Giuseppe Chiarini
Introduzione al Foscolo
DELLE
POESIE LIRICHE E SATIRICHE
DI UGO FOSCOLO
E DI QUESTA EDIZIONE DELLE "GRAZIE"
(Prima sezione)
PARTE PRIMA.
DALLE POESIE GIOVANILI Al CARMI E AI SERMONI.
Nell'anno 1794 il
Foscolo dava all'amico suo Costantino Naranzi il manoscritto di un volumetto di poesie,
ch'erano (è naturale supporre) il meglio di ciò ch'egli aveva scritto fino allora, cioè
prima de' sedici anni (Verrà pubblicato a Lugano dal Ruggia nel 1831, ndr.). In una nota
posta in fine del manoscritto diceva all'amico suo, che, se la piccolezza del volume non
glie lo avesse impedito, avrebbe potuto offrirgli altre versioni di Anacreonte, di
Teocrito, di Mosco, di Tibullo, di Properzio, di poeti tedeschi ed inglesi, ed un saggio
di poesie campestri.
Un altro amico, con cui il nostro giovine
poeta comunicava intorno a' suoi studi, era Gaetano Fornasini di Brescia, uomo di molte
lettere, secondo il giudizio di Alessandro Torri, riferito dagli editori dell'epistolario
foscoliano, ed autore di alcune novelle e di altri scritti di buona lingua. Il Foscolo
carteggiava con lui fino dal 1794; gli mandava da esaminare e giudicare le sue poesie,
pregando che il giudizio fosso franco e sincero; e gli dava egli l'esempio, giudicando con
franchezza e sincerità i componimenti di lui. Il 10 dicembre 1794 gli mandò una elegia e
due canzoncine. "La prima di queste, gli scriveva, è la traduzione di una di Thesdeher, poeta anacreontico turco. Io la ho
trovata nel Muratori in italiano, ma mi è poco giovata, mentre io ne posseggo parecchie
dello stesso genere tradotte in greco volgare .... La seconda poi di queste canzoncine è
mia".
Una tal volta il Fornasini chiese, pare,
al Foscolo un sonetto per un amico che doveva dire la prima messa; ed il Foscolo si provò
a farlo, ma non gli riuscì ; e mandò invece, il 14 marzo 1795, de' versi sciolti,
scusandosi di non aver saputo fare il sonetto. Avendo poi il Fornasini notato nei versi
qualche difetto, e pregato il Foscolo di emendarli, questi gli rispondeva il 16 maggio,
che non aveva più copia de' versi, e che li emendasse lui, o li lasciasse come erano; e
in un poscritto aggiungeva: " Se per quel difetto da voi
giudiziosamente marcato nel principio del mio sciolto, fosse indegno della stampa, io vi
spedisco una ode che invece di esso voi farete imprimere. Me se l'uno e l'altra fossero
difettosi del paro, bruciateli; .... Per me desidererei moltissimo che si scartasse, in
caso di concorrenza, lo sciolto ed il sonetto, e si ammettesse la ode. Per altro, fate voi".
Pare dunque che gli fosse riuscito anche il sonetto.
In un'altra lettera dello stesso mese di
maggio, ritornando sull'ode, gli diceva: " Quanto poi a l'ode
per messa, imprimetela, bruciatela, fatene ciò che vi piace. Ad ogni deliberazione, mi vi
raccomando o d'una copia o d'un avviso. Baciate dopo la di lui celebrazione il nostro
amico, e fate che vi trasfonda quella purità ch'ei colse a piè dell'ara, ove offrì i
giorni suoi. A me spiace, sommamente che l'amicizia non mi abbia dettato de' versi più
affettuosi e più sublimi". Con questa seconda lettera del maggio egli fa il
ritratto di sè all'amico, che nol conosceva personalmente. La riferisco, perchè mi par
curioso il raffrontarlo con quello che si fece più tardi nel famoso sonetto tante volte
modificato. " Di volto non bello, ma stravagante e d'un'aria
libera; di crini non biondi, ma rossi; di naso aquilino, tra non picciolo e non grande;
d'occhi mediocri ma vivi ; di fronte ampia, di ciglia bionde e grosse, e di mento rotondo.
La mia statura non è alta, ma mi si dice che deggio crescere; tutte le mie membra sono
ben formate dalla natura, e tutto hanno del ritondo e del grosso. Il portamento non
scuopre nobiltà nè letteratura, ma è agitato trascuratamente. Eccovi il mio ritratto ".
Delle poesie mentovate in queste lettere
al Fornasini non m'è riuscito trovar traccia, e perciò non saprei dire che sieno; ma
certo non dovettero essere molto migliori di quelle date manoscritte al Naranzi: non ho
potuto trovare neppur l'ode per messa, la quale fu stampata, come apparisce da un'altra
lettera del Foscolo al Fornasini, del 19 agosto 1795, che giova riferire quasi per intero.
" Grazie dell'ode stampata: se fosse pervenuta corretta, e un
po' piú genuina, t'avrei ringraziato di più buon cuore; nulla di meno tu mi sei caro
egualmente. In prova ti trascrivo un'oda ch'io scrissi prima di cadere a letto, d'onde
sono risorto pien di languore e di svogliatezza. Tu la mostra allo Scevola fa' che mi
consigli con la sua critica giudiziosa, giacchè questa ode, unita ad un'altra dozzina,
dovrá da qui a qualche mese stamparsi. L'inquisizione si mostra troppo severa; a primo
leggerle sembrò che sia stata presa da un accesso di febbre. Attendiamo Che passi tal
parossismo, e poi le farem pubblicare. Lo stile è quasi eguale a questo. Gli argomenti
eccoli: "A Dante: * La Verità: * L'Avarizia: La
Patria: L'Olocausto (è quella che voi stampaste, o
Bresciani, son pochi mesi): " La Campagna: L'Incontentabilità: I Destini: * Ai Regnanti (qui
l'Inquisitore fa fuoco): L'Adulazione, All'Italia; e questa che leggerete. Quelle c'han questo segno " si comanda che
soffrano qualche mutilazione, e la altre contrassegnate con l'asterisco si vogliono
immerse nella caligine. Addio".
