? Forse ci basta di mantenere in
quiete la coscienza nostra, e purch'ella con dubbi importuni non ci molesti, e ci lasci
seguitare sicuramente e lietamente i nostri studi e i nostri scritti senza quella
formidabile svogliatezza che proviene dal timore di gittare il tempo e le fatiche, non ci
curiamo d'altro, e per questo fuggiamo di venire alle prese e giuochiamo largo, non
temendo tanto il nemico che è fuori quanto quello ch'è dentro di noi medesimi? No, per
Dio, non sia così; ma non cerchiamo altro che il vero: e se tutto quello che abbiamo
imparato è vano, e se quello che parea certo e falso, e quello che credevamo di vedere
non si vedeva, e quello che credevamo di toccare non si toccava, e se tanti altissimi
ingegni, e tanti dotti e tanti secoli tutti né più né meno si sono ingannati, sia con
Dio. Non guardiamo che bisognerà far conto di non avere fino ad ora studiato né sudato,
anzi di avere e studiato e sudato da pazzi e per niente, dire addio ai libri quasi nostri
amici e compagni, bruciare gli scritti nostri, e in somma farci da capo, e giovani o
vecchi che siamo, cominciare una vita nuova: rallegriamoci più tosto che ci sia toccato
quello che a' nostri maggiori non toccò, di conoscere finalmente il vero, e di questo
vero gioviamoci noi e facciamo ch'altri si giovi parimente. Ma se nebbie e sogni e
fantasmi sono più tosto le opinioni moderne, e se i nostri antenati hanno veduto chiaro,
e se la verità non ha penato tanti secoli a uscire al giorno, perché lasciamo che la
gente sia confusa e ingannata, e che la gioventù nostra stia in forse di quale delle due
dottrine s'abbia a fidare? Confesso che un silenzio magnanimo pareva a me pure il meglio,
anzi la sola cosa che convenisse ai veri savi in questa disputa: e l'esempio de' veri savi
che non ci aprono bocca, non mi confermava nella mia opinione nella quale era fermissimo,
ma mi consolava il vedere che il giudizio loro concordava in questo particolare col mio.
Nondimeno sì molte altre cose, come l'aver lette e considerate le Osservazioni del
Cavaliere Lodovico di Breme intorno alla poesia moderna, secondoché la chiama egli,
m'hanno indotto a pensare che se forse il commuoversi di un uomo illustre e il rompere
quel silenzio disdegnoso potrebbe nuocere, il comparire di un uomo oscuro il quale dica
non motti ma ragioni, non possa nuocere e possa giovare, perché né la sconfitta d'un
fiacchissimo combattente potrà pregiudicare alla fama dell'esercito, e caso ch'egli
paresse aver fatto qualche cosa, si potrà stimare quante e quanto più grandi ne
farebbero i forti. Senz'altro le Osservazioni del Cavaliere a me paiono pericolose; e dico
pericolose, perché sono per la più parte acute e ingegnose e profonde, e questo, se a
noi non par vero quello che pare al Breme, dobbiamo giudicare che sia pericoloso, potendo
persuadere a molti quello che secondo noi è falso, e che certamente è di tanto rilievo
quanto le lettere e la poesia. Però così debole come sono, ho deliberato di vedere se
l'affetto che porto focosissimo alla mia patria e molto più al vero, mi darà forza
dicendo e per la patria e per quello ch'io credo vero. Userò, come ho detto, le ragioni,
e niente altro che le ragioni: non so se saranno metafisiche, ma saranno ragioni; e se non
tutte o non molte nuove, da questo stesso facilmente si potrà inferire che le opinioni di
coloro che si chiamano romantici, posto che non sieno antiche, certo hanno radici
antichissime, e con istrumenti d'antichissimo uso si possono abbattere e sradicare.
E come mi terrò lontano da molte usanze
di quei che per l'addietro sono venuti a quistione coi romantici, così massimamente non
proccurerò né mi vanterò di non intendere, del qual costume si lagna il Breme a
ragione, imperocché chi del continuo protesta di non intendere, quegli rifiuta ogni
controversia. Ma, dirò pure quello che sento, a volere intender bene il Cavaliere e
qualcheduno de' romantici, forse alle volte non basta né il desiderio né l'ingegno, ma
ci vuole un cuore che sappia aprirsi e diffondersi e palpitare d'altro che di paura o cose
simili, e una mente non al tutto inesperta del fuoco e dell'impeto delle arti belle. Ora
se la mia mente sia tale, e se il mio cuore abbia mai palpitato per cagione non vile, non
è cosa da farne discorso: basta ch'io penso d'avere intesi i ragionamenti del Cavaliere:
questo però né egli né altro lo dovrà credere alle mie parole, ma sì bene ai fatti,
cioè se io nel discutere le osservazioni del Cavaliere, darò indizio d'averle intese.
