Giuseppe  Chiarini

Introduzione al Foscolo

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DELLE
POESIE LIRICHE E SATIRICHE
DI UGO FOSCOLO
E DI QUESTA EDIZIONE DELLE "GRAZIE"

(Seconda sezione)

PARTE PRIMA.

DALLE POESIE GIOVANILI Al CARMI E AI SERMONI.

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         Dopo la metà di giugno del 1801 il Foscolo partì per Valenciennes e restò in Francia con l'esercito fino agli ultimi dell'anno successivo. Le cure della milizia, se non lo distolsero affatto dagli studi e da nuovi amori, non gli furono, sembra, troppo propizie al poetare. In tutto quel tempo non si sa che scrivesse altri versi, se non gli sciolti al Monti, che pubblicò il Carrer nella Vita, dicendoli composti a Saint Omer. Il prof. Trevisan, che ricercò con lungo discorso la occasione prima e le origini del Carme sui Sepolcri, crede che il poeta lo pensasse e vi cominciasse a lavorare in Francia. Può darsi che fra una lettera al generale Teulié e un bigliettino galante, fra la traduzione di una pagina dello Sterne ed una nota sulle sue impressioni di viaggio, il pensiero di qualche nuova poesia balenasse di tratto in tratto alla mente del Foscolo, e ch'egli ne scrivesse anche qualche verso: può darsi, ma non ne abbiamo prove, né indizi serii. Gl'indizi raccolti e discorsi dal prof. Trevisan, circa l'avere il nostro poeta cominciato a scrivere in Francia i Sepolcri non bastano a persuadermi. Uno solo di essi poteva avere qualche valore, l'accenno il Carme nella lettera al prof. Giuseppe Barbieri del 3 gennaio 1806; ma se questa lettera è invece del 1807, come avverte in nota lo stesso Trevisan, anche cotesto indizio si dilegua. Salvo che il poeta non avesse già formato, sia pura vagamente e fugacemente, il pensiero intorno a una poesia sui sepolcri prima di lasciare l'Italia (del che non abbiamo, che io sappia, nessuna notizia), mi par poco probabile che ci pensasse per l'appunto in Francia la prima volta. Certo fin dagli ultimi del secolo passato c'era nella letteratura europea, nella inglese in particolar modo, una corrente di lugubri meditazioni sopra le tombe; e le Notti del Young, i Sepolcri del Hervey, e la famosa elegia del Gray, dovettero avere, corne fu già notato anche dal Trevisan e da altri, una qualche influenza per rivolgere i pensieri del nostro poeta verso quella parte: ma da questo all'aver egli pensato e cominciato a scrivere il Carme dei Sepolcri nel 1805 in Francia, per me almeno, ci corre.
         Intanto ecco qui: in più che sei anni, dal 1798 a tutto il 1805, tutta l'opera poetica del Foscolo si riduce a dodici sonetti, due odi e pochi versi sciolti; non molta roba invero: il che dava occasione al Giordani di dire che il Foscolo era per pochi versi stimato poeta. - E perchè no? - Se non fosse stata la poca simpatia reciproca fra i due valenti uomini il Giordani, animo ed ingegno nobile ed alto come pochi, non avrebbe pensato nè detto cotesto; tanto meno avrebbe, per compire la frase, aggiunto, e per cattivi versi buon poeta.
         Pensasse il Foscolo, e non pensasse, in Francia a scrivere poesie, pensasse, o non pensasse ai Sepolcri, questo è certo, che le sue facoltà poetiche avevano in quell'anno 1805 raggiunto il loro pieno sviluppo; che il suo ingegno era apparecchiato a dare tutto quello che poteva. Io dissi, accennando ai sonetti, che il poeta, quando li compose, aveva trovato la forma dell'arte sua. Non dissi giusto. Coi sonetti, e anche colle odi, egli aveva fatto il primo passo fermo e sicuro nella via dell'arte, non l'aveva percorsa tutta; aveva trovato la prima forma, non la forma piena ed intera dell'arte sua. Altri elementi poetici gli dormivano ancora in germe entro il cervello; e forse, anzi senza forse, i più caratteristici ed essenziali.
         I tre anni che seguirono al ritorno di Francia (1806-1808) sono il tempo della più vigorosa e splendida efflorescenza poetica dell'ingegno dei Foscolo. Peccato che di cotesta efflorescenza poco più che un sol frutto, il Carme sui Sepolcri, giungesse a piena maturità!
         Considerando l'opera poetica del Foscolo nel suo insieme, mi par di vedere che il difetto capitale dell'autore, arrivato a un certo punto della vita, che segnò per lui il più alto punto dell'arte, fu quello di concepire e lavorare a frammenti. Cotesti frammenti ei se li andava poi rimuginando nella testa, ora in un atteggiamento, ora in un altro, a comporre un tutto, che poteva riuscire più o meno artificiosamente bello, difficilmente però organico. Splendido e deplorabile documento di ciò i frammenti delle Grazie. Forse il difetto al quale accenno derivò più che altro al poeta da cattiva abitudine presa; forse dal troppo tormentare le sue prime concezioni: o forse queste non gli si presentavano alla prima così chiare e determinate, ch'ei potesse subito fermarle nella mente come un tutto organico, e secondo quello mettersi poi a lavorare. Ma il Carme dei Sepolcri dovette, credo, balzargli dalla testa tutto intero. Non dico che, prima di pubblicarlo, non ci lavorasse molto attorno, correggendo, mutando, levando, aggiungendo; ma tutto questo lavoro dovette esser di soli particolari, che niente mutavano al concetto generale ed organico del Carme, quale fu veduto dal poeta la prima volta nella sua forma piena ed intera. E per questo, e per la nervosità ed il colorito caldo e forte dell'espressione, per l'altezza dei concetti e lo splender delle immagini per la novità di alcuni passaggi, quella poesia apparve a' suoi tempi qualche cosa di nuovo, d'inaspettato, di grande; e fu e rimane l'espressione più perfetta dell'ingegno poetico del Foscolo, fu e rimane la prima voce più veramente ed altamente lirica dell'Italia moderna. Anche oggi, dopo quasi ottant'anni da che fu composto (durante i quali tante e tanto grandi mutazioni avvennero nel mondo dei fatti e delle idee), anche oggi, passati più di trent'anni dal tempo ch'io cominciai, non in tutto consciamente, ad ammirarlo, la lettura di quel Carme mi scuote e mi esalta. Sono qualche cosa meno di trecento versi, che bastano a fare e mantenere nel tempo il nome di un gran poeta.
         Io non credo col Trevisan (già lo dissi) che il Foscolo cominciasse a scrivere i Sepolcri nel 1805 in Francia; ma è provato, per quello che ne discorre il medesimo Trevisan, che li compose l'anno di poi stando in Milano, e li pubblicò nell'aprile dei 1807 in Brescia, dove forse aveva finito di correggerli ai primi dell'anno stesso.
         Dal gennaio al settembre del 1807 il poeta andò spesso a Brescia, e vi abitò a lungo una casetta sulle circostanti colline, che gli concedeva, dice il Carrer, d'inurbarsì in mezz'ora. Eragli scusa dello stare a Brescia l'attendere alla edizione delle opere del Montecuccoli; la ragion vera due bruni occhi e un'alta persona di amabile donna. Così il Carrer: e le parole di lui sono confermate da alcuni accenni abbastanza chiari dell'Epistolario. "Alla fine di carnevale, scriveva il Foscolo il 24 gennaio all'Arrivabene, ti vedrò a Brescia: vorrei pur venirci ... ma! Dio sa, e più che Dio lo sa l'anima mia, quanto bisogno io abbia di Brescia!" E da Brescia scriveva il 24 luglio a Giustina Remer Michiel: non non vedo anima nata, e parlo con una sola persona, e soltanto verso sera". Ciò per cui l'anima del Foscolo aveva bisogno di Brescia e la sola persona ch’egli vedeva soltanto verso sera, si può scommettere che non era lo stampatore Bettoni.
         Il Foscolo lo aveva scritto nei Sepolcri allora allora: Lo spirto delle vergini Muse e dell'Amore era l'unico spirto della raminga sua vita. Come l'ingegno, così il cuore non poteva in lui stare inoperoso; ed il suo cuore era così fatto, che non gli bastava nutrirsi di sole rimembranze, fossero pur dolci. Ma i nuovi amori non gli facevano dimenticare gli antichi: i bruni occhi di Marzia (Marzia Martinengo Cesaresco nata Provagli) non gli facevano dimenticare le bionde chiome d’Isabella. Stando sempre a Brescia, scriveva il 27 settembre al Niccolini : "Abbiti le benedizioni del mio cuore per le nuove che mi dai dell'Isabellina. Non leggo poeta d'amore, ch'io non applichi i versi più teneri alle rimembranze della mia gioventù: non vedo chiome bionde ed occhi azzurri nuotanti, ch’io non ricordi subito

