Giacomo Leopardi

Pensieri
(LXXXI-C)

LXXXI

         Accade nella conversazione come cogli scrittori: molti de' quali principio, trovati nuovi di concetti, e di un color proprio, piacciono grandemente; poi, continuando a leggere, vengono a noia, perché una parte dei loro scritti è imitazione dell'altra. Così nel conversare, le persone nuove spesse volte sono pregiate e gradite pei loro modi e pei loro discorsi; e le medesime vengono a noia coll'uso e scadono nella stima: perché gli uomini necessariamente, alcuni più ed alcuni meno quando non imitano gli altri, sono imitatori di se medesimi Però quelli che viaggiano, specialmente se sono uomini di qualche ingegno e che posseggano l'arte del conversare, facilmente lasciano di se nei luoghi da cui passano, un'opinione molto superiore al vero, atteso l'opportunità che hanno di celare quella che è difetto ordinario degli spiriti, dico la povertà. Poiché quel tanto che essi mettono fuori in una o in poco più occasioni, parlando principalmente delle materie più appartenenti a loro, in sulle quali, anche senza usare artifizio sono condotti dalla cortesia o dalla curiosità degli altri, è creduto, non la loro ricchezza intera, ma una minima parte di quella, e, per dir così, moneta da spendere alla giornata, non già, come è forse il più delle volte, o tutta la somma, o la maggior parte dei loro danari. E questa credenza riesce stabile, per mancanza di nuove occasioni che la distruggano. Le stesse cause fanno che i viaggiatori similmente dall'altro lato sono soggetti ad errare, giudicando troppo altamente delle persone di qualche capacità, che ne' viaggi vengono loro alle mani.


LXXXII

         Nessuno diventa uomo innanzi di aver fatto una grande esperienza di se, la quale rivelando lui a lui medesimo, e determinando l'opinione sua intorno a se stesso, determina in qualche modo la fortuna e lo stato suo nella vita. A questa grande esperienza, insino alla quale nessuno nel mondo riesce da molto più che un fanciullo, il vivere antico porgeva materia infinita e pronta: ma oggi il vivere de' privati è sì povero di casi, e in universale di tal natura, che, per mancamento di occasioni, molta parte degli uomini muore avanti all'esperienza ch'io dico, e però bambina poco altrimenti che non nacque. Agli altri il conoscimento e il possesso di se medesimi suol venire o da bisogni e infortuni, o da qualche passione grande, cioè forte; e per lo più dall'amore; quando l'amore è gran passione; cosa che non accade in tutti come l'amare. Ma accaduta che sia, o nel principio della vita, come in alcuni, ovvero più tardi, e dopo altri amori di minore importanza, come pare che occorra più spesse volte, certo all'uscire di un amor grande e passionato, l'uomo conosce già mediocremente i suoi simili, fra i quali gli è convenuto aggirarsi con desiderii intensi, e con bisogni gravi e forse non provati innanzi; conosce ab esperto la natura delle passioni, poiché una di loro che arda, infiamma tutte l'altre; conosce la natura e il temperamento proprio, sa la misura delle proprie facoltà e delle proprie forze; e oramai può far giudizio se e quanto gli convenga sperare o disperare di se, e, per quello che si può intendere del futuro, qual luogo gli sia destinato nel mondo. In fine la vita a' suoi occhi ha un aspetto nuovo, già mutata per lui di cosa udita in veduta, e d'immaginata in reale; ed egli si sente in mezzo ad essa, forse non più felice, ma per dir così, più potente di prima, cioè più atto a far uso di se e degli altri.


LXXXIII

         Se quei pochi uomini di valor vero che cercano gloria, conoscessero ad uno ad uno tutti coloro onde è composto quel pubblico dal quale essi con mille estremi patimenti si sforzano di essere stimati, è credibile che si raffredderebbero molto nel loro proposito, e forse che l'abbandonerebbero. Se non che l'animo nostro non si può sottrarre al potere che ha nell'immaginazione il numero degli uomini: e si vede infinite volte che noi apprezziamo, anzi rispettiamo, non dico una moltitudine, ma dieci persone adunate in una stanza, ognuna delle quali da se reputiamo di nessun conto.