Tratterò della poesia romantica non già pienamente, che questo da vero sarebbe un carico
disadatto alle mie spalle, ed io togliendolo mi mostrerei temerario non coraggioso; ma
quanto basterà per tener dietro alle Osservazioni predette: e già quest'assunto non è
piccolo, anzi io guardando come di lontano la folla delle materie dentro la quale bisogna
ch'io mi cacci, quasi mi sbigottisco, e non so che strada troverò d'esser breve in tanta
moltitudine di cose e in tanta necessità d'esser chiaro. Tuttavia stimo che agitando le
opinioni del Breme verrò anche a tentare i fondamenti delle opinioni romantiche, se bene
queste sono così confuse e gregge e scombinate e in gran parte ripugnanti che bisogna
quasi assalirle a una a una, e atterrata una parte dell'edifizio, l'altra non pertanto si
tiene in piede, segno non di fortezza ma di sconnessione, e però di debolezza. E
incominciando dico che non paleserò il nome mio, per non far vista di credere né che
altri, letto quello ch'io scriverò, possa desiderare d'aver notizia di chi scrisse, né
che il mio nome manifestato vaglia a darmi a conoscere, ignotissimo com'egli è. Per
queste cagioni terrò nascosto il mio nome, non per timore, o Italiani, ch'io non temerò
mai scrivendo il vero e scrivendo come potrò per voi, né l'odio di chicchessia né il
potere o la fama di chicchessia.
Già è cosa manifesta e notissima che i
romantici si sforzano di sviare il più che possono la poesia dal commercio coi sensi, per
li quali è nata e vivrà finattantoché sarà poesia, e di farla praticare
coll'intelletto, e strascinarla dal visibile all'invisibile e dalle cose alle idee, e
trasmutarla di materiale e fantastica e corporale che era, in metafisica e ragionevole e
spirituale. Dice il Cavaliere che la smania poetica degli antichi veniva soprattutto
dall'ignoranza, per la quale maravigliandosi balordamente d'ogni cosa, e credendo
di vedere a ogni tratto qualche miracolo, pigliarono argomento di poesia da qualunque
accidente, e immaginarono un'infinità di forze soprannaturali e di sogni e di larve: e
soggiunge che presentemente, avendo gli uomini considerate e imparate, e intendendo e
conoscendo e distinguendo tante cose, ed essendo persuasi e certi di tante verità, nelle
facoltà loro non sono, dic'egli co' suoi termini d'arte, compatibili insieme e
contemporanei questi due effetti, l'intuizione logica e il prestigio favoloso: smagata è
dunque di questa immaginazione la mente dell'uomo. Ora da queste cose, chi voglia
discorrer bene e da logico, segue necessarissimamente che la poesia non potendo più
ingannare gli uomini, non deve più fingere né mentire, ma bisogna che sempre vada dietro
alla ragione e alla verità. E notate, o lettori, sul bel principio quell'apertissima e
famosa contraddizione. Imperocché i romantici i quali s'accorgevano ottimamente che tolta
alla poesia già conciata com'essi l'avevano, anche la facoltà di fingere e di mentire,
la poesia finalmente né più né meno sarebbe sparita, e di netto si sarebbe immedesimata
e diventata tutt'uno colla metafisica, e risoluta in un complesso di meditazioni, non che
abbiano soggettata pienamente la poesia alla ragione e alla verità, sono andati in cerca
fra la gentaglia presente di ciascheduna classe, e specialmente fra il popolaccio, di
quelle più strane e pazze e ridicole e vili e superstiziose opinioni e novelle che si
potevano trovare, e di queste hanno fatto materia di poesia; e quello ch'è più mirabile,
intantoché maledicevano l'uso delle favole greche, hanno inzeppate ne' versi loro quante
favole turche arabe persiane indiane scandinave celtiche hanno voluto, quasi che l'intuizione
logica che col prestigio favoloso della Grecia non può stare, con quello
dell'oriente e del settentrione potesse stare. Ma di questa incredibile contraddizione
d'aver fatto tesoro delle favole orientali e settentrionali dopo scartate le favole greche
come ripugnanti ai costumi e alle credenze e al sapere dell'età nostra, parlerò più
avanti a suo luogo. Ora tornando al Cavaliere, seguita egli dicendo immediatamente che la
facoltà immaginativa è sostanzialissima nell'uomo, di maniera che non può svanire né
scemare, ma per l'opposto arde oggi come sempre d'essere invasa rapita innamorata
atterrita E PERFIN SEDOTTA (qui sta il punto); né avverrà mai che non soggiaccia
alle ILLUSIONI delle forme armoniche, alle estasi della sublime contemplazione,