La bella giovinetta ch'ora è donna.

Finalmente ogni pensiero che mi parla di te e di Firenze termina sempre il suo discorso col nome di Isabella. Tu intanto

Salutala in mio nome, e dalle avviso
Ch'io son dai tempi e da fortuna oppresso
".

         Nonostante che la sua abituale irosa malinconia non lo abbandonasse mai interamente, questi anni dovettero essere dei più belli della vita dei nostro poeta; se è vero, come è verissimo, che il meglio della vita per le anime grandi sta nell'amare e nel lavorare.
         Quello che abbiamo della poesia del Foscolo dell'età matura, o composto, o incominciato, o solamente nato, è quasi tutto opera di questi anni. Appartiene probabilmente al 1806, e forse è anteriore ai Sepolcri, il Sermone nella lezione che il poeta mandò all'amoco suo Giuseppe Bottelli; appartengono senza dubbio a quell'anno i frammenti dell'Alceo; appartiene a quell’anno e all'anno successivo il disegno degli altri Carmi secondo la ragione morale o poetica dei Sepolcri. Il disegno, quale il poeta mandavalo al Monti con lettera del 12 dicembre 1808, era questo: "Alceo, o la storia della letteratura in Italia dalla rovina dell'impero d’oriente ai dì nostri. Alle Grazie, ove saranno idoleggiate tutte le idee metafisiche sul bello. A Eponia Dea, sulle razze, il pregio, l'uso in guerra dei cavalli. All'Oceano, sulle conquiste marittime e sul commercio. Alla Dea Sventura, sull'utilità dell’avversa fortuna e sulla celeste virtù della compassione, unica virtù disinteressata ne' petti mortali. Nell'ultimo Inno, unico che sarà in metro rimato, e a Strofi, intistrofi, epodi, alla greca, intitolato a Pindaro, si tratterà della divinità della poesia lirica, e delle virtù e dei vizi dei poeti che la maneggiarono. Per tutti questi argomenti ho raccolto materia nei miei scartafacci, ove nè un astrologo ci leggerebbe, e molti squarci ne ho verseggiati; tua tu sai che io sono verseggiatore incontentabile, pensatore tardissinio, e mi accosto alla poesia con la febbre e il ribrezzo con che la Sibilla cumana accostavasi all'antro del Nume".
         Sul disegno dei Carmi trovo quest'altro cenno in una lettera senza indirizzo, alla quale gli editori dell’Epistolario attribuirono la data del febbraio 1809. "Quanto all’Omero e ai carmi, io dormo in vista, sed cor meum vigilat. E non distolgo m ai la mente dai Carmi: non ch'io n'attenda onore, nè ch'io creda che la fama giovi a far men vana e più prudente l'umana vita; ma da que' Carmi (genere di poesia ch'io, tortamente forse, credo nata da me) mi pare che ne' miei scritti sgorghi pienamente ed originalmente, senza soccorso straniero, quel liquido etere che vive in ogni nome, e di cui la natura ed il cielo hanno dispensata la mia porzione a me pure Però li vagheggio sempre con tutti i pensieri; nè passerà quest'anno senza ch'io n'abbia composto uno almeno".
         Si vede dalle ultime parole di questa lettera che fino ai primi del 1809 il Foscolo non aveva ancora composto nessun altro dei Carmi di lui immaginati; ma che li aveva immaginati fino dal 1807, e aveva raccolto materia per essi, e ne avea verseggiato qualche frammento, apparisce, oltre che da quello che ne aveva scritto al Monti, da altri accenni nell'Epistolario. A proposito del Carme sui cavalli scriveva fino dal 26 luglio 1806 al Pindemonte: "qui trovai la vostra lettera, di cui vi ringrazio caldarmente perchè vi piace di pensare ai miei cavalli . . . . . Tanta è la materia poetica antica e moderna di questo argomento, che sarà più difficile di spenderla che di procacciarsela. Ora io comincio a pensarci davvero, ma mi bisognerebbero quattro anni almeno di sacro ozio; perché ci vuole molto e molto studio per la scienza fisica del cavallo, e molte osservazioni sulle loro forme; e non è cosa da pigliare a gabbo". Secondo questo primo disegno, il Foscolo voleva probabilmente scrivere sui cavalli piuttosto un poemetto, che un carme come i Sepolcri: altrimenti non avrebbe detto bisognargli quattro anni di sacro ozio a comporlo: e forse, anzi senza forse, il concetto dei Carmi, secondo il disegno mandato al Monti, e la denominazione stessa di Carmi, non gli venne che dopo aver composto