Giuseppe Bonghi
Introduzione
alle
Epistole
di
Dante Alighieri
Introduzione generale
Già
Giovanni Boccaccio nel Trecento e Leonardo Bruni nel Quattrocento testimoniano che Dante
abbia scritto in vita molte lettere, alcune delle quali i due autori citati avevano visto
con i propri occhi e di cui parlano nella vita di Dante da loro scritta. In particolare
Boccaccio scrive che Dante «fece ancora molte epistole prosaiche in latino, delle quali
ancora appariscono assai». Ma purtroppo poco ci è rimasto, se non queste tredici che ora
proponiamo all'attenzione dei lettori della nostra biblioteca.
Le Epistole di Dante furono pubblicate assai
tardi; la prima edizione è quella curata da Carlo Witte nel 1827, con sette lettere, cui
se ne aggiunsero altre 4 pubblicate da Alessandro Torri nel 1843. Per il resto bisogna
aspettare il secolo nostro perché veda la luce il corpus di tredici lettere così come lo
conosciamo.
Per quanto riguarda lo stile bisogna considerare i tempi in
cui sono state scritte, tempi in cui la cultura stava lentamente uscendo dalla sua
condizione di privilegio in dotazione di pochi. Così ne scrive il Torri: «Le forme
latine non son diverse da quelle che crear potea il tercento, quanto aureo nell'uso
moderno, altrettanto ferreo nell'antico,; non essendo punto meglio scritte le altre opere
latine dello stesso autore, le quali allo stile di queste in tutto si conformano; e che il
fraseggiare vi è tutto scritturale e sopraccarico d'induzioni filosofiche e teologiche,
se non in quanto vi apparisce ad ora ad ora qualche qualche fior virgiliano... Sotto la
ruvida corteccia esteriore corre un succo interno di pensieri, che produce bellissimi
frutti di sapienza, e talvolta nelle stesse parole trasfondendosi le riempie di tal
maestà e grandezza, che vince le ruggini del secolo, e cangia in oro il ferro come si
vede là dove il proscritto non meritevole inveisce con impeto d'eloquenza contro i
Fiorentini».
Nella seconda metà dell'Ottocento abbiamo l'edizione di
Pietro Fraticelli (Il Convito di Dante Alighieri e le epistole, con illustrazioni e note
di Pietro Fraticelli e d'altri, Firenze, editore G. Barbera, VIII edizione 1900) dalla
quale abbiamo attinto molte delle notizie qui riportate.
Scrive Angelo Jacomuzzi: «Delle epistole
dantesche pervenute fino a noi, dodici possono essere sommariamente raccolte in tre
gruppi, conformemente alle motivazioni e ai temi che le caratterizzano.
Un primo gruppo è costituito da
lettere di carattere strettamente occasionale, legate a circostanze e convenzioni di
natura diplomatica o curiale; sono:
- la lettera di condoglianza per la morte di Alessandro da Romena,
inviata ai nipoti Guido e Oberto (la II);
- le tre brevi lettere scritte da Dante per conto di Gherardesca
(moglie di Guido di Battifolle conte Palatino) dal castello di Poppi e indirizzate a
Margherita di Brabante, consorte di Arrigo VII, agli inizi dell'impresa imperiale in
Italia (VIII-IX-X).
Un secondo gruppo, di maggior
rilievo, è costituito da testi di corrispondenza direttamente legati alla vicenda
biografica e intellettuale del poeta:
- le lettere a Cino da Pistoia (III) e a Moroello Malaspina (IV), che,
accompagnatorie rispettivamente di un sonetto e di una canzone, ci riconducono alla
convenzione, qui arricchita e dilatata nella prosa epistolare, della corrispondenza
poetica;
- la XII, indirizzata all'ignoto amico fiorentino, dove l'occasione
dell'amnistia politica e il rifiuto di piegarsi alle sue condizioni offrono a Dante lo
spunto per abbozzare un ritratto di sé che è il più alto e persuasivo, fuori della Commedia,
che egli ci abbia lasciato.
Un altro gruppo, infine,
raccoglie le epistole più propriamente politiche (I, V, VI, VII, XI) e rappresenta anche
nell'ambito di ciò che rimane dell'epistolario dantesco, la sezione più ampia per
estensione materiale e per numero; tra queste la quinta, la sesta e la settima formano un
blocco unico e compatto sia per spazio di tempo (dal settembre-ottobre 1310 all'aprile
1311) sia per l'occasione e l'oggetto convergenti sull'evento della discesa di Arrigo VII
in Italia. Dalla prima (un breve intenso messaggio, ma tutto redatto nei termini della
convenzione diplomatica) al cardinale Niccolò da Prato, del 1304, alla undecima ai
cardinali italiani del 1314, le lettere politiche abbracciano un decennio decisivo per la
storia esterna di quegli anni e per la storia interiore del poeta: dall'inizio del
pontificato di Clemente V e della cattività avignonese della Chiesa alle ultime speranze
nella successione al soglio di Pietro di un vescovo italiano e nel ristabilimento della
sede papale in Roma, subito frustrate e deluse con la elezione del caorsino Giovanni XXII;
dalla partecipazione ai tentativi dei Bianchi per rientrare in Firenze (alla vigilia
dell'impresa della Lastra che, per l'assenza di Dante, segnerà l'allontanamento del poeta
dalla sua parte) al riaccendersi delle speranze, del fiorentino e dell'italiano, per la
venuta di Arrigo VII sino al fallimento dell'impresa imperiale che condurrà Dante a
fissare l'oggetto delle sue attese sul piano espressamente religioso, nell'auspicio
corroborato da una speranza teologale, del rinnovamento e della purificazione della
Chiesa». (Opere minori di Dante Alighieri, vol. II, p. 325 e
seguenti, U.T.E.T. Torino 1986)
Epistola I
A Niccolò Albertini da Prato
Nei manoscritti della Biblioteca Vaticana
Palatina, fra quelli che Massimiliano di Baviera donò a papa Gregorio XV, insieme al De
Monarchia e alle dodici egloghe di Petrarca, si trovano nove epistole. Questa, che
ormai convenzionalmente tutti pongono come prima nel corpus.