all'efficacia dei quadri ideali, purché non sieno più arbitrari DEL TUTTO, E DEL
TUTTO nudi di analogia con quel vero che ne circonda, o con quello ch'è in noi. Ed
ecco come anch'egli concede che la poesia debba ingannare, la qual cosa poi asserisce e
conferma risolutamente in cento altri luoghi delle sue osservazioni. A me pare di scorgere
molto chiaramente che il Cavaliere medesimo arrivato a questo passo vide che il suo
ragionamento si piegava, e la punta si disviava, e s'io non erro, quelle parole perfino
e del tutto sono la saldatura ch'egli ci volle fare, come tutto giorno si fa, dopo
che quello, torcendosegli fra le mani, se gli fu rotto. Ma questa saldatura è veramente
di parole, perché dalle cose precedenti seguita che la poesia non possa né debba
ingannare, e se ella può e deve ingannare, tutti i raziocini susseguenti del Cavaliere e
dei romantici, non avendo dove posino, è forza che caschino a terra. Imperocché non c'è
chi non sappia che bisogna distinguere due diversi inganni; l'uno chiameremo
intellettuale, l'altro fantastico. Intellettuale è quello per esempio d'un filosofo che
vi persuada il falso. Fantastico è quello delle arti belle e della poesia a' giorni
nostri; giacché non è più quel tempo che la gente si guadagnava il vitto cantando per
le borgate e pe' chiassuoli i versi d'Omero, e che tutta la Grecia raunata e seduta in
Olimpia ascoltava e ammirava le storie d'Erodoto più soavi del mele, onde poi nel
vederlo, l'uno diceva all'altro, mostrandolo a dito: Questi è quegli che ha scritte le
guerre di Persia, e lodate le vittorie nostre: ma oggi i lettori o uditori del poeta
non sono altro che persone dirozzate e, qual più qual meno, intelligenti: vero è ch'il
poeta in certo modo deve far conto di scrivere pel volgo; se bene i romantici pare che
vengano a volere per lo contrario ch'egli scriva pel volgo e faccia conto di scrivere per
gl'intelligenti, le quali due cose sono contraddittorie, ma quelle che ho detto io, non
sono; perché la fantasia degl'intelligenti può bene, massime leggendo poesie e volendo
essere ingannata, quasi discendere e mettersi a paro di quella degl'idioti, laddove la
fantasia degl'idioti non può salire e mettersi a paro di quella degl'intelligenti. Ora di
questi che ho detto essere i lettori o uditori del poeta, l'intelletto non può essere
ingannato dalla poesia, ben può essere ed è ingannata molte volte l'immaginativa. Il
Cavaliere dunque e col Cavaliere i romantici quando gridano che il poeta nel fingere
s'adatti ai costumi e alle opinioni nostre e alle verità conosciute presentemente, non
guardano che il poeta non inganna gl'intelletti né gl'ingannò mai, se non per avventura
in quei tempi antichissimi che ho detto di sopra, ma solamente le fantasie; non guardano
che sapendo noi così tosto come, aperto un libro, lo vediamo scritto in versi, che quel
libro è pieno di menzogne, e desiderando e proccurando quando leggiamo poesie, d'essere
ingannati e nel metterci a leggere preparando e componendo quasi senza avvedercene la
fantasia a ricevere e accogliere l'illusione, è ridicola a dire che il poeta non la possa
illudere quando non s'attenga alle opinioni e ai costumi nostri, quasi che noi non le
dessimo licenza di lasciarsi ingannare più che tanto, e che ella non avesse forza di
scordarsi né il poeta di farle scordare e opinioni e consuetudini e checchessia, non
guardano che l'intelletto in mezzo al delirio dell'immaginativa conosce benissimo ch'ella
vaneggia, e onninamente e sempre tanto crede al meno falso quanto al più falso, tanto
agli Angeli del Milton e alle sostanze allegoriche del Voltaire quanto agli Dei d'Omero,
tanto agli spettri del Bürger e alle befane del Southey, quanto all'inferno di Virgilio,
tanto che un Angelo collo scudo celeste di lucidissimo diamante abbia difeso
Raimondo, quanto che Apollo coll'egida irsuta e fimbriata abbia preceduto
Ettore nella battaglia. In somma tutto sta, come ho detto da principio, se la poesia debba
illudere o no; se deve, com'è chiaro che deve, e come i romantici affermano
spontaneamente, tutto il resto non è altro che parole e sofisticherie e volerci far
credere a forza d'argomenti quello che noi sappiamo che non è vero; perché in fatti
sappiamo che il poeta sì come per cristiano e filosofo e moderno che sia in ogni cosa,
non c'ingannerà mai l'intelletto, così per pagano e idiota e antico che si mostri,
c'ingannerà l'immaginazione ogni volta che fingerà da vero poeta.