i Sepolcri. Da principio egli meditava poemetti, sermoni. satire, epistole, ed epistola chiamava nel settembre 1806 il Carme dei Sepolcri, annunziandolo già composto all’Albrizzi. Anche questa è per me una prova che il Carme gli balzò tutto intero dalla testa con quella specie d'inconsapevolezza che vi ha sempre nell'atto primo della creazione poetica. La denominazione di epistola gli venne naturalmente suggerita dall'essere i suoi versi indirizzati al Pindemonte; ma quando li ebbe composti, e se li rilesse, e li ripensò, dovette accorgersi che a quel canto così novamente ed altamente lirico quell'umile titolo non si conveniva.
         Il 19 novembre 1806 il Foscolo, scrivendo a Mario Pieri gli parla de' Carmi, che chiama Inni, glie ne parla come a se li avesse già composti e pronti alla stampa: "stampando gl'Inni miei, ho in animo di dedicargli (al Cesarotti) l'Alceo; ma differisco l'edizione, per potergliene prima leggere". E dell'Alceo aveva scritto all'Albrizzi in modo, che non solo conferma, ma provi anche più chiaramente, ch'egli lo aveva cominciato, come dissi, nel 1806. Se potessi, le dice, spogliarmi la divisa, che so di aver abbellita e col mio sangue e co' miei studi, "verrei a nutrire il mio cuore ed il mio ingegno con voi, e finirei il mio povero Alceo, che mi rimprovera dì e notte". Si capisce però che l'essere in questo tempo i Carmi il suo primo, e quasi fisso pensiero, gli faceva forse credere d'averne composto più che di fitto non aveva. Dall'attendere assiduamente ad essi e al padre Omero (la traduzione dell'Iliade, di cui aveva pubblicato il primo esperimento in compagnia del Monti a Brescia nei primi del 1807) lo distraevano altre cure, fra le quali principalissima l'edizione delle opere del Montecuccoli. Di che dolendosi col Bottelli in una lettera del 27 novembre, scrive: "Ma una volta uscito di questa catena ti prometto che mi saranno dulces ante omnia Musae; e ripiglierò i Carmi e il padre Omero".
         Quanto fu gran fortuna che il Foscolo compisse e pubblicasse subito i Sepolcri (se no, chi sa!), altrettanto fu gran disgrazia che altre cure (all'edizione del Montecuccoli si aggiunsero nel 1809 nuove avventure amorose e le lezioni all'Università di Pavia) gl'impedissero di finire e stampare gli altri carmi da lui immaginati. E forse a ciò contribuì anche l'aver egli posto il pensiero a più d'uno nel tempo stesso; perchè appunto dopo la pubblicazione dei Sepolcri cominciò quel suo modo di lavorare a frammenti, il quale fu principal cagione, secondo me, ch'egli non compisse nessuno dei Carmi ideati.
         Alle parole da me citate della lettera al Pieri, ove si parla dell'Alceo, gli editori dell'epistolario annotano: "Di questo Carme si conosce soltanto un frammento edito dal Carrer; ma sembra, anco per altri riscontri, che il Foscolo l'avesse composto tutto". Quali siano questi riscontri io non so, salvo ch'essi non alludano all'attestazione del Panizzi, che il Foscolo aveva terminato l'Alceo assai prima dell'esilio.
         Da alcuni frammenti di lettere del prof. Luigi Cagnoli al Resnati, comunicatimi dal Bianchini, apparisce che il Leoni di Parma asseriva nel 1842 di possedere l'autografo dell'Alceo, composto, diceva lui, dal Foscolo a Milano quando scrivevano insieme il Giornale di scienze e lettere, e che aveva promesso questo autografo al Cagnoli; ma che poi, messo alle strette di consegnarlo, s'era sempre schermito ora con una scusa, ora con un'altra.VA chi ha un po' studiato la vita e gli scritti del Foscolo, il racconto del Leoni ha tutta l'aria di una favola, ed è dimostrato tale dalla falsità del modo e delle circostanze con le quali, secondo il racconto stesso, sarebbe stato composto l'Alceo. Io credo che di questo Carme il poeta non scrivesse altro che il principio (i sessantadue versi pubblicati la prima volta scorrettamente dal Carrer, e ripubblicati da me col titolo di Inno alla Nave delle Muse, che hanno nell'autografo della Nazionale di Firenze), e qualche frammento che fu poi incorporato nelle Grazie. Uno dei frammenti incorporati nelle Grazie sono questi versi su Zacinto, che ora trovansi nel primo Inno, con due leggiere varianti.