La lettera è indirizzata al cardinale d'Ostia Niccolò
Albertini da Prato ed è scritta a nome non solo del conte Alessandro Guidi da Romena,
Capitano del Consiglio dei Dodici, ma anche dello stesso Consiglio dei Dodici Ghibellini,
di cui Dante faceva parte, come narra Leonardo Bruni: "Finalmente (i fuorusciti)
fermarono la sedia loro in Arezzo, e quivi fecero campo grosso; e crearono loro capitano
il conte Alessandro da Romena, e fecero dodici consiglieri, del numero de' quali fu
Dante."
Il cardinale d'Ostia, persona accorta e
nemica degli eccessi di tutte e due le parti politiche in lotta, fu dal papa benedetto XI,
sul principio del 1304, inviato in Toscana, con autorità di legato e messo di pace, e
giunse in Firenze il 10 marzo, guadagnandosi ben presto la fiducia sia dei Guelfi che dei
Ghibellini; il cardinale si mostrò benevolo anche verso i fuorusciti, ai quali inviò un
certo frate L***, colla promessa scritta che sarebbero stati reintegrati nei loro diritti
e che la patria sarebbe stata riordinata secondo i loro desideri. I fuorusciti replicarono
al cardinale con questa lettera, mostrando la loro più sincera e viva gratitudine,
affermando, tra l'altro, di aver brandito le armi solo per tentare di ricondurre i loro
avversari ai principi di buona convivenza civile e politica e che la loro intenzione
mirava alla pace e alla libertà del popolo fiorentino. E poiché Frate L*** chiedeva loro
di astenersi da qualsiasi uso delle armi, conformemente all'incarico ricevuto, i
fuorusciti ne facevano formale e solenne promessa, rimettendo nelle mani del cardinale
completamente la ricomposizione della questione e le condizioni di pace.
Ma le benevole intenzioni del cardinale e
i desideri dei fuorusciti non portarono ad alcuna conclusione, tanto che i Neri, che erano
rimasti padroni di Firenze, ebbero il sospetto che il cardinale volesse favorire i
Bianchi, e lo persuasero l'8 di maggio a recarsi a Prato e Pistoia. Mentre il cardinale si
trovava lontano da Firenze, i Neri, per mezzo di lettere false, diffusero la voce che si
era messo d'accordo coi Bianchi per mutare lo stato della Repubblica con grave danno dei
Neri. Per questo, non appena tornato in Firenze, vide che il favore del popolo era mutato
e che i capi del Comuni non gli davano più ascolto; per questo, irritato, abbandonò la
città, lanciandole contro l'interdetto.
Gli storici affermeranno in seguito che,
essendo il Cardinale di famiglia Ghibellina, propendeva piuttosto per i Neri che per i
Bianchi, come afferma anche il Villani, che pure era Guelfo, che mette in evidenza le
rette intenzioni del prelato (Villani, Croniche, libro VIII, cap. 69).
Epistola II
Ai conti Guidi
La lettera è inviata a
Oberto e Guidi dei Conti Guidi, nipoti del conte Alessandro da Romena e fu pubblicata da
Alessandro Torri. Dante scrive per condolersi della morte dello zio Alessandro,
esortandoli a farsi eredi delle sue virtù così come erano eredi delle sue sostanze,
scusandosi di non poter partecipare ai funerali a causa della povertà in cui versava dal
momento in cui era stato cacciato da Firenze, privo com'era anche di cavalli e di armi.
Dante era legato ad Alessandro da Romena
da vincoli sia di amicizia che di politica, appartenendo entrambi alla fazione dei
Bianchi.
"I conti Guidi, nati del ceppo di
Guido il vecchio e della bella Gualdrapa, figlia di Bellincion Berti, moltiplicatisi in
vari rami, e non sempre fa lor concordi ne' principii politici, erano di coloro che, per
usare la frase del nostro poeta, mutavan parte dalla state al verno. Nel 1304 con
Alessandro alla testa li abbiamo già veduti ghibellini; nel 1306 dopo che Alessandro era
morto, appariscono, dal documento delle Riformagioni (Lib. Prov. num. 14, pag. 33),
divenuti Guelfi; e Guelfi pure, e nemici d'Arrigo, appariscono dal documento del 7 luglio
1311 citato dal Padre Ildefonso nelle Delizie degli Eruditi Toscani, vol. VIII,
pag. 182. Ghibellini li veggiamo tornati ben presto, cioè nel 6 settembre dello stesso
anno 1311, essendoché sono eccettuati dalla riforma o amnistia di Baldo d'Aguglione, per
cui vedi l'or ricordato Padre Ildefonso, vol. XI, pag. 89: e Ghibellini manteneansi pure
l'anno appresso, poiché nelle Riformagioni e nella Biblioteca Rinucciniana trovasi un
diploma, dato in Roma appresso le milizie 7 giugno 1312, Ind. X col quale Arrigo
VII prende sotto la sua protezione la persona e i beni d'Aghinolfo da Romena conte
Palatino di Toscana".
Questa la storia dei Conti Guidi nel
frangente che ci interessa, narrata dal Fraticelli (op. cit. pag. 420).