Alla lettera segue, dopo un poscritto,
questa Giunta, "Per particolarizzarti di più il mio
libretto, dirotti che ha questo titolo: ODI | di Nicolò Foscolo | Vitam impendere vero
| 1795". La dedica di cinque righe all'Alfieri; il neologismo a' puristi; i margini a
que' che si dilettano di scarabocchiarvi i loro pensieri; ed il restante a' barbassori ed
a' critici. Addio ".
Il Carrer
nella sua Vita del Foscolo parla di un Indice degli
scritti composti o ideati dal nostro autore fino all'anno 1796,e cita alcune delle poesie
in quell'Indice registrate. "Le poesie, scrive egli, cominciano
dalle versioni di Anacreonte, di Saffo, di Teocrito, di Catullo, di Tibullo, di Properzio,
di Pontano, tranne il primo, per tratti; poi del libro terzo di Milton, di alcuni idilli
del Gessner, di varie canzonette dallo inglese, ogni cosa su traduzioni francesi. Tra le
poesie originali sei canzoncine hanno l'aggiunto belle, altre illeggibili,
il più sono contrassegnate con un da rifondersi, o da lacerarsi. Ricordo
specialmente dodici odi del conio dell'autore, col motto Vitam impendere vero: - A Dante - La Verità - I Grandi A mia Madre - Il Sacrifizio;
a Scevola - La campagna; a Bertola - L'ingordigia - L'adulazione; al Parini
- All'Italia - La lode; al Mazza - La. . . (forse, La musica);
all'Ansani - Robespierre. - Si aggiunge - Ai... (forse, Ai novelli repubblicani) - Il mio tempo. E la nota: tutte
queste odi esigono la lima di molti mesi. E fatto memoria di un poemi, Il Genio, in tre canti, incominciato,
ma da compirsi dopo dieci anni. Il piano del poema è tale: Canto
1, Il Genio universale ; II, Il Genio nelle scienze; III, Il Genio nelle
arti. Un canto che descrive la storia del Cristianesimo
dal principio del mondo - Parodie della odi di Pindaro - Oda mosaica - Capitoli
fidenziani. Delle tragedie si nota il Tieste: l'Edipo
ha un recitabile, ma da non istamparsi; meditato Focione
e i Gracchi " [Carrer, Opere, Lemonnier, vol. I, p. 240].
All'Indice è, dice il Carrer, aggiunta la nota seguente: Queste opere tutte sono altre
destinate alle fiamme, altre alla privata lettura di pochi amici ed il minor numero alla
correzione e alla stampa, dopo il termine di dieci anni.
Qui il Carrer osserva, ad elogio del
giovine poeta, che egli co' dieci anni s'imponeva una legge più rigida della oraziana; ma
bisognava osservare anche che colti propositi dei poeti giovinetti sono come i giuramenti
dei marinari. Il Foscolo scriveva a quel modo, mentre l'anno innanzi aveva, come abbiamo
veduto, fatto disegno di pubblicare un volumetto di odi, fra le quali alcune di quelle
notate poi nell'Indice: e può essere che siasi ritenuto dal mandare ad effetto quel
disegno per dato e fatto della legge poi impostasi, ma può anche non essere. Il Foscolo
scriveva a quel modo, e pubblicava poi nello stesso anno 1796 e nell'anno appresso alcune
delle poesie notate nell'Indice. Piuttosto, l'essersi
imposto quella legge, che poi non osservò, mostra che egli in fondo sentiva, non dirò il
poco valore e i molti e gravi difetti delle sue composizioni poetiche, ma la sua
inesperienza nell'arte, compagna inevitabile della molta giovinezza.
Le poesie dell'Indice,
che il Foscolo pubblicò o lasciò pubblicare (se aspettava, non dieci, ma soli quattro o
cinque anni, non le avrebbe certo licenziate alla stampa), sono le odi A Dante, Il mio tempo, La Verità, che uscirono, le prime
due anonime, la terza col nome dell'autore, in alcune raccolte poetiche dell'anno 1796, e
l'ode Ai novelli repubblicani, che comparve col nome
dell'autore in una di quelle medesime raccolte dell'anno dipoi.
Fra le odi dell'Indice
ve n'è una intitolata Robespierre; ma non si sa con che certezza il Foscolo la
scrivesse. È certo invece che su Robespierre scrisse un poema in tre canti. Lo cita anche
il Carrer come già composto e letto dall'autore agli amici, adducendo in prova di ciò la
menzione che si fa di esso in un sonetto di Odoardo Samueli in lode del Foscolo. Se anche
il poema, contrariamente a quello che crede il Carrer e pare confermato da una nota al
sonetto dei Samueli, non fu finito, é certo che il Foscolo vi stava lavorando nell'anno
stesso in cui scrisse l'Indice.