Sacra città è Zacinto; eran suoi tempj,
Era ne' colli suoi l'ombra dei boschi
Sacri al tripudio di Diana e al coro;
Né ancor Nettuno al reo Laomodonte
Muniva Ilio di torri inclite in guerra.
Bella è Zacinto, a lei l'ïonie navi
Versan tesori, a lei dall'alto manda
I più vitali rai l'eterno sole;
Limpide nubi a lei Giove concede,
E selve ampie d'ulivi, e liberali
I colli di Lieo; rosea salute
Spirano l'aure dal felice arancio
Tutto impregnate, e dai fiorenti cedri.

Che questi versi in origine appartenevano all'Alceo ci è attestato dal Foscolo stesso. Mandando egli all'amico suo Zambelli un esemplare della prima edizione dei Sepolcri, ci appiccicava con un'ostia l'autografo dei detti versi, preceduti da questo parole: "A te, Zambelli mio; versi estratti da un Carme lirico intitolato Alceo". In margine è un'annotazione, pure autografa, che nella sostanza corrisponde alla seconda parte della nota quarta all'Inno primo delle Grazie.
         Potrebbe, in origine avere appartenuto all'Alceo anche qualche gruppo di versi della parte dell'Inno II dello Grazie ove accennasi alla venuta delle Muse in Italia dopo la caduta dell'impero d'Oriente; questo, per esempio

Però che quando sulla Grecia inerte
Marte sfrenò le tartare cavalle
Depredatrici, e coronò la schiatta
Barbara d'Ottomano, allor l'Italia
Fu giardino alle Muse, e qui lo stuolo
Fabro dell'aureo mel pose a sua prole
Il felice alvear. Nè le febee
Api (sebben le altre api abbia crudeli)
Fuggono i lai della invisibil Ninfa,
Che ognor delusi d'amorosa speme,
Pur geme per le quete aure diffusa,
E il suo altero nemico ama e richiama;
Tanta dolcezza infusero le Grazie
Per pietà della Ninfa alle sue voci,
Che le lor api, immemori dell'opra,
Ozïose in Italia odono l'eco
Che al par de' carmi fe' dolce la rima