Resta perciò che questi potendo illudere
come vuole, scelga dentro i confini del verisimile quelle migliori illusioni che gli pare,
e quelle più grate a noi e meglio accomodate all'ufficio della poesia, ch'è imitar la
natura, e al fine, ch'è dilettare. E sia pure più malagevole a preparare quelle
illusioni che ci debbono quasi vestire d'opinioni e consuetudini diverse dalle nostre: non
è obbligo né virtù del poeta lo scegliere assunti facili, ma il fare che paiano facili
quelli che ha scelti. Ora bisogna vedere se quel poeta che non va molto dietro alle
opinioni e alle usanze d'oggidì, posto che del rimanente sia gran poeta, diletta più o
meno gli animi, seconda più o meno la natura e per tanto il buon gusto, di chi tuttavia
s'attiene alle cose presenti: imperocché è manifesto che quella strada la quale conduce
al maggiore e sostanziale e sodo e puro e naturale diletto degli uditori, quella
senz'altro va tenuta nella poesia, non potendo accadere che questa c'inganni mai altro che
l'immaginativa. Ma forse, contuttoch'il volgo, non mica ieri né ierlaltro, ma da
lunghissimo tempo abbia finito di sentire la voce dei poeti, vorranno i romantici che
anch'egli debba essere effettivamente uditore o lettore del poeta; e questo mentreché si
sforzano di rendere la poesia quanto più possono astrusa e metafisica e sproporzionata
all'intelligenza del volgo. Comunque sia, poniamo che questo possa essere indotto ad
ascoltare o leggere i poeti: più facilmente crederò che altri speri di farlo di quello
che si possa fare; ma poniamo che sia fatto, e che però anche l'illusione intellettuale
sia possibile al poeta: primieramente domando quale delle due sia meglio; o adattandosi
alla religione alle opinioni ai costumi e in questa maniera conciliandosi la credenza del
popolo, e contuttociò mentendo così per la necessità della poesia; come perché
grandissima parte delle opinioni del popolo è falsa, ingannarlo positivamente, e
riempiergli la testa d'errori e di fandonie, e conficcarci meglio quelle che ci sono, e
confortarlo alle fanciullaggini, e accrescergli le superstizioni e gli spauracchi, e
corroborargli l'ignoranza; o seguendo altre opinioni e costumi, fingere in maniera che il
volgo abbia sì bene da tali finzioni quel diletto ch'è il fine della poesia, ma non le
creda fuorché coll'immaginativa, e quindi senza nessun danno. Imperocché, tratta materia
di poesia dalla religione e dalle opinioni e dai costumi presenti, di necessità deve
accadere una di queste tre cose; o che il poeta non menta mai, e non sia più poeta; o che
mentendo inganni gl'intelletti del volgo, e gli noccia veramente ed empiamente,
sopraccaricandolo di credenze vane e malvage, atteso ch'in materia di religione, secondo
noi, qualunque credenza falsa è malvagia; o che gl'inganni solamente le immaginative, e
da questo (conceduto che possa avvenire, che certo non avverrebbe se non di rarissimo,
perché il volgo per lo più crederebbe da vero) discendo a quello ch'io voleva dire in
secondo luogo, cioè che potendo il poeta ingannare le fantasie anche quando non s'attenga
alle credenze e agli usi moderni, quello che s'è detto in proposito degl'intelligenti,
dee valere anche per gl'idioti; sì che per questi parimente andrebbero scelte quelle
finzioni che dilettassero meglio, più o meno che ingannassero, stante ch'il fine della
poesia non è l'ingannare ma il dilettare: l'inganno pel poeta è un mezzo, capitalissimo
certo, ma basta l'inganno dell'immaginazione, se no nessuno degl'intelligenti sarebbe
dilettato dalla poesia, e quell'inganno che può stare col vero e proprio diletto poetico.