LXXXIV

         Gesù Cristo fu il primo che distintamente additò agli uomini quel lodatore e precettore di tutte le virtù finte, detrattore e persecutore di tutte le vere; quell'avversario d'ogni grandezza intrinseca e veramente propria dell'uomo; derisore d'ogni sentimento alto, se non lo crede falso, d'ogni affetto dolce, se lo crede intimo; quello schiavo dei forti, tiranno dei deboli, odiatore degl'infelici; il quale esso Gesù Cristo dinotò col nome di mondo, che gli dura in tutte le lingue colte insino al presente. Questa idea generale, che è di tanta verità, e che poscia è stata e sarà sempre di tanto uso, non credo che avanti quel tempo fosse nata ad altri, né mi ricordo che si trovi, intendo dire sotto una voce unica o sotto una forma precisa, in alcun filosofo gentile. Forse perché avanti quel tempo la viltà e la frode non fossero affatto adulte, e la civiltà non fosse giunta a quel luogo dove gran parte dell'esser suo si confonde con quello della corruzione.
         Tale in somma quale ho detto di sopra, e quale fu significato da Gesù Cristo, è l'uomo che chiamiamo civile: cioè quell'uomo che la ragione e l'ingegno non rivelano, che i libri e gli educatori annunziano, che la natura costantemente reputa favoloso, e che sola l'esperienza della vita fa conoscere, e creder vero. E notisi come quell'idea che ho detto, quantunque generale, si trovi convenire in ogni sua parte a innumerabili individui.


LXXXV

         Negli scrittori pagani la generalità degli uomini civili, che noi chiamiamo società o mondo, non si trova mai considerata né mostrata risolutamente come nemica della virtù, né come certa corruttrice d'ogni buona indole, e d'ogni animo bene avviato. Il mondo nemico del bene, è un concetto, quanto celebre nel Vangelo, e negli scrittori moderni, anche profani, tanto o poco meno sconosciuto agli antichi. E questo non farà maraviglia a chi considererà un fatto assai manifesto e semplice, il quale può servire di specchio a ciascuno che voglia paragonare in materia morale gli stati antichi ai moderni: e ciò è che laddove gli educatori moderni temono il pubblico, gli antichi lo cercavano; e dove i moderni fanno dell'oscurità domestica, della segregazione e del ritiro, uno schermo ai giovani contro la pestilenza dei costumi mondani, gli antichi traevano la gioventù, anche a forza, dalla solitudine, ed esponevano la sua educazione e la sua vita agli occhi del mondo, e il mondo agli occhi suoi, riputando l'esempio atto più ad ammaestrarla che a corromperla.


LXXXVI

         Il più certo modo di celare agli altri i confini del proprio sapere, è di non trapassarli.


LXXXVII

         Chi viaggia molto, ha questo vantaggio dagli altri, che i soggetti delle sue rimembranze presto divengono remoti; di maniera che esse acquistano in breve quel vago e quel poetico, che negli altri non è dato loro se non dal tempo. Chi non ha viaggiato punto, ha questo svantaggio, che tutte le sue rimembranze sono di cose in qualche parte presenti, poiché presenti sono i luoghi ai quali ogni sua memoria si riferisce.


LXXXVIII

         Avviene non di rado che gli uomini vani e pieni del concetto di se medesimi, in cambio d'essere egoisti e d'animo duro, come parrebbe verisimile, sono dolci, benevoli, buoni compagni, ed anche buoni amici e servigievoli molto. Come si credono ammirati da tutti, così ragionevolmente amano i loro creduti ammiratori, e gli aiutano dove possono, anche perché giudicano ciò conveniente a quella maggioranza della quale stimano che la sorte gli abbia favoriti. Conversano volentieri, perché credono il mondo pieno del loro nome; ed usano modi umani, lodandosi internamente della loro affabilità, e di sapere adattare la loro grandezza ad accomunarsi ai piccoli. Ed ho notato che crescendo nell'opinione di se medesimi, crescono altrettanto in benignità. Finalmente la certezza che hanno della propria importanza, e del consenso del genere umano in confessarla, toglie dai loro costumi ogni asprezza, perché niuno che sia contento di se stesso e degli uomini, è di costumi aspri; e genera in loro tale tranquillità, che alcune volte prendono insino aspetto di persone modeste.


LXXXIX

         Chi comunica dopo cogli uomini, rade volte è misantropo. Veri misantropi non si trovano nella solitudine, ma nel mondo: perché l'uso pratico della vita, e non già la filosofia, è quello che fa odiare gli uomini. E se uno che sia tale, si ritira dalla società, perde nel ritiro la misantropia.


XC

         Io conobbi già un bambino il quale ogni volta che dalla madre era contrariato in qualche cosa, diceva: ah, ho inteso, ho inteso: la mamma è cattiva. Non con altra logica discorre intorno ai prossimi la maggior parte degli uomini, benché non esprima il suo discorso con altrettanta semplicità.