E appunto di quell'anno deve essere una
lettera del poeta a Paolo Costa, nella quale così gli parla del Robespierre; "Continuo il filo della mia Cantica: ne aggiungo e ne levo le stanze che
piú o meno m'appagano e torno insensibilmente a richiamare alla mia presenza l'uom
moribondo, il padre indigente, il povero oppresso; e con essi movo la parole
dell'afflizione, piango al lor pianto, fin che ripiombo nella mia prima tristezza
terribile". In fine della lettera riporta queste due terzine dal canto II:
Tal del Giordan sul
margo un dì solia |
Ai versi offerti al Naranzi succedono
per ordine di tempo, oltre le poesie di cui nelle lettere al Fornasini, una canzone e
cinque sonetti. In morte del padre e l'ode Al Bertola. La poesia in terzine La
croce, le odi Il mio tempo, A Dante, La verità, La
morte di*** (ch'è una nuova lezione dell'ode In morte
del duca G. C.,) e l'Elegia furono
pubblicate nel 1796: le Rimembranze, gli sciolti Al sole, uno dei sonetti In morte
del padre e quello A Venezia, nel 1797.
Furono pubblicati pure nel 1797, e credo composti in quell'anno stesso, i due canti La Giustizia e la Pietà,
l'ode Bonaparte liberatore e quella Ai novelli repubblicani.
Tutte le poesie di cui ho fatto cenno, ed
altre notate nell'indice, composte, incominciate, abbozzate, o anche soltonto ideate prima
dei diciannove anni, attestano un grande ardore, molta larghezza d'idee, ed una grande
operosità: e ciò che di esso pervenne a noi, o pubblicato dall'autore od inedito, basta,
e n'avanza, a darci un'idea dell'ingegno, delle attitudini artistiche e degli studi del
giovine poeta.
Ora che la poesia del Foscolo si conosce
intera, non ci vuol molto a ritrovarne qualche fuggevole traccia anche in queste prime
prove; ma chi le consideri da per loro isolatamorte, durerà molta fatica a trovare in
esse i segni molto chiari di quella facoltà creatrice ed artistica, che doveva produrre
di lì poco le due odi famose e i sonetti, indi il Carme dei Sepolcri e alcuni frammenti
degl'Inni alle Grazie. Si fa presto a notare che in questi versi giovanili ci sono le
urne e i cipressi, ci sono le Grazie e le Ninfe, c'è il padiglione del Sole, ci
sono le Ore che danzano e la Luna che guata gli amanti e ride, c'è Pallade che sferza gli
anelanti cavalli, e altre cose e parole e immagini che ricompariscono nelle poesie
dell'età matura; ma ciò non prova altro, se non che certi ingredienti possono ugualmente
trovarsi in una poesia artisticamente molto bella, e in altre dove fra molte imperfezioni
d'arte si cerca invano l'impronta di un grande ingegno.
Non è un fatto nuovo nè rarissimo
questo, che un poeta, levatosi ben presto ad un'altezza non comune, scrivesse e
pubblicasse, nella prima gioventù delle poesie molto mediocri, ed anche assolutamente
brutte. Lo Shelley, che stampò a ventun anno la Qneen Mab,
poema dove in mezzo a molte imperfezioni si rivela una facoltà poetica straordinariamente
grande, che compose a ventitre l'Alastor e a
ventisette il Prometheus unbound, scrisse negli anni
più giovani delle poesie molto al di sotto della mediocrità. Lo stesso Leopardi, uno
certamente degl'ingegni più precoci dell'età moderna, che cosa compose prima dei ventun
anni, che dimostrasse intero il suo valore poetico? Se ne togli poche terzine della
cantica L'appressamento della morte, tutto il rimanente bagaglio delle sue poesie
giovanili, cosí originali, come tradotte, pesa ben poco, e non prometto davvero il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia e la Ginestra.
Anche nelle poesie giovanili del Foscolo
c'è qualche traccia di attitudine Al poetare; ma il concetto generale e lo svolgimento
delle poesie sa sempre d'imparaticcio, e dimostra molta incertezza e inesperienza; manca
la fusione dello stile; e abbondano le immagini goffe strampalate volgari, e i versi
malfatti. C'è poi qua e là della roba bruttina assai.
Pure quei brutti versi diedero fama al
poeta, fama che non oltrepassava di molto i confini del Veneto, ma bella fama. La molta
giovinezza del Foscolo, l'ardore che traspariva, non pure dalle sue poesie, ma da tutti
gli altri suoi scritti e dalla sua stessa persona, le libere opinioni ch'egli professava
non senza un poco di ostentazione, che gli fu sempre naturale, la facilità con cui allora
scriveva, facilità che contrasta in modo singolare con la incontentabilità degli anni
maturi, l'andar componendo e improvvisando versi ed epigrammi che poi recitava fra le
allegre brigate, e il falso gusto poetico del tempo (tra le vacuà pompositá e sonorità
degli uni e l'affollata e sciatta semplicità degli altri, s'era quasi perduto il senso
del vero nella espressione poetica), furono, io credo, le principali cagioni della sua
forma; la quale e giovò non poco al clamoroso successo chebbe il Tieste, e
fu da quel successo raffermata e accresciuta. Sono singolare documento di cotesta fama il
sonetto del Samueli da me citato, e un'ode di Ferdinando Vaini, pubblicati l'uno e l'altro
in quella raccolta poetica del 1797, alla quale anche il Foscolo diede suoi versi.
*
* *
Ma la giovinezza
poetica d'Ugo finì presto e d'un tratto, in modo veramente meraviglioso. All'ode Bonaparte liberatore, scritta a diciotto anni, che rivela
una mente poetica ancora immatura e un artefice di versi incerto e impacciato, successero
negli anni dal 1798 al 1800 gli otto sonetti pubblicati, con l'ode alla Pallavicini, nel Nuovo giornale dei letterati di Pisa. Se non sono tutti
egualmente perfetti, c'è in tutti lo stampo originale dell'autore; son tutti
l'espressione viva e forte dei sentimenti di lui; sono la prima virile affermazione della
sua personalità; sono, quasi direi, la presentazione ch'egli fa di se stesso al mondo.