Queste cose che ho dette del popolo, bisogna intenderle dirittamente, il che avverto
perché quasi pare ch'io tenga contro i romantici che la poesia non debba esser popolare,
quando e noi la vogliamo popolarissima, e i romantici la vorrebbero metafisica e
ragionevole e dottissima e proporzionata al sapere dell'età nostra del quale il volgo
partecipa poco o niente. Ma già ho notato due volte questa contraddizione dei romantici,
e di contraddizioni la nuova filosofia ne ribocca; talmente che forse in progresso mi
toccherà qualche altra volta di combattere due opinioni contrarie, l'una delle quali
s'avvicini alla nostra, e se il lettore non ci guarderà molto per minuto, gli dovrà
parere ch'io combatta me medesimo. Ora cerchiamo quello che ho detto, cioè quale delle
due maniere sia più naturale nella poesia e più sodamente dilettevole tanto
agl'intelligenti che agl'idioti, voglio dire o l'antica o la moderna.
E l'esperienza e la conversazione
scambievole e lo studio e mille altre cagioni che non occorre dire, ci hanno fatti col
tempo tanto diversi da quei nostri primi padri che se questi risuscitassero, si può
credere che a stento ci ravviserebbero per figli loro. Laonde non è maraviglia se noi
così pratici e dotti e così cambiati come siamo, ai quali è manifesto quello che agli
antichi era occulto, e noto un mondo di cagioni che agli antichi era ignoto, e certo
quello che agli antichi era incredibile, e vecchio quello che agli antichi era nuovo, non
guardiamo più la natura ordinariamente con quegli occhi, e nei diversi casi della vita
nostra appena proviamo una piccolissima parte di quegli effetti che le medesime cagioni
partorivano ne' primi padri. Ma il cielo e il mare e la terra e tutta la faccia del mondo
e lo spettacolo della natura e le sue stupende bellezze furono da principio conformate
alle proprietà di spettatori naturali: ora la condizione naturale degli uomini è quella
d'ignoranza; ma la condizione degli scienziati che contemplando le stelle, sanno il
perché delle loro apparenze, e non si maravigliano del lampo né del tuono, e
contemplando il mare e la terra, sanno che cosa racchiuda la terra e che cosa il mare, e
perché le onde s'innoltrino e si ritirino, e come soffino i venti e corrano i fiumi e
quelle piante crescano e quel monte sia vestito e quell'altro nudo, e che conoscono a
parte a parte gli affetti e le qualità umane, e le forze e gli ordigni più coperti e le
attenenze e i rispetti e le corrispondenze del gran composto universale, e secondo il
gergo della nuova disciplina le armonie della natura e le analogie e
le simpatie, è una condizione artificiata: e in fatti la natura non si palesa ma
si nasconde, sì che bisogna con mille astuzie e quasi frodi, e con mille ingegni e
macchine scalzarla e pressarla e tormentarla e cavarle di bocca a marcia forza i suoi
segreti: ma la natura così violentata e scoperta non concede più quei diletti che prima
offeriva spontaneamente. E quello che dico degli scienziati dico proporzionatamente più o
meno di tutti gl'inciviliti, e però di noi, massime di quella parte di noi che non è
plebe, e tra la plebe di quella parte ch'è cittadina, e di qualunque è più discosto
dalla condizione primitiva e naturale degli uomini. Non contendo già dell'utile, né mi
viene pure in mente di gareggiare con quei filosofi che piangono l'uomo dirozzato e
ripulito e i pomi e il latte cambiati in carni, e le foglie d'alberi e le pelli di bestie
rivolte in panni, e le spelonche e i tuguri in palazzi, e gli eremi e le selve in città:
non è del poeta ma del filosofo il guardare all'utile e al vero: il poeta ha cura del
dilettoso, e del dilettoso alla immaginazione, e questo raccoglie così dal vero come dal
falso, anzi per lo più mente e si studia di fare inganno, e l'ingannatore non cerca il
vero ma la sembianza del vero. Le bellezze dunque della natura conformate da principio
alle qualità ed ordinate al diletto di spettatori naturali, non variano per variare de'
riguardanti, ma nessuna mutazione degli uomini indusse mai cambiamento nella natura, la
quale vincitrice dell'esperienza e dello studio e dell'arte e d'ogni cosa umana
mantenendosi eternamente quella, a volerne conseguire quel diletto puro e sostanziale
ch'è il fine proprio della poesia (giacché il diletto nella poesia scaturisce