La morte di Alessandro da Romena
"era una sventura gravissima per tutti, ma più che tutti, a Dante", che in quel
tempo si trovava in Arezzo. Gli veniva a mancare non solo il soccorso contro la povertà,
ma soprattutto la scomparsa di una guida che spezza le speranze politiche di rientrare in
Firenze; e la povertà di Dante quasi sparisce di fronte al danno che colpisce i Guelfi.
Epistola III
A Cino da Pistoia
La lettera fa parte del
codice VIII, Plut. XXIX della Biblioteca Laurenziana e pur non esprimendo
il nome di Dante se non per mezzo della iniziale D (Epistola D. de Florentia), fu
attribuita a Dante sia per per le parole de Florentia, sia per il contenuto..
La lettera è la risposta di Dante a
un'Epistola di Cino da Pistoia, nella quale questi chiedeva se la nostra anima possa
passare di passione in passione; la risposta di Dante è accompagnata da un componimento,
che secondo il Witte fu la canzone Voi che intendendo, e che probabilmente
trattava di quell'amore allegorico che da sensuale si tramuta in intellettuale (come Dante
testimonia nel Convivio) e che accese l'animo di Dante dopo la morte di Beatrice.
Che Cino da Pistoia, dopo la morte di
Selvaggia, la sua donna, passasse da un amore all'altro e si dimostrasse molto incostante,
è cosa ormai certa secondo la testimonianza di molti biografi e dello stesso Dante che
così scrive nel sonetto XL delle sue Rime:
I' ho veduto già senza radice ma frutto no, però che 'l contradice Giovane donna a cotal guisa verde Periglio è grande in donna sì vestita: |
4 8 11 14 |
Nel finale dell'Epistola troviamo alcune parole di consolazione di Dante all'amico come lui sventurato e bandito dalla patria. Cino fu esiliato nell'anno 1303 e potè ritornare in patria a Pistoia nel 1306, per cui si può ragionevolmente affermare che questa lettera fu scritta proprio in questo lasso di tempo o nei mesi immediatamente successivi.
Epistola IV
A Moroello Malaspina
Cinque anni dopo il suo esilio,
Dante fu ospite dei Marchesi Malaspina in Lunigiana, dove trattò, e portò a compimento
il 6 ottobre 1306, la pace tra alcuni di essi e il Vescovo di Luni. Dalla Lunigiana si
pensa che sia passato nel Casentino e dimorasse per un po' nei castelli dei Conti Guidi.
In questa lettera, scritta molto
verosimilmente nel 1307, Dante si rivolge a Moroello Malaspina e narra che appena giunto
sulle rive dell'Arno ( che traversa per lungo tratto il Casentino), gli era apparsa
davanti agli occhi una donna, e che, malgrado ogni suo sforzo, Amore gli aveva cacciato
via dalla mente ogni proposito di tenersi lontano dalle donne e dalla poesia amorosa e lo
aveva completamente sottomesso alla propria signoria. E affinché meglio Moroello
comprendesse la forza di questo amore, Dante univa alla lettera un componimento poetico su
tale argomento.
Che Dante si fosse innamorato di una
donna del Casentino, alcuni biografi lo avevano scritto, ma né di lei né del
componimento conosciamo qualcosa. Qualche critico ipotizza che si sia trattato della
canzone Amor, dacchè convien pur ch'io mo doglia, nella quale (stanza 5 e tutta
la chiusa) parlano di un nuovo innamoramento di Dante e descrivono abbastanza chiaramente
il Casentino.
Riportiamo la canzone:
Amor, da che convien pur ch'io mi doglia Io non posso fuggir ch'ella non vegna La nimica figura, che rimane Qual io divengo sì feruto, Amore, Così mhai concio, Amore, in mezzo lalpi, O montanina mia canzon, tu vai: |
5 10 15 |
Il capostipite dei
Malaspina, Currado I l'antico, divise i possessi feudali con Obizzino e lasciò cinque
figli; di uno di questi era figlio quel Corrado che Dante incontra nel Purgatorio, il cui
secondogenito, Moroello, divise il casato nelle quattro branche dei Mulazzo, Giovagallo,
Villafranca e Val di Trebbia. Di Moroello Malaspina i critici ne hanno individuato
soprattutto due (di un terzo evitiamo di parlare perché al tempo dei fatti era un bambino
e non era ancora maggiorenne quando nel 1319 gli morì il padre):
- Moroello III capitano di parte Nera, marchese di Giovagallo, nominato da Dante in
Inferno, XXIV,145, e chiamato vapor di Valdimagra, il quale nel 1302
inflisse ai Bianchi la nota sconfitta di Campo Piceno, cui allude nei versi: E
con tempesta impetuosa ed agra / sopra Campo Picen fia combattuto; fu figlio di
Manfredi I (quindi cugino di Currado II e nipote di Currado I, ricordati nel canto VIII
del Purgatorio) e sposò Alagia del Fiesco (vedi Purgatorio XIX,142);
Moroello, secondo Boccaccio, ospitò Dante a Fosdinovo ingiungendogli di scrivere la Commedia
- Moroello figlio di Obizzino, marchese di Villafranca, che il 6 ottobre 1306
insieme al fratello Corradino e al cugino Franceschino Malaspina di Mulazzo, affida a
Dante il compito di procuratore per trattare la pacificazione con Antonio Vescovo di Luni.