Questo rapido, e quasi improvviso,
trapasso dalla inesperienza giovanile alla sapiente maturità dell'arte è tanto più
meraviglioso nel giovine poeta, quanto è tutto opera interiore, e direi quasi spontanea,
della sua mente, senza l'aiuto di esempi ed incitamenti esteriori. Gli elementi, che si
agitavano incerti e confusi nella sua niente, a un tratto si ordinarono, si fusero, si
depurarono, ed egli sentì che aveva trovato la forma dellarte sua.
Si sa con certezza che gli otto sonetti
sono anteriori allottobre 1802, perchè furono allora stampati nel Nuovo giornale dei letterati di Pisa. In una lettera poi al
Monti del 29 aprile dello stesso anno 1802 il Foscolo dice ch'egli stava allora odeggiando
(scriveva l'ode All'amica risanata) dopo un anno che
le vergini muse lo avevano lasciato: lo che ci riporta ai primi mesi del 1801, confermando
la mia supposizione circa il tempo in cui i sonetti furono composti. Non è probabile,
anzi neppur possibile (come vedremo) ch'essi, salvo forse il VII,
siano stati composti fra il tempo in cui fu scritta la lettera al Monti e quello della
loro pubblicazione nel giornale pisano.
Aggiungasi che il Foscolo, mandando
nell'aprile 1803 all'amica sua Isabella Teotochi Alibrizzi le poesie che in quel mese
stesso aveva pubblicate a Milano, fra le quali erano ristampati gli otto sonetti e l'ode
per la Pallavicini, le scrive che "quelle poche poesie erano
trascelte dalle molte che aveva scritto quando dei suoi fiorenti anni fuggiva la
stagion prima"; con la quale espressione credo che volesse indicare i
venti anni, da lui compiti nel 1798, e alludere in particolar modo agli otto sonetti, che
fra le poesie allora pubblicate erano le più giovanili.
Oltre queste ragioni generali per
determinare il tempo in cui furono composti i sonetti, ce ne sono delle particolari, che
si possono desumere dal contenuto dei sonetti stessi, e che determinano quel tempo anche
più esattamente.
Quanto al sonetto II,
l'accenno al finire della giovinezza nella prima quartina,
E secco è il mirto, e son le foglie sparte |
l'accenno alla vita militare nella seconda,
ed arte |
il pensiero del suicidio nelle terzine, e la tristezza profonda onde il
sonetto intero è animato, me lo fan credere composto al tempo dell'amore del poeta per
Isabella Roncioni, la Teresa dell'Jacopo Ortis; amore che io credo incominciato nel 1799 e
troncato nel gennaio del 1801.
Il sonetto XII
porta, si può dire, con sè la fede di nascita nella prima quartina. Esso dovette essere
scritto negli ultimi giorni del dicembre 1799, in Firenze:
Che stai? già il secol l'orma ultima
lascia; Dove del tempo son le leggi rotte Precipita, portando entro la notte Quattro tuoi lustri, e oblio freddo li fascia. |
Appunto l'anno innanzi il poeta aveva, come dissi, compiuto venti anni.
Nel primo verso della prima terzina, Figlio infelice e disperato amante, è una
chiara allusione all'amore per la Roncioni, ch'era dalla famiglia sua destinata sposa ad
altro uomo.
I sonetti IV,
V, VI
e VIII si riferiscono, secondo me, tutti a
cotesto amore.
È molto probabile, anzi quasi certo, che
il poeta abbia amato qualche altra donna prima della Roncioni. L'amore fu uno dei bisogni
più precoci e più imperiosi della natura sua; e poichè egli menò vita molto vagabonda,
e poichè di donne che amano i poeti, cioè che desiderano essere amate da loro, non c'è
mai stata penuria, gli fu forza amare molto e mutare spesso d'amanti.
Egli cominciò ad amare prestissimo. Le
sue prime poesie, scritte fra i 14 e i 16 anni, e date al Naranzi, sono quasi tutte
d'amore, amore molto arcadico, ma amore. Nel 1795, cioè all'età fra i 16 e i 17 anni,
scriveva all'amico suo Fornasini: " l'amore s'impadronì e
regna su me qual ambizioso tiranno, ma affettuoso come un tenero padre, ed ingenuo come il
più dolce degli amici miei. Amo, ma contento d'un solo sguardo, passo i miei giorni col
mio Tibullo, e con il patetico cantore di Selma". Quanti e quali siano stati
gli oggetti di questi primi amori, io non saprei dire. Nella Elegia
si parla di una morta amica del poeta; forse la donna stessa per la quale sospirava nel
1795, contento di un solo sguardo. Si sa poi che, recatosi nel 1797 a Milano, s'innamorò
al primo vederla, di Teresa Pickler, la bella moglie di Vincenzo Monti. Checchè sia di
questi primi amori, una cosa è indubitata, che prima del 1801 la passione più forte del
Foscolo, quella, direi quasi, che per un momento assorbì tutte le altre sue velleità
amorose, fu la passione per la Roncioni.