È questo uno de' tanti frammenti staccati che il poeta fece e rifece più volte. Ciò che mi fa parer probabile che esso nella prima redazione, la quale forse fu distrutta dall'autore, o andò dispersa, appartenesse all'Alceo, sono questi due fatti:
che in quel frammento c'è il concetto principale, quasi direi fondamentale, dell'Alceo, come fu da prima immaginato;
che il disegno d'introdurre la storia della letteratura in Italia dopo la caduta dell'impero d'Oriente (ch'è quanto dire, tutta la sostanza dell'Alceo) nel Carme delle Grazie, apparisce soltanto nel sommario ultimo il quale appartiene, come, vedremo, all'ultimo tempo della dimora del poeta in Italia; e probabilmente il frammento di cui parlo fu nella sua prima redazione scritto molto avanti: probabilmente fu scritto fin dai primi tempi che il poeta pensò e cominciò a lavorare all'Alceo.
         Tutto ciò io lo dico dubitativamente; perchè tirare a indovinare quali de' frammenti delle Grazie appartenessero in origine a questo o a quello dei Carmi mi par presso a poco come tirare a indovinare i numeri del Lotto. Chi avrebbe, per esempio, immaginato che in origine appartenessero all'Alceo i versi su Zacinto? chi lo crederebbe oggi, se non ce lo attestasse l'autografo del poeta?
         I versi su Zacinto appartenenti all'Alceo, dovettero, io credo, essere introdotti nelle Grazie in uno dei primi rifacimenti. Che piú tardi il poeta disegnasse d'introdurre nelle Grazie tutta la sostanza che doveva comporre l'Alceo è dimostrato dal sommario terzo e dai frammenti della parte seconda dell'Inno II di esse Grazie, i quali corrispondono al disegno dell'Alceo, com'è enunciato dal poeta nella lettera al Monti. Un altro fatto vuol essere notato. Quando il poeta cominciò a lavorare alle Grazie, non parlò più degli altri Carmi.
         Questi fatti sono un primo documento del modo come il poeta venne componendo il fatale poemetto quando ne allargò il primo disegno. Il lettore, a cui tali studi non paiano inutili, può vedere nei Frammenti di una prima redazione delle Grazie in un solo inno come il saluto a Zacinto fosse in quella di soli cinque versi, ai quali fu poi nei rifacimenti successivi aggiunto il pezzo scritto in origine per l'Alceo.
         Vedi contradizioni umane, alle quali non isfuggono neppure gl'ingegni più grandi! Il Foscolo, che chiamava mosaici le odi di Orazio, che scriveva al Giovio: "io aborro dalle intarsiature, ed amo piú i rozzi cammei, che gli eleganti mosaici", il Foscolo è fra i poeti italiani moderni quegli che forse più di tutti ha lavorato di mosaico e d'intarsiatura; e forse incominciava a lavorare così appunto intorno al tempo che scriveva al Giovio quelle parole. È vero cge il Foscolo per mosaico e intarsiatura intendeva lo incastrare in un'opera propria frammenti di cose altrui; ma io vorrei con tutto il rispetto dire ch'egli s'ingannava. Il mosaico e l'intarsiatura stanno soprattutto nel modo di comporre l'opera intera; e poco importa che i frammenti onde quella vien composta sieno tutti fattura dello intarsiatore. Mentre, per contrario, niente toglie all'interezza di un'opera organicamente pensata e composta l'esserci dentro ben fuso qualche piccolo frammento d'opera altrui. Onde quanto è giusto, secondo me, chiamare mosaico le Grazie del Foscolo, composto nel modo che abbiamo accennato, altrettanto sarebbe ingiusto dare quel nome a un'ode di Orazio per ciò solo che vi si ritrovano dentro imitati alcuni versi d'Alceo o d'un altro antico poeta greco; come sarebbe ingiusto darlo ai Sonetti alle Odi ed ai Sepolcri del nostro poeta, perchè ci si trovano immagini, espressioni e versi interi presi da Omero, da Virgilio, da Lucrezio, da Catullo, da Properzio, da Galeazzo di Tarsia, dal Monti e da altri.
         Se era letteralmente vero ciò che il Foscolo scriveva al Monti, che cioè per tutti gli argomenti de' Carmi aveva raccolto materia ne' suoi scartafacci, e molti squarci ne avea verseggiati, bisognerebbe supporre che qualche parte di cotesti scartafacci fosse poi stata distrutta dal Foscolo stesso, o fosso andata dispersa; perchè a nessuno degli editori delle poesie foscoliane venne fatto di trovar niente della materia preparata pel carme Alla Dea Eponia, quasi niente di quello pel carme All'Oceano, e assolutamente niente degli squarci che ne avrebbe verseggiati. Io ho guardato attentamente nei mss. delle Grazie, nelle quali è oramai opinione quasi generale e molto ragionevole che l'autore poi fondesse, se non tutto, una gran parte di quello che avea pensato e fatto degli altri Carmi; e non mi è riuscito trovarci nè un frammento, nè un gruppo di versi, del quale mi paresse potere affermare con qualche probabilità, che in origine appartennero al Carme sui Cavalli od a quello sull'Oceano. Ma come abbiam visto essere stati fatti da prima per l'Alceo i versi su Zacinto che ora sono nelle Grazie, così potrebbe essere che qualche frammento che ora trovasi nei manoscritti di queste dovesse in origine appartenere ai Cavalli o all'Oceano, benchè non paia avere con essi nessuna relazione. Cosicchè quanto a cotesti due Carmi dobbiamo per ora starci contenti alla semplice notizia datacene dall'autore: il mettersi ad altre ricerche sarebbe mero esercizio di fantasia.
         Ma del Carme alla Dea Sventura abbiamo ragione di discorrerne un po' più. Intorno ad esso il Carrer scriveva: "Dei pensieri destinati a cantare la Dea Sventura credo vi sieno vestigi nelle lezioni di eloquenza, singolarmente nella terza, là ove descrivesi il delirio di Augusto alla novella delle legioni trucidategli dai Germani, e nell'ultima sua vecchiezza la solitudine disperata della sua casa. Né credo ingannarmi rileggendo quella lezione, se affermo che il primo impulso a cantare l'austera Dea gli venisse dall'ode di Tommaso Gray, bellissima, e a cui pure, senza nominare l'autore, si accenna in essa lezione" .
         Parallela a quella corrente di lugubri meditazioni su le tombe, alla quale accennai parlando dei Sepolcri, c'era nella letteratura degli ultimi del secolo passato e dei primi di questo una più larga corrente di malinconia e di sentimentalismo, di cui la prima non era, si può dire, che una derivazione. Questa malinconia e questo sentimentalismo, che hanno la loro radice in quel senso di dolore universale, che i tedeschi chiamano Weltschmerz, operavano e si manifestavano sotto varie forme, secondo la tempra degli animi e degli ingegni ne' quali avevano signoria. I deboli parevano accasciarsi sotto il peso della loro tristezza; i gagliardi la portavano con disinvoltura e non senza qualche ostentazione di stoicismo.
         Non può negarsi che il Foscolo avesse cagioni di scontento nelle condizioni politiche del tempo suo e in quelle particolari della sua vita; ed è pur vero che la prima cagione della propria tristezza ciascuno la porta dentro di sè. Tuttavia in quell'atteggiamento d'uomo sventurato e malinconico che il poeta prende nel suo romanzo e nelle lettere, specialmente nelle amorose, ci si sente la malattia del tempo. Ma come egli era uomo di tempra gagliarda, guardava animosamente in faccia la sua sventura (la quale era, come quella di quasi tutti gli altri uomini, composta di due sorta di mali, reali e immaginarii), e meditando e conversando con essa, finiva coll'accarezzarli e compiacersene, come di cosa utile e buona. I suoi lamenti sono sempre i lamenti di un animo forte. Fin da giovane, costretto a chiedere in prestito agli amici qualche scudo per vivere, egli professava la massima, che le sventure raffinano le virtù delle anime generose.
         Queste parole sono in una lettera allo Strocchi del 1798. Il concetto ch'esse esprimono non è un'invenzione del Foscolo, anzi è molto comune e molto antico, ma mostra come il nostro poeta incominciasse pel tempo il meditare su la sventura; e c'è in esso il germe dei noti versi delle Grazie,