Molti ragionevolmente propendono per il
secondo, ma qualcuno, come il Witte, uno dei primi studiosi, spostando la data della
scrittura della lettera al 1310, propendono per il primo, ma è difficile pensare che
Dante potesse rivolgere una tale lettera a un personaggio di parte avversa, fiero e
vecchio soldato, che, oltre a battere i Bianchi a Campo Piceno presso Serravalle, pose
pure l'assedio a Pistoia, ultimo rifugio dei Ghibellini toscani, riducendola alla fame,
occupandola in nome di Lucca e Firenze e quindi governandola col titolo di Capitano del
popolo: a un fiero avversario e vecchio soldato non si può scrivere una lettera in cui si
parla d'amore.
Epistola V
Agli Italiani
Si può datare questa
lettera, attraverso precisi riferimenti interni, tra il settembre e l'ottobre del 1310,
perché contiene nel paragrafo finale un riferimento alla lettera enciclica di Clemente V
(Exultet in gloria) del 1° settembre 1310, nella quale il papa invita ad
accogliere ed onorare coi debiti onori l'imperatore che scenderà in Italia verso la fine
di Ottobre.
Alla notizia che Arrigo VII di
Lussemburgo, eletto in Francoforte re dei Romani il 27 novembre 1308 e incoronato
nel gennaio dell'anno seguente in Aquisgrana, stava per scendere in Italia, in Dante si
accendono nuove speranze, e sognando il trionfo dei Bianchi scrive questa lettera ai due
re di Sicilia (Federigo) e di Napoli ( Roberto), ai senatori di Roma, ai duchi, ai conti,
ai marchesi, ai popoli di tutta l'Italia. In essa il Poeta esprime la sua gioia nel veder
sorgere segni di consolazione e di pace e annuncia che il Re dei Romani giunge "come
restauratore della pace e del diritto atteso da uomini di terre e partiti diversi, Toscani
e Lombardi, Guelfi e Ghibellini", e che, come dolce e umano signore, avrebbe concesso
a tutti il suo perdono. Dante esorta le genti a dimostrarsi fedeli al Principe, perché
chi resiste alla potestà imperiale, resiste agli ordinamenti di Dio, e chi resiste agli
ordinamenti di Dio è simile all'impotente che recalcitra.
E proprio perché il papa si dimostra
favorevole alla discesa di Arrigo, Dante è disposto ad accantonare le antiche accuse,
soprattutto quella di simonia, ritenendo che Clemente V avesse comprato la sua altissima
carica, come scrive nell'Inferno (XIX, 82-84) e nel Paradiso (XVII, 82 e
XXX, 145-148), bollandolo come simoniaco e ingannatore. Era giunta l'ora le Potestà della
Chiesa e dell'Impero avrebbero potuto porre fine alle lacerazioni dell'Italia e restituire
agli esuli la loro legittima patria.
Epistola VI
Agli scelleratissimi Fiorentini
L'Epistola porta la data
del 31 marzo 1311, scritta sulla fonte dell'Arno sulle montagne del casentino,
probabilmente dal castello di Porciano, nei giorni in cui Arrigo stava per muovere il suo
esercito contro Cremona e Brescia.
"L'atteggiamento negativo dei
Fiorentini nei confronti di Ludovico di Savoia nel luglio 1310, la loro assenza
dall'omaggio reso a Losanna e poi in Torino all'imperatore da poco giunto in Italia
nell'ottobre dello stesso anno, l'appoggio alla politica avve del re Roberto d'Angiò,
confortato anche dall'atteggiamento ambiguo e preoccupato del papa, le opere di
rafforzamento nelle difese della città e infine la decisione, nel gennaio del 1311, di
fare lega col re di Napoli, con Lucca, Siena, Perugia e Bologna per resistere
all'imperatore, costituiscono lo sfondo storico e politico e gli eventi di cronaca
immediata che hanno motivato l'epistola." (Jacomuzzi)
È una lettera piena di una fierezza
evidente già nell'intitolazione, in cui i Fiorentini sono chiamati scelestissimi,
cioè scelleratissimi.
Dopo aver premesso che per il bene
dell'umana società e convivenza civile è necessaria l'autorità della monarchia (che noi
storicamente chiamiamo "Sacro Impero d'Occidente"), autorità che appartiene di
diritto al Re dei Romani e questo è comprovato sia dalle parole divine che dalla stessa
ragione in quanto cade nel disordine l'Italia quando la sede imperiale è vacante, Dante,
rivolgendosi ai Fiorentini, li rimprovera di essersi ribellati contro l'autorità di
Cesare. Dante pone quindi l'accento sul piano teologico e sacro, rispetto a quello
razionale e filosofico, trattando del rapporto fra i popoli d'Italia e l'imperatore,
chiarificando le basi del potere politico regio e giustificando la missione
dell'imperatore in Italia.
Un concetto, infine, è da mettere in
evidenza, perchè è una considerazione importante e classica, da far risalire addirittura
a Socrate e Platone: il rispetto delle leggi, scrive verso la fine del quinto paragrafo,
non è servitù ma "summa libertas", la massima libertà, perché la libertà
non è altro che il libero passaggio della volontà all'azione, passaggio facilitato
proprio dall'esistenza delle leggi.
Ventinove anni dopo questa epistola e le
rampogne di Dante agli scelleratissimi Fiorentini, Arrigo VII di Lussemburgo moriva a
Buonconvento, sui confini della provincia senese, a cinquantanni d'età, senza che la sua
comparsa sotto Firenze avesse in qualche modo giovato alla causa dei ghibellini.