Dove e quando conoscesse la bella giovane
pisana non si sa con certezza. Nella notizia premessa alla decimaquinta edizione
dell'Ortis (Londra, 1814) egli dice che la conobbe viaggiando; ciò che è confermato, con
maggiori particolari, da una sua lettera privata, nella quale scrive: " . .. viaggiando per l'Italia e fermandomi nel suo paese più bello, amai
quanto il mio cuore poteva amare, e quanto gli bisognava per distogliersi, almeno per
poco, dalle sciagure della mia patria ". Che quel paese è Firenze è
attestato anche dal sonetto VIII, A Firenze, le cui terzine riferisconsi indubbiamente alla
Roncioni:
Per Ilio cara felice
inclita riva, Ove sovente i più leggiadri mosso Colei che, vera al portamento Diva, In rito volgeva sue luci beate, Mentr'io sentici dai crin d'oro commosse Spirar ambrosia l'aure innamorate. |
Ove si pensi che il
Foscolo fino al novembre del 1797 fu in Venezia, e che di là passato a Milano, e
cercatovi inutilmente un impiego civile, incominciò a viaggiare con incarichi militari
soltanto verso la metà dell'anno oppresso, parrà chiaro che egli non potè conoscere la
Roncioni prima d'allora. Il qual fatto congiunto con l'altro, che la passione più forte
del Foscolo prima del 1801 fu quella ch'egli ebbe per la bella pisana, bastano quasi essi
soli a provare che la donna cantata nei sonetti, scritti appunto in quel periodo di tempo,
non può essere altra che lei.
Nel luglio del 1798 il Foscolo andò a
Bologna segretario di una Commissione militare di guerra. Era certamente a Bologna
nell'aprile del 1799; e niente ci impedisce di supporre, che da Bologna avesse occasione
di andare a Firenze, dove nel marzo di quell'anno erano entrati i Francesi. Quando
precisamente ci andasse non sappiamo, ma che ci dovè andare proprio nel 1799 risulta da
documenti che mi paiono irrefragabili. Con una lettera del 15 ottobre 1812 il Foscolo
scrivevi all'Albrizzi: "mi ricordo ch'io giovinetto in Firenze
non mi sentii vinto, com'io presumeva, dalla bellezza della Venere dei Medici; ma dopo
alcuni anni, quand'io la rividi a Parigi, l'adorai per più giorni, e non sapeva
staccarmene". Con lettera del 24 luglio 1816 scrive alla Magiotti: "Di Niccolini non ho mai diffidato.... Io l'ho amato e l'amo e l'amerò
sempre con lo stesso calore di diciassette anni addietro, allorché ho cominciato ad
amarlo". Finalmente in altra lettera alla stessa Magiotti del 23 marzo 1816 si
leggono queste parole: "Io non tenni mai tanta riserva neppure
con l'Isabellina quando era fanciulla, ed io non aveva ancora venti anni".
Il primo di questi documenti ci attesta
che il Foscolo fu in Firenze quando c'era ancora la Venere dei Medici, cioè prima della
occupazione francese, la quale avvenne ai primi d'ottobre del 1800; il secondo che il
Foscolo conobbe e cominciò ad amare il Niccolini in Firenze diciassette anni prima del
1816, cioè propriamente nel 1799; il terzo ch'egli si innamorò della Roncioni quando non
aveva ancora venti anni, cioè piuttosto prima che dopo il 1799.
Messe insieme queste tre attestazioni, e
cercando di accordarle fra loro, non mi pare audacia l'affermare, come ho fatto, che il
Foscolo dovè andare a Firenze e conoscervi la Roncioni nel 1799.
Il fatto trova conferma nel sonetto VI, del quale, benchè altri ne dubiti, io non so
dubitare che sia stato scritto per la Roncioni. Leggiamolo.
Meritamente, però ch'io
potei Abbandonarti, or grido alle frementi Onde che batton l'alpe, e i pianti miei Sperdono sordi del Tirreno i venti. |
Questi versi ci dicono che il sonetto fa scritto dopo che il poeta avea
dovuto abbandonare la donna sua, ci dicono che fu scritto in un luogo di mare, sul
Tirreno, vicino alle Alpi. Notisi che si tratta di un primo abbandono, cioè della prima
volta che il Foscolo, appena veduta, si può dire, la Roncioni, ed innamoratosene, deve
allontanarsi da lei per ragioni di servizio militare.
Il Foscolo dagli ultimi d'aprile al 15
agosto 1799 errò sempre combattendo nelle Romagne e nell'Emilia, e riparato nell'ottobre
in Liguria, non si mosse di là, salvo per una gita a Nizza, fino al 4 giugno del 1800.
Dal giugno 1800 alla fine del 1802 egli, che si sappia, non fu mai più a Genova, nè in
altra città sul Tirreno; anzi si sa che non ci fu. Ciò posto, è facile conchiudere che
il sonetto dovette essere scritto durante la dimora dei Foscolo nella Liguria; che in
conseguenza l'abbandono del quale in esso si parla dovè essere anteriore all'ottobre
1799, nel qual tempo sappiamo che il poeta era a Genova; che in conseguenza il poeta dovè
conoscere la Roncioni ed innamorarsene prima dell'ottobre 1799.
Il resto del sonetto, che a qualcuno
potrebbe sembrare contrastasse con le deduzioni ch'io traggo dalla prima quartina, si
accorda, a parer mio, perfettamente con esse.