XCI

         Chi t'introduce a qualcuno, se vuole che la raccomandazione abbia effetto, lasci da canto quelli che sono tuoi pregi più reali e più propri, e dica i più estrinseci e più appartenenti alla fortuna. Se tu sei grande e potente nel mondo, dica grande e potente; se ricco, dica ricco; se non altro che nobile, dica nobile: non dica magnanimo, né virtuoso, né costumato, né amorevole, né altre cose simili, se non per giunta, ancorché siano vere ed in grado insigne. E se tu fossi letterato, e come tale fossi celebre in qualche parte, non dica dotto, né profondo, né grande ingegno, né sommo; ma dica celebre: perché, come ho detto altrove, la fortuna è fortunata al mondo, e non il valore.


XCII

         Dice Giangiacomo Rousseau che la vera cortesia de' modi consiste in un abito di mostrarsi benevolo. Questa cortesia forse ti preserva dall'odio, ma non ti acquista amore, se non di quei pochissimi ai quali l'altrui benevolenza è stimolo a corrispondere. Chi vuole, per quanto possono le maniere, farsi gli uomini amici, anzi amanti, dimostri di stimarli. Come il disprezzo offende e spiace più che l'odio, così la stima è più dolce che la benevolenza; e generalmente gli uomini hanno maggior cura, o certo maggior desiderio, d'essere pregiati che amati. Le dimostrazioni di stima, vere o false (che in tutti i modi trovano fede in chi le riceve), ottengono gratitudine quasi sempre: e molti che non alzerebbero il dito in servigio di chi gli ama veramente, si gitteranno ad ardere per chi farà vista di apprezzarli. Tali dimostrazioni sono ancora potentissime a riconciliare gli offesi, perché pare che la natura non ci consenta di avere in odio una persona che dica di stimarci. Laddove, non solo è possibile, ma veggiamo spessissime volte gli uomini odiare e fuggire chi gli ama, anzi chi li benefica. Che se l'arte di cattivare gli animi nella conversazione consiste in fare che gli altri si partano da noi più contenti di se medesimi che non vennero, è chiaro che i segni di stima saranno più valevoli ad acquistare gli uomini, che quelli di benevolenza. E quanto meno la stima sarà dovuta, più sarà efficace il dimostrarla. Coloro che hanno l'abito della gentilezza ch'io dico, sono poco meno che corteggiati in ogni luogo dove si trovano; correndo a gara gli uomini, come volano le mosche al mele, a quella dolcezza del credere di vedersi stimati. E per lo più questi tali sono lodatissimi: perché dalle lodi che essi, conversando, porgono a ciascuno, nasce un gran concento delle lodi che tutti danno a loro, parte per riconoscenza, e parte perché è dell'interesse nostro che siano lodati e stimati quelli che ci stimano. In tal maniera gli uomini senza avvedersene, e ciascuno forse contro la volontà sua, mediante il loro accordo in celebrare queste tali persone, le innalzano nella società molto di sopra a se medesimi, ai quali esse continuamente accennano di tenersi inferiori.


XCIII

         Molti, anzi quasi tutti gli uomini che da se medesimi e dai conoscenti si credono stimati nella società, non hanno altra stima che quella di una particolar compagnia, o di una classe, o di una qualità di persone, alla quale appartengono e nella quale vivono. L'uomo di lettere, che si crede famoso e rispettato nel mondo, si trova o lasciato da un canto o schernito ogni volta che si abbatte in compagnie di genti frivole, del qual genere sono tre quarti del mondo. Il giovane galante, festeggiato dalle donne e dai pari suoi, resta negletto e confuso nella società degli uomini d'affari. Il cortigiano, che i suoi compagni e i dipendenti colmeranno di cerimonie, sarà mostrato con riso o fuggito dalle persone di bel tempo. Conchiudo che, a parlar proprio, l'uomo non può sperare, e quindi non dee voler conseguire la stima, come si dice, della società, ma di qualche numero di persone; e dagli altri, contentarsi di essere, quando ignorato affatto, e quando, più o meno, disprezzato; poiché questa sorte non si può schivare.