Epistola VII
Ad Arrigo VII
L'Epistola è stata scritta il
17 aprile 1311 in Toscana presso le sorgenti dell'Arno, che si trovano sul Monte
Falterona, montagna dell'Appennino che divide il Casentino dalla Romagna, per cui qualche
critico ha ipotizzato che fosse stata scritta dal castello di Porciano, che si trovava a 5
miglia dalle sorgenti e era un possesso dei conti Guidi. L'imperatore si trovava ancora in
Milano in procinto di recarsi con l'esercito ad assediare Brescia, ed è una delle tre
ricordate da Giovanni Villani nella sua Cronica (la prima non ci è percenuta):
"e in tra·ll'altre fece tre nobili pistole; l'una mandò al reggimento di
Firenze dogliendosi del suo esilio sanza colpa; l'altra mandò a lo 'mperadore Arrigo
quand'era a l'assedio di Brescia, riprendendolo della sua stanza, quasi profetezzando; la
terza a' cardinali italiani, quand'era la vacazione dopo la morte di papa Chimento, acciò
che s'accordassono a eleggere papa italiano; tutte in latino con alto dittato, e con
eccellenti sentenzie e autoritadi, le quali furono molto commendate da' savi intenditori."
"Essa ci appare non solo come
l'ultima di quelle dedicate all'impresa di Arrigo, ma anche la suprema, per ricchezza e
concretezza tematica e per altezza oratoria. La lettera è motivata da pecise circostanze
storiche: la lunga sosta in Lombardia dell'imperatore occupato a sedare le discordie
milanesi seguite alla cacciata dei guelfi Torriani per mano dei Visconti ghibellini
e già preoccupato delle ribellioni di altri comuni minori (Lodi, Crema, Brescia, Bergamo,
Mantova, Padova, Cremona). Scritta due giorni prima che Arrigo lasci Milano per marciare
su Cremona, essa manifesta la lucidissima intuizione che altrove è il centro effettivo
della opposizione all'impresa imperiale, e precisamente nella lega che si era stabilita
tra re Roberto e altre città dell'Italia centrale, e fra queste soprattutto Firenze,
verso la quale l'imperatore deve muovere senza indugi." (Jacomuzzi).
Nell'ottobre 1310 Arrigo discende in
Italia e si ferma prima in Torino e poi in Asti per comporre le discordie fra guelfi e
ghibellini e sedare gli odi di parte che duravano ormai da molti anni. Verso la fine di
dicembre si trasferisce in Milano, sempre cercando di metter pace, mandando un Vicario
laddove di persona non avrebbe potuto andare e mostrandosi mite e benevolo. In Milano,
nonostante qualche opposizione dei Torriani, fu incoronato con la corona di ferro il
giorno dell'Epifania del 1311, ricevendo il giuramento di fedeltà (vassallaggio) di quasi
tutte le città italiane, tranne Genova, Firenze e Venezia. Credeva di aver
sostanzialmente pacificato l'Italia settentrionale, dopo aver mandato Vicari a Como,
Mantova Brescia e Piacenza, e in altre città meno importanti, tranne a Verona che già si
era mostrata fedele all'impero. Per potersi assicurare la fedeltà della Lombardia decise
di portare con sè nel suo viaggio a Roma, un gruppo di rappresentanti dei Guelfi e dei
Ghibellini, venticinque per parte, nominati appositamente dal partito avversario, e
creando un Vicario generale per la Lombardia nella persona del Conte di Savoia.
Le nomine generarono comunque dispute e
accuse reciproche insieme alle difficoltà per recuperare i soldi per pagare il Vicario
generale, tanto che le due parti, ghibellini capitanati dai Visconti e guelfi capitanati
dai Torriani cominciarono a nutrire sospetti reciproci. Cominciarono gli scontri fra le
due fazioni e i Torriani furono sconfitti e cacciati da Milano, nella quale avevano fino a
quel momento mantenuto un largo predominio, e fu fatto in modo che mai più potessero
rimettere piede nella città.
Questa cacciata originò a sua volta un
fuovco di ribellione, che esplose il 20 febbraio, quando Mantova, Padova, Lodi, Crema,
Bergamp, Brescia e Cremona dichiararono di non voler più ubbidire all'autorità
imperiale. Arrigo rimase incerto, se dovesse procedere verso Firenze, e castigarla, e Roma
per prendere la corona imperiale, o prima castigare le città ribelli. Su consiglio
di Frate Gualdrano, rivolse le armi innanzitutto contro Cremona, con le lamentele di tutti
i ghibellini che aspettavano l'imperatore in Toscana e speravano di rientrare in Firenze.
Mentre l'imperatore era accampato sulle
rive del Po, intento all'assedio, Dante, impaziente per il tempo che si stava consumando
inutilmente nell'attesa scrisse questa lettera a nome anche degli altri fuorusciti
toscani. In essa in Poeta scrive che i suoi fedeli toscani si meravigliano del ritardo
della sua venuta e che la vittoria finale non poteva essere ottenuta contro le città
lombarde, ma contro la Toscana e Firenze, e che sarebbe stato dannoso il differire
ulteriormente l'assalto. La lettera si chiude con un invito a rompere gli indugi,
predicendogli un sicuro trionfo che porterà la pace non solo alla Toscana, ma a tutta
l'Italia.
La lettera, scrive ancora Jacomuzzi,
" è la più ricca e distesa nelle citazioni classiche e scritturali, e per le
seconde, la più ardita nella caratterizzazione sacrale dell'imperatore; ma la sua
originalità che preme all'interno dei moduli della tradizione retorica, sta nella
compresenza di una attenzione concreta ai dati particolari della situazione."