Sperai, poi che mi han
tratto uomini e Dei In lungo esilio fra spergiure genti Dal bel paese ove or meni sì rei Me sospirando i tuoi giorni dolenti; Sperai che il tempo e i duri casi e queste Rupi ch'io varco anelando, e l'eterne Ov'io qual fiera dormo alte foreste Sarien ristoro al mio cor sanguinente: Ahi vota speme! Amor fra l'ombre inferne Seguirammi immortale onnipotente. |
Il lungo esilio
non è già, come potrebbe parere a prima vista, un vero e proprio esilio; è la
lontananza del poeta da Firenze, dal bel paese, ove la donna sua rimasta senza di lui,
vive mestamente sospirando; è lungo, perchè agli innamorati anche i mesi e le settimane
paiono anni. Le spergiure genti non son già gli stranieri, fra i quali il poeta
andò peregrinando più tardi, ma gl'Italiani ribelli al nuovo ordine di cose, contro i
quali egli combatté, che lo imprigionarono, che al sopravvenire di qualche vittoria degli
Austro-Russi abbattevano gli alberi della libertà e infierivano contro i repubblicani. I
duri casi, le rupi varcate anelando, e le alte foreste ove dorme qual fiera
sono una allusione, poeticamente esagerata, com'era nell'indole del poeta, e come allora
prirticolarmente portava la esaltazione dell'animo suo, ai disagi della vita militare
durante i combattimenti ai quali si trovò dalla primavera del 1799 all'estate del 1800.
Del sonetto VIII,
A Firenze, non saprei determinare esattamente il
tempo; ma la serenità d'affetto, ch'è nelle terzine, m'induce a crederlo composto nei
principii dell'amore. Se fu scritto a Firenze, fu scritto certo quando la donna amata
n'era lontana; come appare dalle espressioni, Ove sovente i piè leggiadri mosse e in
me volgeva sue luci beate.
Appartiene certo ai principii dell'amore
il sonetto IV, composto quando il poeta non s'era ancora dichiarato, ma vedeva la sua
donna e le parlava.
Di lacrime, di speme e d'amor vivo |
Quanto al sonetto V mi pare molto probabile la opinione del Bianchini, ch'esso sia stato composto a Firenze nei primi del 1801, quando la Roncioni era vicina a sposare il Bartolommei e che i versi
Stanco m'appoggio ora al
troncon d'un pino, Ed or prostrato ove strepitan l'onde Con le speranze mie parlo e deliro, |
si riferiscano alle Cascine.
È curioso a notare che questo sonetto
non è se non un rifacimento dell'altro che leggesi nella quarta parte di questo volume a
pag. 463; e più curioso, che il sonetto nella prima lezione fa scritto probabilmente per
un'altra donna, e probabilmente a Venezia. Che fu scritto in un luogo di mare lo attestano
questi versi:
E soffia il vento, e in su le arene estreme |
Che la donna per cui fu scritto probabilmente non è la Roncioni, oltre che risulterebbe dal luogo e dal tempo in cui fu composto (se fu, come io credo, composto a Venezia), si può desumere anche dall'ultima terzina:
Chè va lungi da me
colei che sola Far potea sul mio labbro il riso eterno: Luce degli occhi miei, chi mi t'invola? |
Qui non è il poeta che si allontana dalla donna sua; è la donna che lascia il poeta. Chi fosse questa donna non è facile rintracciare; ma non si andrebbe forse lontanissimi dal vero, supponendo che fosse quella con cui il Foscolo dovè fare le prime prove dell'Jacopo Ortis a Venezia. Perchè è certo che le lettere che servirono alla Vera storia di due amanti infelici pubblicata dal Marsigli a Bologna, furono scritte per altra donna che la Isabella Roncioni.
*
* *
L'amore nel Foscolo,
come in quasi tutti i poeti, era più che altro un bisogno di compiacersi nella
contemplazione della grazia e della bellezza; era più culto e desiderio della donna, che
di una donna: egli era il poeta delle Grazie molto prima che pensasse a cantarle. "Beati gli antichi, scrive nell'Jacopo Ortis,
che sacrificavano alla Bellezza e alle Grazie".
La passione per la Roncioni, che lo
faceva gridare all'onde che batton l'alpi, non gl'impedì, durante il tempo ch'ei
dimorò nella Liguria, di ammirare e corteggiare, in mezzo ai disagi e pericoli della
milizia, le belle donne sia genovesi sia convenute a Genova da Milano e dalle altre parti
della repubblica cisalpina. Vi ritrovò la bella moglie di Vincenzo Monti, di cui s'era,
come dissi, innamorato al primo vederla in Milano nel '97: vi trovò, fra le belle
bellissima, fra le Dive liguri regina e Diva, come egli la chiama, la giovine sposa
del patrizio Domenico Pallavicini, Luisa Ferrari.
Cavalcava egli forse con essa in
compagnia d'altri amici, quando, nel ritorno dalla passeggiata, il cavallo della bella
donna impennatosi la rovesciò e trascinò lungo la riva, non essendo a lei riuscito di
liberare il piè dalla staffa. Ciò diede occasione all'ode che il Foscolo le indirizzò
nel marzo del 1800; ma invano il poeta pregò le Grazie di apprestare a lei i balsami
beati e gli odorati lini che porsero a Venere quando uno spino profano le punse il piede;
invano augurò che, come Cintia precipitata dalla rupe, facesse ritorno fra le invide
amiche più bella di prima: la povera signora rimase per quella caduta orribilmente
deformata nella faccia, che portò poi sempre coperta di un velo fittissimo.
Negli ultimi di dicembre del 1800 il
Foscolo tornò a Firenze, a finirvi il suo romanzo colla Roncioni. "Il mio dovere, le scriveva egli con la lettera 12a
dell'epistolario, il mio onore, e più di tutto il mio destino mi comandano di partire. .