XCIV

         Chi non è mai uscito di luoghi piccoli, dove regnano piccole ambizioni ed avarizia volgare, con un odio intenso di ciascuno contro ciascuno, come ha per favola i grandi vizi, così le sincere e solide virtù sociali. E nel particolare dell'amicizia, la crede cosa appartenente ai poemi ed alle storie, non alla vita. E s'inganna. Non dico Piladi o Piritoi, ma buoni amici e cordiali, si trovano veramente nel mondo, e non sono rari. I servigi che si possono aspettare e richiedere da tali amici, dico da quelli che dà veramente il mondo, sono, o di parole, che spesso riescono utilissime, o anco di fatti qualche volta: di roba, troppo di rado; e l'uomo savio e prudente non ne dee richiedere di sì fatti. Più presto si trova chi per un estraneo metta a pericolo la vita, che uno che, non dico spenda, ma rischi per l'amico uno scudo.


XCV

         Né sono gli uomini in ciò senza qualche scusa: perché raro è chi veramente abbia più di quello che gli bisogna; dipendendo i bisogni in modo quasi principale dalle assuefazioni, ed essendo per lo più proporzionate alle ricchezze le spese, e molte volte maggiori. E quei pochi che accumulano senza spendere, hanno questo bisogno di accumulare; o per loro disegni, o per necessità future o temute. Né vale che questo o quel bisogno sia immaginario; perché troppo poche sono le cose della vita che non consistano o del tutto o per gran parte nella immaginazione.


XCVI

         L'uomo onesto, coll'andar degli anni, facilmente diviene insensibile alla lode e all'onore, ma non mai, credo, al biasimo né al disprezzo. Anzi la lode e la stima di molte persone egregie non compenseranno il dolore che gli verrà da un motto o da un segno di noncuranza di qualche uomo da nulla. Forse ai ribaldi avviene al contrario; che, per essere usati al biasimo, e non usati alla lode vera, a quello saranno insensibili, a questa no, se mai per caso ne tocca loro qualche saggio.


XCVII

         Ha sembianza di paradosso, ma coll'esperienza della vita si conosce essere verissimo, che quegli uomini che i francesi chiamano originali, non solamente non sono rari, ma sono tanto comuni che sto per dire che la cosa più rara nella società è di trovare un uomo che veramente non sia, come si dice, un originale. Né parlo già di piccole differenze da uomo a uomo: parlo di qualità e di modi che uno avrà propri, e che agli altri riusciranno strani, bizzarri, assurdi: e dico che rade volte ti avverrà di usare lungamente con una persona anche civilissima, che tu non iscuopra in lei e ne' suoi modi più d'una stranezza o assurdità o bizzarria tale, che ti farà maravigliare.
         A questa scoperta arriverai più presto in altri che nei francesi, più presto forse negli uomini maturi o vecchi che ne' giovani, i quali molte volte pongono la loro ambizione nel rendersi conformi agli altri, ed ancora, se sono bene educati, sogliono fare più forza a se stessi. Ma più presto o più tardi scoprirai questa cosa alla fine nella maggior parte di coloro coi quali praticherai. Tanto la natura è varia: e tanto è impossibile alla civiltà, la quale tende ad uniformare gli uomini, di vincere in somma la natura.


XCVIII

         Simile alla soprascritta osservazione è la seguente, che ognuno che abbia o che abbia avuto alquanto a fare cogli uomini, ripensando un poco, si ricorderà di essere stato non molte ma moltissime volte spettatore, e forse parte, di scene, per dir così, reali, non differenti in nessuna maniera da quelle che vedute ne' teatri, o lette ne' libri delle commedie o de' romanzi, sono credute finte di là dal naturale per ragioni d'arte. La qual cosa non significa altro, se non che la malvagità, la sciocchezza, i vizi d'ogni sorte, e le qualità e le azioni ridicole degli uomini, sono molto più solite che non crediamo, e che forse non è credibile, a passare quei segni che stimiamo ordinari, ed oltre ai quali supponghiamo che sia l'eccessivo.