O nati al pianto

E alla fatica, se virtù vi è guida,
Dalla fonte del duol sorge il conforto,

         Che il primo impulso a contare la Dea Sventura venisse al nostro poeta dall'ode del Gray è possibilissimo: ed è natutale che, avendo meditato molto su cotesto argomento al tempo dei Carmi gli accadesse di toccarne anche nelle lezioni d'eloquenza che fece poco dopo a Pavia. Ma non è vero quello che parrebbe potersi argomentare dalle parole del Carrer, che cioé il Foscolo non scrivesse mai niente del Carme, e che si contentasse di mettere nella terza lezione di eloquenza qualcuno dei pensieri onde quello doveva esser composto. Ch'egli fece qualche cosa di più, che anzi ne compose dei frammenti è attestato da Silvio Pellico.
         Ringraziando con la lettera dell'8 febbraio 1849 l'Orlandini, che gli aveva mandato il Carme delle Grazie allora pubblicato, il Pellico scrive: "Qui (nelle Grazie) splende quel bello che non muore. Sarebbe egualmente avvenuto del Carme della Sventura: Ugo ne aveva lunghi frammenti Non ho serbato memoria dei versi, ma del patetico nobilissimo che vi regnava. Duolmi che sieno cose perdute". Per quanto fosser passati molti anni, non è possibile che in un fatto così precisamente e recisamente affermato la memoria del Pellico si ingannasse.
         Il Martinetti crede, non già che i frammenti andassero perduti, ma che fossero dal poeta rifusi nelle Grazie; e crede che proprio appartenessero al Carme della Sventura i versi delle Grazie dal 71 al 107 dell'Inno II nel testo dell'Orlandini, corrispondenti ai vv. 65-92 e alle relative varianti del nostro testo. Qualcuno potrebbe domandare: Come mai il Pellico, che si rammentava il patetico nobilissimo di quei versi, quando lesse il Carme delle Grazie, non ve li riconobbe per entro? E poteva, se veramente c'erano, non riconoscerli? Io non posso nascondermi che questa è un'obbiezione abbastanza forte: ciò nonostante penso che nell'opinione del Martinetti qualche cosa di vero ci sia. Se non tutti, alcuni dei versi accennati da lui mi par molto probabile che appartenessero in origine al Carme Alla Dea Sventura. Nei due versi e mezzo da me citati è racchiuso il concetto principale di quel Carme; ed hanno stretta relazione con esso anche questi altri:

Rimembran come il ciel l'uomo concesse
Al diletto e agli affanni, onde gli sia
Librato e vario di sua vita il volo,
E come alla virtù guidi il dolore.

Aggiungasi che in alcune varianti del pezzo accennato dal Martinetti (varianti che probabilmente appartengono alle prime redazioni delle Grazie) i versi da me riferiti non ci sono; il che vuol dire che furono introdotti nelle Grazie piú tardi.
         I frammenti sentiti dal Pellico erano lunghi come egli dice: ma forse il Foscolo, fondendoli nelle Grazie, li spezzettò e ne sparpagliò i pezzi qua e là, come aveva preso l'abito di fare; e perciò il Pellico ritrovando quei versi dopo tanti anni sparsamente nel Carme (forse in parte mutati), e non riprovando l'impressione che in lui aveva prodotto l'insieme, potè benissimo non riconoscerli.
         Nel 1808 il poeta ebbe in animo di ristampare i Sepolcri e L'esperimento di traduzione dell'Iliade, aggiungendovi le altre poesie pubblicate nel 1803, a quasi suggellare, dice il Carrer, con un'edizione compiuta i suoi passi nel lirico arringo. La nuova edizione doveva, come le altre due del Destefanis e d'Agnello Nobile, essere intitolata al Niccolini con questa dedicatoria, che, non essendosi poi fatta l'edizione, rimase inedita, finchè la pubblicò il Carrer nella Vita del Foscolo: "Tu accoglievi ai tempi passati la prima edizione di questi versi con quell'animo stesso con cui l'amico tuo te li offeriva; ed oggi, spero, ti verranno più cari perchè portano con sè molti anni di rimembranze. Rileggili dunque non giudicando l'autore, ma ripensando all'amico ch'io stimo i versi ormai troppi in Italia, e gl'Italiani hanno da far sapere al mondo tante loro ragioni ch'ei farebbero più senno, se, scrivendo in prosa schietta di vezzi, provvedessero meglio all'utilità delle lettere ed alla patria. Se non che, nella severità dei tempi, giova più forse agl'ingegni di cantare il falso che di parlare il vero, e si trae frutti piú certi dal plauso di chi ascolta che dalla gratitudine di chi impara. Noi intanto attenderemo alla santità della fama anzichè al suo clamore e a' suoi frutti; e se la posterità avrà alcuna cura di noi, come tu ed io n'abbiamo somma di lei, saremo ricompensati quando anche la nostra voce non potesse uscire che dal sepolcro. Or viviti lieto e memore di me ".

*

*    *

         Dicendo che nel nostro poeta, come la mente, così il cuore non poteva stare un momento inoperoso, non dissi abbastanza. Come nella niente i pensieri, i fantasmi poetici e i disegni di opere, si affollavano, s'intrecciavano, si inseguivano, così nel cuore gli amori.
         La bellezza e la grazia femminile hanno aspetti infiniti; e molti di essi, anzi tutti, facevano viva impressione nell'animo del poeta. Per non ammirare tutte le belle donne che ebbe occasione di avvicinare in Lombardia negli anni dal 1806 al 1812, per non amarne più d'una, il Foscolo avrebbe dovuto, invece che vivere a Milano ritirarsi in un eremo.
         Tornato a Milano nell'ottobre del 1807 dalla lieta dimora di Brescia, il poeta non dimenticò la bella Marzia. Il 23 settembre 1808 scriveva all'Arrivabene: "Ugo Foscolo . . . prègati di bere un raggio dagli occhi di Marzia, e di baciare i suoi figliuoletti.

Marzia che piacque tanto agli occhi miei
Mentre ch'io fui di là".

Ma a questo tempo avevano già incominciato a scaldargli la testa e turbargli il cuore altre immagini di donna., Quando il 10 di luglio scriveva al Pindemonte: "poesie e versi medito sempre, perchè io amo", questa parola amo probabilmente non si riferiva più alla Martinengo, o almeno non si riferiva a lei sola.
         Sono notissimi gli amori del Foscolo per la Giovio e per la Bignami. Della Giovio pare che s'innamorasse nell'agosto del 1808, mentr'egli andava, conte scrive al Mazzi, peregrinando sul lago di Como. C'era andato, scrive, "per vivere solo con sè e per sè; e tentando

Nunc veterum libris, nunc somno ei inertibus horis
Ducere sollecitae jucunda oblivia vitae".