. Fammi avere in qualunque tempo, in qualunque luogo, il tuo ritratto... Morendo io ti
volgerò le ultime occhiate, io ti raccomanderà il mio estremo sospiro". Ed
ella a lui: "Siate persuaso che non siete solo infelice... vi
prego di voler rispettare le circostanze... vi assicuro di una vera stima e amicizia:
questi due sentimenti più durevoli d'ogni altro saranno incancellabili nel cuore della
vostra".
Ma l'amore dei poeti, generalmente
parlando, è nella loro testa e nel loro cuore una cosa istessa con la poesia e con
l'arte. Finchè dura l'amore di queste, un poeta non muore per l'amore di una donna;
cioè, muore soltanto idealmente, per l'effetto che quella tal poesia o quel tal romanzo
debbono produrre sull'animo dei lettori. Mentre l'Jacopo Ortis ideale preparavasi a far
piangere sopra il duro suo fato le anime delle donne gentili, il vero e reale Jacopo
Ortis, partitosi di Firenze agli ultimi di febbraio, arrivava di lì a pochi giorni malinconico
e magro, ma pur sempre vivo, a Milano. Non c'era, si può dire, arrivato, che
inciampava in un'altra Teresa.
"Tutto le sere
io, tornandomi a casa, volgo gli occhi alle vostre antiche finestre rischiarate talvolta
dalla luna d'estate; talvolta sospiro, e talvolta rido, e voi birichina sapete
perchè. . . . buona notte. Io vi mando un bacio, un solo bacio; e voi permettetemi di
andarmene a letto, per questa sera, con voi; e di pascermi delle care illusioni che
consolano i sogni di un gramo convalescente". Così il vivo Jacopo Ortis
scriveva alla nuova Teresa, passati appena tre o quattro mesi dalla sua partenze da
Firenze. Guido Biagi, che descrisse con molta vivacità nel Fanfulla
della domenica questo nuovo amore del nostro poeta, lo dice cominciato ai primi
del 1802; ma la lettera di cui ho riferito un frammento, scritta nell'estate dell'anno
innanzi, mostra che doveva essere cominciato assai prima; e Il Bianchini, che ha veduto
altre lettere del poeta alla nuova Teresa, che è la contessa Antonietta Arese, ritiene
che avesse principio nei primi mesi del 1801, che raggiungesse il
colmo nel 1802, che avesse degli alti e bassi e ricevesse una profonda ferita nel 1803, e
che nei, primi del 1804 finisse del tutto.
Mi par curioso a notare, e confermante
ciò che ho detto intorno agli amori dei poeti, il fatto che, mentre l'amore del Foscolo
per la bella contessa toccava, come dice il Bianchini, il colmo, egli stava forse
correggendo le bozze dell'Jacopo Ortis che nell'ottobre del 1802 fu pubblicato a Milano.
Il primo anno de' nuovi amori il nostro
poeta lo passò tutto intero senza scriver poesie; ma nei primi mesi del 1802 l'amica
ammalò, e quando colle prime aure d'aprile tornò a lei la salute, egli scrisse l'ode All'amica risanata.
Quest'ode e l'altra per la Pallavicini
passano per due delle liriche più belle del nostro Parnaso moderno, e nel loro genere
sono: e sono anche un passo avanti nell'arte fatto dal Poeta dopo i primi sonetti. Egli
aveva cominciato, colpa degli anni e delle prime letture, arcade puro; la sua arcadia
s'era poi venuta spruzzando di qualche tinta ossianesca e montiana; aveva finalmente
accennato a qualche velleità di classicismo antico. Ma, mentre tutti i poeti degli ultimi
anni del secolo passato erano rimasti, nonostante i loro sforzi per liberarsene, attaccati
per un lembo almeno della veste all'Arcadia, tutti, non escluso il Parini, escluso l'unico
Alfieri, il nostro poeta, aiutato dal forte ingegno, s'era nelle studio dei Latini, dei
Greci e dei Cinquecentisti, grandi maestri di lingua e di stile poetico, purificato d'ogni
arcadica lebbra.
Sta in ciò il segreto del suo rapido e
quasi improvviso passaggio dalle prime infelici prove a quella che chiamai sapiente
maturità dell'arte; per ciò si spiega com'egli, pur movendo dalla scuola neoclassica
degli ultimi del secolo decimottavo, sapesse mettere nei sonetti tanta forza e schiettezza
di sentimento e d'espressione, come sapesse nelle odi assorgere ad una purezza o agilità
di forme di fantasmi e di suoni, che non pure fu sconosciuta ai Savioli, ai Paradisi, ai
Rezzonico, ai Mazza, ai Lamberti, ma alla quale lo stesso Parini non giunse che in una o
due delle sue liriche migliori.
Notò già il Carducci che il Foscolo
aveva levato l'idea dell'ode alla Pallavicini da quella del Lamberti sui cocchi: si
potrebbe aggiungere che il passaggio della strofe decimaquinta "Pèra
chi osò primiero, ecc." sa un po' di rettorico, perchè troppo abusato dai
poeti latini; si potrebbe notare che nella prima parte dell'ode All'amica
risanata abbondi l'elemento ornativo, e ci si sente qua e là un'aura e qualche
espressione pariniana; ma bisogna anche dire che le ultime sette strofe di questa ode sono
di una purezza antica, quale fino allora non s'era forse veduta nella nostra poesia.