XCIX

         Le persone non sono ridicole se non quando vogliono parere o essere ciò che non sono. Il povero, l'ignorante, il rustico, il malato, il vecchio, non sono mai ridicoli mentre si contentano di parer tali, e si tengono nei limiti voluti da queste loro qualità, ma sì bene quando il vecchio vuol parer giovane, il malato sano, il povero ricco, l'ignorante vuol fare dell'istruito, il rustico del cittadino. Gli stessi difetti corporali, per gravi che fossero, non desterebbero che un riso passeggero, se l'uomo non si sforzasse di nasconderli, cioè non volesse parere di non averli, che è come dire diverso da quel ch'egli è. Chi osserverà bene, vedrà che i nostri difetti o svantaggi non sono ridicoli essi, ma lo studio che noi ponghiamo per occultarli, e il voler fare come se non gli avessimo.
         Quelli che per farsi più amabili affettano un carattere morale diverso dal proprio, errano di gran lunga. Lo sforzo che dopo breve tempo non è possibile a sostenere, che non divenga palese, e l'opposizione del carattere finto al vero, il quale da indi innanzi traspare di continuo, rendono la persona molto più disamabile e più spiacevole ch'ella non sarebbe dimostrando francamente e costantemente l'esser suo. Qualunque carattere più infelice, ha qualche parte non brutta, la quale, per esser vera, mettendola fuori opportunamente, piacerà molto più, che ogni più bella qualità falsa.
         E generalmente, il voler essere ciò che non siamo, guasta ogni cosa al mondo: e non per altra causa riesce insopportabile una quantità di persone, che sarebbero amabilissime solo che si contentassero dell'esser loro. Né persone solamente, ma compagnie, anzi popolazioni intere: ed io conosco diverse città di provincia colte e floride, che sarebbero luoghi assai grati ad abitarvi, se non fosse un'imitazione stomachevole che vi si fa delle capitali, cioè un voler esser per quanto è in loro piuttosto città capitali che di provincia.


C

         Tornando ai difetti o svantaggi che alcuno può avere, non nego che molte volte il mondo non sia come quei giudici ai quali per legge è vietato di condannare il reo, quantunque convinto, se da lui medesimo non si ha confessione espressa del delitto. E veramente non per ciò che' l'occultare con istudio manifesto i propri difetti è cosa ridicola, io loderei che si confessassero spontaneamente, e meno ancora, che alcuno desse troppo ad intendere di tenersi a causa di quelli inferiore agli altri. La qual cosa non sarebbe che un condannare se stesso con quella sentenza finale, che il mondo, finché tu porterai la testa levata, non verrà mai a capo di profferire. In questa specie di lotta di ciascuno contro tutti, e di tutti contro ciascuno, nella quale, se vogliamo chiamare le cose coi loro nomi, consiste la vita sociale; procurando ognuno di abbattere il compagno per porvi su i piedi, ha gran torto chi si prostra, e ancora chi s'incurva, e ancora chi piega il capo spontaneamente: perché fuori d'ogni dubbio (eccetto quando queste cose si fanno con simulazione, come per istratagemma) gli sarà subito montato addosso o dato in sul collo dai vicini, senza né cortesia né misericordia nessuna al mondo. Questo errore commettono i giovani quasi sempre, e maggiormente quanto sono d'indole più gentile: dico di confessare a ogni poco, senza necessità e fuori di luogo, i loro svantaggi e infortuni; movendosi parte per quella franchezza che è propria della loro età, per la quale odiano la dissimulazione, e provano compiacenza nell'affermare, anche contro se stessi, il vero; parte perché come sono essi generosi, così credono con questi modi ottener perdono e grazia dal mondo alle loro sventure. E tanto erra dalla verità delle cose umane quella età d'oro della vita, che anche fanno mostra dell'infelicità, pensandosi che questa li renda amabili, ed acquisti loro gli animi. Né, a dir vero, è altro che ragionevolissimo che così pensino, e che solo una lunga e costante esperienza propria persuada a spiriti gentili che il mondo perdona più facilmente ogni cosa che la sventura; che non l'infelicità, ma la fortuna è fortunata e che però non di quella, ma di questa sempre, anche a dispetto del vero, per quanto è possibile, s'ha a far mostra, che la confessione de' propri mali non cagiona pietà ma piacere, non contrista ma rallegra, non i nemici solamente ma ognuno che l'ode, perché è quasi un'attestazione d'inferiorità propria, e d'altrui superiorità, e che non potendo l'uomo in sulla terra confidare in altro che nelle sue forze, nulla mai non dee cedere né ritrarsi indietro un passo volontariamente, e molto meno rendersi a discrezione, ma resistere difendendosi fino all'estremo, e combattere con isforzo ostinato per ritenere o per acquistare, se può, anche ad onta della fortuna, quello che mai non gli verrà impetrato da generosità de' prossimi né da umanità. Io per me credo che nessuno debba sofferire né anche d'essere chiamato in sua presenza infelice né sventurato: i quali nomi quasi in tutte le lingue furono e sono sinonimi di ribaldo, forse per antiche superstizioni, quasi l'infelicità sia pena di scelleraggini; ma certo in tutte le lingue sono e saranno eternamente oltraggiosi per questo, che chi li profferisce, qualunque intenzione abbia, sente che con quelli innalza se ed abbassa il compagno, e la stessa cosa è sentita da chi ode.


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© aprile 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 05 May 1998