dall'imitazione della natura), ma che insieme è conformato alla condizione primitiva
degli uomini, è necessario che, non la natura a noi, ma noi ci adattiamo alla natura, e
però la poesia non si venga mutando, come vogliono i moderni, ma ne' suoi caratteri
principali, sia, come la natura, immutabile. E questo adattarsi degli uomini alla natura,
consiste in rimetterci coll'immaginazione come meglio possiamo nello stato primitivo de'
nostri maggiori, la qual cosa ci fa fare senza nostra fatica il poeta padrone delle
fantasie. Ora che così facendo noi, ci s'apra innanzi una sorgente di diletti incredibili
e celesti, e che la natura invariata e incorrotta discopra allora non ostante
l'incivilimento e la corruzione nostra il suo potere immortale sulle menti umane, e che in
somma questi diletti sieno anche oggidì quelli che noi pendiamo naturalmente a desiderare
sopra qualunque altro quando ci assettiamo ad essere ingannati dalla poesia, di leggeri si
può comprendere, soltanto che, oltre il fatto medesimo, si ponga mente alla nostra
irrepugnabile inclinazione al primitivo, e al naturale schietto e illibato, la quale è
per modo innata negli uomini, che gli effetti suoi perché sono giornalieri non si
considerano, e accade in questa come in mille altre cose, che la frequenza impedisce
l'attenzione. Ma da quale altra fonte derivano e il nostro infinito affetto alla
semplicità de' costumi e delle maniere e del favellare e dello scrivere e d'ogni cosa; e
quella indicibile soavità che ci diffonde nell'anima non solamente la veduta ma il
pensiero e le immagini della vita rustica, e i poeti che la figurano, e la memoria de'
primi tempi, e la storia de' patriarchi e di Abramo e d'Isacco e di Giacobbe e dei casi e
delle azioni loro ne' deserti e della vita nelle tende e fra gli armenti, e quasi tutta
quella che si comprende nella Scrittura e massimamente nel libro della Genesi; e quei moti
che ci suscita e quella beatitudine che ci cagiona la lettura di qualunque poeta espresse
e dipinse meglio il primitivo, di Omero di Esiodo di Anacreonte, di Callimaco
singolarmente? E quelle due capitali disposizioni dell'animo nostro, l'amore della
naturalezza e l'odio dell'affettazione, l'uno e l'altro ingeniti, credo, in tutti gli
uomini, ma gagliardissimi ed efficacissimi in chiunque ebbe dalla natura indole veramente
accomodata alle arti belle, provengono parimente dalla nostra inclinazione al primitivo. E
questa medesima fa che qualora ci abbattiamo in oggetti non tocchi dall'incivilimento,
quivi e in ogni reliquia e in ogni ombra della prima naturalezza, quasi soprastando,
giocondissimamente ci compiacciamo con indistinto desiderio; perché la natura ci chiama e
c'invita, e se ricusiamo, ci sforza, la natura vergine e intatta, contro la quale non può
sperienza né sapere né scoperte fatte, né costumi cambiati né coltura né artifizi né
ornamenti, ma nessuna né splendida né grande né antica né forte opera umana
soverchierà mai né pareggerà, non che altro, un vestigio dell'opera di Dio. E che
questo che ho detto, sia vero, chi è di noi, non dico poeta non musico non artefice non
d'ingegno grande e sublime, dico lettore di poeti e uditore di musici e spettatore
d'artefici, dico qualunque non è così guasto e disumanato e snaturato che non senta più
la forza di nessuna fuorché lorda o bassa inclinazione umana e naturale, - chi è che non
lo sappia e non lo veda e non lo senta e non lo possa confermare col racconto
dell'esperienza propria certissima e frequentissima? E se altri mancano, chiamo voi,
Lettori, in testimonio, chiamo voi stesso o Cavaliere: non può mancare a voi
quell'esperienza ch'io cerco, non può ignorare il cuor vostro quei moti ch'io dico, non
può essere che la natura incorrotta, che il primitivo, che la candida semplicità, che la
lezione de' poeti antichi non v'abbia inebbriato mille volte di squisitissimo diletto; voi
fatemi fede che come le forme primitive della natura non sono mutate né si muteranno,
così l'amore degli uomini verso quelle non è spento né si spegnerà prima della stirpe
umana. Ma che vo io cercando cose o minute o scure o poco note, potendo dirne una più
chiara della luce, e notissima a chicchessia, della quale ciascuno, ancorché non apra