Chi legga le lettere che il poeta
scriveva in que' giorni all'amica e le paragoni con l'ode, non potrà non restare
meravigliato del contrasto singolarissimo. In quelle le espressioni di un amore esaltato,
in questa neppure un accento di passione. Non si direbbe davvero che questa ode è la
paesia di un innamorato. Il Foscolo, che sapeva mettere nella prosa tutta la poesia della
passione (alcune sue lettere d'amore sono delle più belle che io abbia lette), in questi
versi, come nella maggior parte di quelli delle Grazie, coi quali celebra altre donne
amate da lui, è un artista calmo e sereno che, tutto assorto nella contemplazione della
bellezza della sua donna, si dimentica affatto che cotesta donna è pur quella che gli fa
battere il cuore violentemente: si direbbe che, mentre egli la canta, se la vede dinanzi
come una Venere, come una delle Grazie, bella e perfetta sì, ma di marmo.
L'ode All'amica
risanata m'ha richiamato alla mente le Grazie. E invero, chi ben guardi,
c'è in essa il germe del fatale poemetto; dico fatale perchè destinato ad assorbire
tutte le concezioni poetiche dell'autore dal 1807 in poi e a rimanere incompiuto. Nella
strofe sesta,
O quando l'arpa adorni ecc. |
c'é la prima idea della sonatrice darpa nell'inno II; nella settima,
o quando |
Balli disegni ecc. |
la danzatrice; nella stinfe ottava le trecce nitide per ambrosia
recente e laureo pettine fan ripensare le chiome di marina onda
stillanti di Venere, che una delle Grazie asterge mollemente e intreccia col pettine
radïante: nella strofe quartultima il marmoreo simulacro di Venere, che presiede agli
arcani lari della bella donna, la quale ivi appare sacerdotessa della Dea, è come un
lontano preludio all'ara delle Grazie, alla quale verranno sacerdotesse da Bologna, da
Firenze, da Milano tre amiche del poeta.
Dalla primavera del 1802 fin dopo la
metà di giugno del 1804 il Foscolo, salvo una gita a Brescia nel giugno del 1803, fu
sempre in Milano, tutto occupato del nuovo amor suo, finchè durò, e del Commento alla
Chioma di Berenice, che pubblicò nell'agosto del 1803, e dedicò a G. Battista Niccolini.
Oltre l'ode All'amica risanata, ben poco scrisse di versi: il sonetto in morte del
fratello Giovanni, gli altri tre sonetti segnati dei n.i I, IX e XI in questa
edizione, e i primi frammenti delle Grazie, pubblicati nel Commento alla Chioma di
Berenice come frammenti di un un antico Inno greco tradotti. Strana fatalità! la prima
concezione poetica del Foscolo sulle Grazie furono de' frammenti, e dopo tante
fatiche per darci su quell'argomento un Carme, che doveva essere il suo capolavoro
poetico, non lasciò che dei frammenti.
Prima di pubblicare la Chioma di
Berenice, aveva nello stesso anno 1803 raccolte in un volumetto e pubblicate a Milano nei
primi d'aprile pei tipi del Destefanis le poche ultime poesie originali, che pure dedicò
al Niccolini. Questa prima edizione delle poesie in soli 260 esemplari dovè, come è
facile immaginare, riuscire scarsa al bisogno; tanto che il Foscolo, artista in tutto e
perciò amante delle belle edizioni e sensibile al piacere di rileggere le cose sue
nitidamente e magnificamente stampate, nel mandare una copia del suo libretto al tipografo
Bodoni, gli scriveva: "Vorrei ristampare questi versi in quarto
grande nella vostra tipografia. Piacciavi di scrivermi quanto importerebbe un'edizione di
100 copie". L'edizione bodoniana, qual che si fosse la cagione, non fu poi
fatta: fu invece fatta quasi subito una seconda edizione milanese nella tipografia di
Agnello Nobile. L'edizione Destefanis comprendeva le due odi e undici sonetti, cioè gli
otto già stampati nel giornale pisano e i tre segnati, nella nostro edizione, dei numeri
I, IX, XI; nell'edizione Agnello Nobile fu aggiunto il sonetto in morte del fratello, che
il poeta doveva probabilmente aver già composto anche quando pubblicò la prima edizione,
giacchè il fratello era morto l'8 dicembre 1801. Perchè non lo stampasse subito, mentre
è uno dei più belli, non saprei dire: forse fu trattenuto dal'argomento doloroso: forse
(come è più probabile) non lo aveva condotto ancora a quella perfezione che vagheggiava.
Quasi tutte le varianti de' primi otto
sonetti pubblicati nel Giornale pisano e dell'ode per la Pallavicini appartengono alle due
prime edizioni di quei versi e tutte mostrano come il gusto del poeta si fosse, anche nel
breve spazio di tempo che corse fra esse e la terza, venuto perfezionando. Quanto al versl
ottavo del sonetto II,
La fame d'oro arte è in me fatta e vanto, |
che solamente nell'edizione Silvestri del 1813 apparve mutato nell'altro,
L'umana strage arte è in une fatti e vinto, |
il Carrer crede che la mutazione fosse consigliata al poeta dal provare egli maggior vergogna a confessarsi macchiato della prima colpa che della seconda. Io non lo credo. Oltre l'osservazione che il vestir la divisa militare non è una colpa, può credersi che mutasse perchè tornando sui sonetti sentì che la fame d'oro, per l'avidità di guadagnare al giuoco (chè altro non possono voler dire quelle parole), era, come espressione, poco esatta, e come idea, poco giusta e poco conveniente lì con l'empia licenza, con Marte e col manto sanguineo. Non sempre nel primo concepimento si veggono anche dai migliori tutte le idee piú giuste e più convenienti al soggetto; onde talvolta anche la mutazione d'un'idea può essere suggerita soltanto dalle ragioni dell'arte e del vero.
© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe Bonghi
@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 10 dicembre 1998