Epistola VIII
La lettera, che non è esplicitamente
attribuita a Dante, è contenuta nel Vaticano-Palatino 1729, uno dei codici che,
come afferma il Fraticelli, Massimiliano di Baviera donò a papa Gregorio XV. Il codice
contiene, insieme al De Monarchia e alle dodici egloghe di Petrarca, nove
epistole di Dante, tra le quali quelle comunemente contrassegnate coi numeri VIII-IX-X, ed
occupano il posto il posto tra la lettera che viene indicata nelle varie raccolte raccolte
a stampa col numero VI (Epistola ai fiorentini) e quella che verrà indicata col n. II
(Epistola ai conti Guido e Oberto da Romena). Non tutti sono d'accordo nell'attribuire
queste tre epistole a Dante, perché manca qualsiasi logico riferimento a una loro
autentica composizione di mano del Poeta; ma ciononostante, il fatto che fossero state
trascritte tra le epistole di Dante, le convergenze con altri luoghi danteschi,
l'atteggiamento nei confronti dell'Impero e che Dante conosceva Caterina di Battifolle,
della quale era stato anche ospite ben accolto, fa propendere molti critici a pensare che
Dante le avesse scritte a nome della contessa.
Scrive il Fraticelli, fra coloro che negano l'attribuzione
a Dante: "Le tre lettere appartengono alla contessa Caterina di Battifolle,
moglie del conte Guido Salvatico, signore di Poppi. Perciocché queste si veggono unite
nel codice Vaticano a sei di Dante, suppose il Torri, e supposero altri, che fossero alla
contessa state dettate da Dante, quasi come di lei segretario. Ma volendo pur dare a
questa ardita ipotesi il valore d'un fatto vero o reale, consegue forse che le tre lettere
all'Alighieri appartengano? Qual relazione a Dante possano avere le proteste di fede e
augurii di felicità, che la contessa Caterina fa a Margherita di Brabante, moglie
d'Arrigo VII? E quelle lettere contengon elle almeno una qualche notizia storica
d'importanza, sì che, illustrando i tempi di Dante, non demeritino di far corredo agli
scritti di lui; quando, secondochè dice lo stesso Torri, Caterina non fa in esse che
ringraziare la cortesia della imperatrice, e darle nuove di sè e della sua famiglia? Con
ragione io credo adunque di poterle escludere dall'epistolario di Dante."
Sul piano storico le lettere confermano la permanenza di
Dante nel castello di Poppi, nel Casentino, nel feudo dei Conti Guidi, al confine del
territorio fiorentino in un momento in cui l'impresa di Arrigo VII avrebbe potuto
veramente decidere i destini da una parte dell'Italia divisa e disordinata dagli appetiti
di molti e dall'altra dei fuorusciti ghibellini fiorentini.
L'epistola fu scritta presumibilmente tra l'estate 1310 (v.
Fraticelli) e l'aprile del 1311 (v. Jacomuzzi), in concomitanza con la prima fase
settentrionale della discesa di Arrigo VII di Lussemburgo in Italia, mentre gli emissari
dell'imperatore visitavano le varie importanti città dell'Italia settentrionale per
guadagnare alla causa imperiale gli indecisi e per incoraggiare gli altri che già erano
fedeli. La lettera contiene grandi ringraziamenti da parte di Gherardesca di Donoratico,
figlia del Conte Ugolino della Gherardesca e moglie di Guido Simone di Battifolle, dei
Conti Guidi, per la particolare prova d'affetto che l'imperatrice Margherita di Brabante
(che morirà a Genova, dove verrà sepolta il 14 dicembre 1311) ha voluto darle mandandole
notizie di se stessa e del marito e augurandole che l'Impero possa essere restaurato dalle
gloriose imprese del Principe Enrico in un'epoca che si presenta delirante.
Epistola IX
(per la parte generale vedi
l'introduzione alla lettera VIII)
Questa seconda lettera esprime quanto
Gherardesca di Donoratico, figlia del Conte Ugolino della Gherardesca e moglie di Guido
Simone di Battifolle, dei Conti Guidi, prenda parte alla gioia dell'imperatrice Margherita
di Brabante (che morirà a Genova, dove verrà sepolta il 14 dicembre 1311) consorte di
Arrigo VII di Lussemburgo per i felici avvenimenti che le aveva comunicato per lettera,
forse quelli di Asti del novembre 1310 (che porterebbero a una approssimativa datazione di
questa lettera al periodo prenatalizio di quello stesso anno, secondo il Fraticelli),
oppure alla pacificazione di Lodi conseguita dall'imperatore dopo la sua partenza da
Milano del 19 aprile e ai progressi della sua azione contro Cremona. Noi propendiamo per
l'ipotesi Fraticelli, perché il 17 aprile Dante aveva scritto all'imperatore una lettera
addirittura furente in qualche punto, invitandolo a rompere gli indugi, a non perdere
tempo in Lombardia, perché il male da estirpare si trovava in Toscana.
Epistola X
(per la parte generale vedi
l'introduzione all'Epistola VIII)
Questa terza lettera, scritta da Gherardesca di
Donoratico, figlia del Conte Ugolino della Gherardesca e moglie di Guido Simone di
Battifolle, dei Conti Guidi, all'imperatrice Margherita di Brabante (che morirà a Genova,
dove verrà sepolta il 14 dicembre 1311), è l'unica datata: scritta a Poppi, val d'Arno
superiore il 18 maggio 1311, e "contiene nuove proteste di congratulazione; alle
quali sull'espressa domanda dell'imperatrice ella aggiunge alcune parole sullo stato di
sua salute, di quella del suo marito, e de' figli (Fraticelli).