bocca, mi debba essere testimonio? Imperocché quello che furono gli antichi, siamo stati
noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno,
dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di
quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia; quando il tuono e il
vento e il sole e gli astri e gli animali e le piante e le mura de' nostri alberghi, ogni
cosa ci appariva o amica o nemica nostra, indifferente nessuna, insensata nessuna; quando
ciascun oggetto che vedevamo ci pareva che in certo modo accennando, quasi mostrasse di
volerci favellare; quando in nessun luogo soli, interrogavamo le immagini e le pareti e
gli alberi e i fiori e le nuvole, e abbracciavamo sassi e legni, e quasi ingiuriati
malmenavamo e quasi beneficati carezzavamo cose incapaci d'ingiuria e di benefizio; quando
la maraviglia tanto grata a noi che spessissimo desideriamo di poter credere per poterci
maravigliare, continuamente ci possedeva; quando i colori delle cose quando la luce quando
le stelle quando il fuoco quando il volo degl'insetti quando il canto degli uccelli quando
la chiarezza dei fonti tutto ci era nuovo o disusato, né trascuravamo nessun accidente
come ordinario, né sapevamo il perché di nessuna cosa, e ce lo fingevamo a talento
nostro, e a talento nostro l'abbellivamo; quando le lagrime erano giornaliere, e le
passioni indomite e svegliatissime, né si reprimevano forzatamente e prorompevano
arditamente. Ma qual era in quel tempo la fantasia nostra, come spesso e facilmente
s'infiammava, come libera e senza freno, impetuosa e istancabile spaziava, come ingrandiva
le cose piccole, e ornava le disadorne, e illuminava le oscure, che simulacri vivi e
spiranti che sogni beati che vaneggiamenti ineffabili che magie che portenti che paesi
ameni che trovati romanzeschi, quanta materia di poesia, quanta ricchezza quanto vigore
quant'efficacia quanta commozione quanto diletto. Io stesso mi ricordo di avere nella
fanciullezza appreso coll'immaginativa la sensazione d'un suono così dolce che tale non
s'ode in questo mondo; io mi ricordo d'essermi figurate nella fantasia, guardando alcuni
pastori e pecorelle dipinte sul cielo d'una mia stanza, tali bellezze di vita pastorale
che se fosse conceduta a noi così fatta vita, questa già non sarebbe terra ma paradiso,
e albergo non d'uomini ma d'immortali; io senza fallo (non m'imputate a superbia, o
Lettori, quello che sto per dire) mi crederei divino poeta se quelle immagini che vidi e
quei moti che sentii nella fanciullezza, sapessi e ritrargli al vivo nelle scritture e
suscitarli tali e quali in altrui. Ora che la memoria della fanciullezza e dei pensieri e
delle immaginazioni di quell'età ci sia straordinariamente cara e dilettevole nel
progresso della vita nostra, non voglio né dimostrarlo né avvertirlo: non è uomo vivo
che non lo sappia e non lo provi alla giornata, e non solamente lo provi, ma se ne sia
normalmente accorto, e purch'abbia filo d'ingegno e di studio, se ne sia maravigliato.
Ecco dunque manifesta e palpabile in noi, e manifesta e palpabile a chicchessia la
prepotente inclinazione al primitivo, dico in noi stessi, cioè negli uomini di questo
tempo, in quei medesimi ai quali i romantici proccurano di persuadere che la maniera
antica e primitiva di poesia non faccia per loro. Imperocché dal genio che tutti abbiamo
alle memorie della puerizia si deve stimare quanto sia quello che tutti abbiamo alla
natura invariata e primitiva, la quale è né più né meno quella natura che si palesa e
regna ne' putti, e le immagini fanciullesche e la fantasia che dicevamo, sono appunto le
immagini e la fantasia degli antichi, e le ricordanze della prima età e le idee prime
nostre che noi siamo così gagliardamente tratti ad amare e desiderare, sono appunto
quelle che ci ridesta l'imitazione della natura schietta e inviolata, quelle che ci può e
secondo noi ci deve ridestare il poeta, quelle che ci ridestano divinamente gli antichi,
quelle che i romantici bestemmiano e rigettano e sbandiscono dalla poesia, gridando che
non siamo più fanciulli: e pur troppo non siamo; ma il poeta deve illudere, e illudendo
imitar la natura, e imitando la natura dilettare: e dov'è un diletto poetico altrettanto
vero e grande e puro e profondo? e qual è la natura se questa non è? anzi qual è o fu
mai fuorché questa?
Nelle usanze e nelle opinioni e nel
sapere del tempo nostro cercheremo la natura e le illusioni? Che natura o che leggiadra
illusione speriamo di trovare in un tempo dove tutto è civiltà, e ragione e scienza e
pratica e artifizi; quando non è luogo né cosa che abbia potuto essere alterata dagli
uomini, in cui la natura primitiva apparisca altrimenti che a somiglianza di lampo
rarissimo, dovunque coperta e inviluppata come nel più grosso o fitto panno che si possa
pensare; quando la maraviglia è vergogna; quando non è quasi specie non forma non misura
non effetto non accidente menomissimo di passione ch'altri non abbia avvertito e non
avverta ed esplori e distingua e smidolli; quando il cuor nostro o disingannato
dall'intelletto non palpita, o se anche palpita, corre tosto l'intelletto a ricercargli e
frugargli tutti i segreti di questo palpito, e svanisce ogn'illusione svanisce ogni
dolcezza svanisce ogni altezza di pensieri; quando si spiano e s'uccellano gli andamenti
dell'animo nostro non altrimenti che i cacciatori facciano le salvaggine; quando gli
affetti i moti i cenni i diversi casi del cuore e della volontà umana si prevedono e
predicono come fanno gli astronomi le apparenze delle stelle e il ritorno delle comete;
quando non è persona d'ingegno alquanto vivo ed esercitato che non l'indole e i pregi e i
difetti propri, e non sappia descrivere le cagioni de' fatti e de' pensieri suoi, e
discutere le speranze e i timori della sua vita futura, e pronosticare di se medesimo e
delle vicende del cuor suo; quando la scienza dell'animo umano già certa e quasi
matematica e risolutamente analitica, secondo l'idioma scolastico de' moderni, per
poco non s'espone con angoli e cerchi, e non si tratta per computi e formole numerali? La
vicendevole fratellanza delle scienze e delle arti, i miracoli dell'industria,
l'esperienze le scoperte gli effetti dell'incivilimento daranno lena, secondoché dice il
Cavaliere, alla fantasia? quelle cose che l'affogano l'avviveranno? la ragione ch'a ogni
poco la mette in fuga e la perseguita e l'assalisce e quasi la sforza a confessare ch'ella
sogna, l'esperienza che l'assedia e la stringe e le oppone al volto la sua molestissima
lucerna, la scienza che le contrasta e le sbarra tutti i passi col vero, queste cose
alimenteranno e conforteranno l'immaginativa? Non le angustie, non le carceri non le
catene danno baldanza alla fantasia, ma la libertà, né per lei sono campi le scienze né
i ritrovati, ma d'ordinario fossi ed argini, né la molta luce del vero può far bene a
quella ch'è vaneggiatrice per natura, né di quelle cose onde s'arricchisce l'intelletto,
s'arricchisce la fantasia già sterminatamente ricca per se stessa; ma la sua prima e
somma ricchezza consiste nella libertà, ed il vero conosciuto ed il certo hanno per
natura di togliere la libertà d'imaginare. E se il fatto stesse come vogliono i
romantici, il confine dell'immaginativa sarebbe ristrettissimo ne' fanciulli, e
s'allargherebbe a proporzione che l'intelletto venisse acquistando; ma per lo contrario
avviene ch'egli ne' putti sia distesissimo, negli adulti mezzano, ne' vecchi brevissimo.
Laonde, come vediamo chiarissimamente in ciascuno di noi che il regno della fantasia da
principio è smisurato, poi tanto si va ristringendo quanto guadagna quello
dell'intelletto, e finalmente si riduce quasi a nulla, così né più né meno è accaduto
nel mondo; e la fantasia che ne' primi uomini andava liberamente vagando per immensi
paesi, a poco a poco dilatandosi l'imperio dell'intelletto, vale a dire crescendo la
pratica e il sapere, fugata e scacciata dalle sue terre antiche, e sempre incalzata e
spinta, alla fine s'è veduta, come ora si vede, stipata e imprigionata e
pressoch'immobile: e in questa sua condizione, o Lettori, la chiamano i romantici, la
chiama il Cavaliere beatissima, e padrona ai vastissimi regni. Non però va creduto, come
pare che molti facciano, che col tempo sia scemata all'immaginazione la forza, e venga
scemando tuttavia secondoché s'aumenta il dominio dell'intelletto: non la forza ma l'uso
dell'immaginazione è scemato e scema; il quale e negli antichi ne per giovanezza né per
maturità né per vecchiezza s'allentava mai più che un poco, e in noi, come piglia piede
la signoria dell'intelletto, così va calando finattantoch'in ultimo quasi manca. Resta la
forza ma oziosa, restano i campi per li quali soleva esercitarsi la foga della fantasia,
ma chiusi dai ripari dell'intelletto: a volere che l'immaginazione faccia presentemente in
noi quegli effetti che facea negli antichi, e fece un tempo in noi stessi, bisogna
sottrarla dall'oppressione dell'intelletto, bisogna sferrarla e scarcerarla, bisogna
rompere quei recinti: questo può fare il poeta, questo deve; non contenerla dentro le
stesse angustie e fra le stesse catene e nella stessa schiavitù, secondo la portentosa
dottrina romantica: e ogni volta che l'immaginativa è rimessa da un vero poeta nella
condizione che ho detto, chiamo il mondo in testimonio dell'attività ch'ella palesa in
questo medesimo tempo nelle medesime nostre menti.
© aprile 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 07 giugno 1998