Epistola XI
Ai cardinali italiani
Dopo la morte di Clemente
V, 24 cardinali si radunarono in conclave a Carpentras, cittadina della Provenza, sei
italiani e 18 francesi o devoti alla parte francese; i primi volevano un papa italiano che
riportasse la sede pontificia in Roma, por porre fine ai mali che laceravano la Chiesa e
l'Italia, ma troppo forte era il partito francese, da cui già era uscito il precedente
papa, per lasciarsi sfuggire una elezione che ritenevano molto importante.
Dante scriva quindi questa lettera,
indirizzata ai cardinali italiani che già stavano partecipando al conclave, affermando il
suo attaccamento alla religione cattolica e il suo profondo dolore nel vedere Roma e la
sede pontificia abbandonata e deserta e il diffondersi della piaga delle eresie, fino a
rimproverare aspramente i prelati a non condurre il gregge dei fedeli a Cristo per false
vie e a non far mercato delle cose sacre. Infine volge la parola ai cardinali Napoleone
Orsini e Francesco Gaetani (gli altri quattro erano Iacopo e Pietro Colonna, Guglielmo
Longo e Niccolò da Prato) per esortarli a tener presente la misera Roma sola e vedova
delle sue due luci, il papa e l'imperatore. Ma vani furono i voti di Dante e gli sforzi
dei cardinali italiani, perché troppo potente e prepotente era il partito dei Guasconi,
reso più forte dall'ambizione del re di Francia.
L'asprezza di Dante è giustificata dallo
svolgersi degli eventi: già il papa guascone Clemente V, così riportano concordemente
gli storici dell'epoca, era stato eletto con "uno sconvenevole e vergognoso
accordo" con Filippo IV il Bello (il Continuatore del Baronio, Giovanni Villani,
Martino Polono, lo stesso biografo del pontefice); nel corso del suo pontificato la
Chiesa, afferma lo stesso Napoleone Orsini che partecipò al conclave per eleggere il
successore, cade in una estrema rovina, spogliata e confusa, tutta l'Italia lasciata sola
e abbandonata, porta la sede papale in un angolo lontano della Guascogna e queste cose le
aveva concepite sin dai primi momenti del suo pontificato.
Durante il conclave i cardinali italiani
appoggiarono l'elezione di Guglielmo vescovo di Preneste, di conosciuta onestà, che
avrebbe portato a Roma la sede papale: ma difficile era raggiungere un accordo. Il
14 luglio, i cardinali francesi, appoggiati da bande guasconi guidate da Bertrand de Born,
nipote del defunto pontefice Clemente V, irruppero colle spade in mano nel conclave
minacciando i cardinali italiani che furono costretti a sgombrare il salone e a fuggire.
Dopo due anni di trattative, le due fazioni tornarono a riunirsi, senza che Luigi X,
primogenito di Filippo il Bello e suo successore al trono, riuscisse a metterle d'accordo.
Ma il 28 giugno 1316 Filippo V, fratello di Filippo IV, succedutogli nel frattempo aul
trono, si impose con la forza e rinchiuse i cardinali presenti a Lione nel convento dei
Domenicani: il 7 agosto venne nominato il nuovo papa , il guascone Jacques-Arnaud d'Euse,
nativo di Cahors che assunse il nome di Giovanni XXII, che fissò la sua residenza ad
Avignone di cui era vescovo.
Epistola XII
All'amico fiorentino
L'abate Mehus studiando il manoscritto della
Biblioteca Laurenziana contrassegnato come VIII, Plut. XXIX, capì che la
lettera era di Dante, e di questa sua
scoperta fece partecipe il Canonico Dionisi, che se ne valse subito pubblicando la lettera
nel quinto Libro dei suoi Aneddoti (Verona 1790). Anche il Foscolo la stampò nel suo
volume di Saggi sul Petrarca; la prima edizione che
può definirsi criticamente corretta è ad opera dello studioso Witte nel 1827.
L'Epistola
fu scritta nel maggio 1315 (secondo Jacomuzzi, Dionisi nella sua Vita
di Dante e altri) e indirizzata a un amico, che Dante chiama due volte
"pater" che, insieme al richiamo a un comune nipote, fa pensare a un rapporto di
parentela e allo status di religioso dell'amico-parente. Il nipote potrebbe essere
Niccolò di Fusino di Manetto Donati, figlio di un fratello di Gemma, del quale si ha
notizia che partecipò, nel tempo appunto di questa lettera, alla battaglia di Montecatini
(29 agosto 1315) e che fu in stretta relazione con la famiglia di Dante, restando al
fianco dei suoi figli.
Il 19 maggio 1315 il Comune di Firenze approvò
un'amnistia a tutti gli esiliati, e questa volta senza limitazioni (dalla precedente,
infatti, Dante era stato volutamente e dichiaratamente escluso), che sarebbero rientrati
in Firenze, o liberati dal carcere, il 24 di giugno, in occasione della festa del Patrono
della città. La cerimonia per gli amnistiati prevedeva che partendo dal carcere,
avrebbero dovuto percorrere il tragitto in processione a piedi scalzi, vestiti d'un sacco,
con una mitra di carta con sopra scritto il nome e il reato dei malfattori in capo, un
cero acceso in una mano e una borsa con danaro nell'altra, fino al Battistero, al
"bel San San Giovanni", dove venivano offerti in stato di pentimento all'altare
e al santo della città. Compiuto questo rito sarebbero stati reintegrati nei loro beni e
in ogni loro altro diritto. Se si trattava di fuorusciti politici che, al momento del
provvedimento non erano in carcere, l'oblatio consisteva nel toccare simbolicamente col
piede la soglia del carcere e quindi presentarsi al tempio, senza l'umiliazione della
mitra né altre condizioni degradanti.
Secondo Altri (Foscolo, Fraticelli)
l'epistola fu scritta alla fine di dicembre del 1316 o, più verosimilmente, al principio
di gennaio del 1317 (che per i fiorentini era ancora il 1316 in quanto il loro anno
cominciava il 25 marzo). Queste date sono state ricostruite dal Fraticelli attraverso i
documenti conservati nell'Archivio delle Riformagioni, che nel 1316 riporta tre provisioni
o stanziamenti per riammettere in città ribelli e banditi:
- 2 giugno - Libro n. 15, classe 2, Dist. 2, pag. 181;
- 3 settembre - Libro n. 16, classe 2, Dist. 2, pag. 10;
- 11 dicembre - Libro 16, classe 2, Dist. 2, pag. 36.
Proprio a quest'ultimo provvedimento si riferisce il Fraticelli
Nel 1316, caduto in basso Uguccione della
Faggiuola, che fino a quel momento era stato il principale sostenitore dei ghibellini, i
fiorentini nel mese di ottobre, elessero il conte Guido da Battifolle all'ufficio di
Potestà, rimuovendo dall'incarico il feroce Lando da Gubbio, e due mesi dopo a tutti i
fuorusciti e banditi dalla città di poter rientrare a certe condizioni in Firenze, con
una solenne cerimonia che si sarebbe dovuta tenere, come abbiamo visto, il 24 giugno,
giorno di San Giovanni.
Ma le condizioni del ritorno erano per Dante troppo umilianti e gravose (avrebbe dovuto
pagare anche una certa quantità di denaro. Con sdegno rifiuta l'umiliante proposta: mai
avrebbe accettato di stare a fianco di malfattori, come Ciolo degli Abati, che, condannato
nel 1291, era stato poi assolto proprio mediante una amnistia. Come Dante si trovava tra
gli esuli contumaci, anche lui escluso dalla riforma di Messer Baldo d'Aguglione del
settembre 1311.
All'amico risponde con questa lettera,
dichiarandosi pronto a rientrare, ma con tutto il rispetto dovuto alla sua innocenza
conclamata e a tutti manifesta e al suo lavoro, per il quale in esilio non gli manca il
pane e può continuare i suoi studi, a cercare le dolcissime verità.
Epistola XIII
A Cangrande
L'opinione generale vuole
che Dante si trovasse a Verona, alla corte di Can Grande della Scala, verso la fine del
1316 o all'inizio dell'anno seguente, quando Uguccione della Faggiuola, capo riconosciuto
e sostenitore dei ghibellini toscani, perduta la signoria di Pisa e di Lucca, riparò alla
corte di Verona, ricevendo da Can Grande l'invito a prendere il comando delle sue truppe.
La lettera, considerata come
l'introduzione alla terza cantica della Commedia, contiene l'esposizione del
primo canto del Paradiso, che Dante, possiamo arguire, aveva appena cominciato a
scrivere e che dedicava allo Scaligero. Di essa abbiamo una tradizione manoscritta
indubbiamente più ricca di tutte le altre lettere e frequenti testimonianze nei commenti
più antichi (Jacopo della Lana, l'Ottimo, Guido da Pisa, Giovanni Boccaccio nel suo
commento del 1373, Filippo Villani che, adempiendo nel 1391 all'ufficio di pubblico
lettore della Commedia, cominciò la sua esposizione appunto con questa lettera,
che egli chiama introduzione sopra il primo canto del Paradiso, citandone
testialmente le parole).
La lettera, scrive Jacomuzzi, "si
presenta distinta in due parti:
- la prima dal primo paragrafo a quasi tutto il quarto (fino
alle parole «itaque, formula consumata epistole»), si configura come una
lettera dedicatoria nella quale l'autore, dopo aver tessuto l'elogio di cangrande, e
manifestato la propria gratitudine, offre la dedica della terza cantica della Commedia,
«que decoratur titulo Paradisi», al signore scaligero, come il dono più degno e
conveniente a contraccambiare e conservare la sua amicizia;
- la seconda è condotta come un compendioso trattato introduttivo al Paradiso,
illustrato negli elementi - soggetto, forma e titolo - nei
quali la cantica differisce dal poema nella sua totalità e in quelli - autori, fine
e genere di filosofia - che essa ha in comune col tutto; conclude questa parte un
commento particolareggiato al prologo della cantica, che bruscamente viene interrotto e
rinviato per le difficoltà materiali che in quel momento opprimevano il Poeta."
La seconda parte, indubbiamente, è la
più importante, perchè la sua opera è di natura polisensa, racchiudendo più
sensi:
1 - il letterale, che è quello che si ottiene alla
semplice lettura e si identifica col senso storico; tutto il racconto della Commedia si
propone come evento reale, e quindi storico;
2 - l'allegorico, (allegoria deriva da 'alloios',
una parola greca che significa 'diverso') che racchiude il significato nascosto nel
significato letterale e diverso da questo, che può essere riassunto nella nostra
redenzione operata da Cristo; e questo racchiude due ulteriori significati:
2-a - il significato morale, che porta
a comprendere la conversione dell'anima dal pianto e dalla miseria del peccato allo stato
di grazia;
2-b - il significato anagogico, che
porta a comprendere, nei fatti e nei personaggi narrati, il passaggio dell'anima santa
dalla schiavitù della corruzione contingente dell'esistenza alla libertà dell'anima
nell'eternba gloria della Salvezza.
Dante passa quindi a trattare la
spiegazione del titolo della sua opera, del significato di Commedia
distinguendolo da quello di Tragedia, che differiscono sia per per le cose
trattate (i contenuti) che per il modo in cui sono trattate (la lingua), e infine tratta
la spiegazione del soggetto.
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 09 June 1999