Ma nella sua peregrinazione gli apparve la vergine innamorata che volgea gli occhi verecondi e il desiderio alla luna; e quella gentile immagine fece vibrare dolcemente tutte le fibre del suo cuore, e gli s'impresse forte nell'animo; non tanto forte però, che potesse cancellarvi la immagine, impressavi già da ori pezzo, di colei che lieta guidava sul molle clivo di Brianza

i balli e le fanciulle

Di nera treccia insigni e di sen colmo.

L'amore per la Giovio non fu nel Foscolo che una specie di intermezzo della passione per la Bignami
         Non sarebbe forse difficile determinare esattamente quando questa incominciasse; ma poi che ciò non importa molto allo scopo del mio discorso, mi contenterò di accennare ciò che mi par più probabile, astenendomi da una minuta e porticolareggiata ricerca.
         Il Foscolo non si potè, credo, innamorare della Bignami se non dopo il ritorno di Francia nel marzo 1806. Egli dovè incontrarla più volte alle feste e conversazioni alle quali usava; ve la incontrò splendente di quella grazia e bellezza per le quali fu proclamata dall'Imperatore Napoleone alla festa di ballo della Canobbiana il 17 dicembre del 1807 la plus belle parmi tant de belles: e vederla, ammirarla ed amarla dovè per lui essere alla cosa sola. (La Bignami, figlia di Rocco e Amalia Marliani, tanto cari al Monti, si chiamava Maddalena e andò sposa a Paolo Bignami nel 1805. Nota dell’A.)
         Poi l'autore famoso dell'Ortis divenne presto, se già non era, familiare in casa del ricco binchiere, suocero della signora, e quivi ebbe agio di vederla, apprezzarla, ammirarla ed innamorarsene sempre più. Il 28 novembre 1808, l'antivigilia del giorno che il Foscolo partì per Pavia ad occuparvi la sua cattedra, egli pranzò in casa Bignami.
         Arrivato a Pavia, e messa in ordine la casa, che abitò coll'amico suo Giulio Montevecchio, la prolusione e le lezioni occuparono tutto il suo tempo; ma l'animo era occupato anche dal pensiero della soppressione della cattedra avvenuta allora allora; era occupato dal furor della gloria; era occupato dal l'amore. Il poeta aveva lasciato una porzione del suo cuore, la più grande, a Milano in casa Bignami, e l'altra sul lago di Como in casa Giovio.
         Il 22 gennaio del 1809 lesse l'orazione inaugurale, il 2 e il 5 febbraio fece le due prime lezioni; e poi scappò subito a Milano, per istamparvi l'orazione. Appena arrivato, scriveva all'amico suo Montevecchio: - "A Milano non mi trovo più bene: dicono che l'amore è passione di gioventù o che l'ambizione ci coglie dopo i trent'anni; maa i trent'anni sono già fuggiti per me, e non mi lasciano che un tesoro di rimembranze; ma le rimembranze non bastano. Eppure il mio cuore, - che mi parla sempre e domanda e si affligge, - non cura lo lodi e gli onori, che pur sono acquistati lealmente. Io mi sto freddo e muto alle congratulazioni o agli applausi che mi sembrano schietti; e solo sento un fatale bisogno dentro di me d'essere riamato; e questa passione di gioventù non è stata mai sì possente dentro di me, nè mi nutrì l'animo di tanta mestizia quanto in questi ultimi giorni [...] Io era in casa Bignami: il carnevale e la convalescenza della gentil persona fanno più frequente di prima quella conversazione; ed io taciturno, noiato, quasi, vile col cuore tutto pieno e senza poterlo sfogare con una sola parola che mi uscisse veramente dal cuore, sono tornato a casa; e ti scrivo [...] sarei già partito (da Milano); con le viscere lacerate forse, ma sarei certamente partito, se il dovere di pubblicare la prolusione non mi vincolasse in questa città ".
         È possibile che questo dovere fosso una scusa, che, quasi senza avvedersene, il Foscolo trovava a sè per restare i Milano? Il fatto è ch'egli non tornò a Pavia fin dopo la metà di aprile. Il 4 marzo fece una visita alla famiglia Giovio a Como e il 10 scriveva al Montevecchio: "io pensava alla tenera giovinetta quando scrissi e recitai, che alla luna si volgono gli occhi verecondi della vergine innamorata. E si volgeranno forse quando nell'estate la luna illuminerà co' suoi raggi le onde limpidissime del lago; e gli occhi suoi lacrimosi mi cercheranno, mi cercheranno dov'io promisi, dov'ella sperava di rivedermi per lungo tempo. Ed io la cercherò. Ai primi d'aprile il Foscolo tornò a Como e in casa Giovio, e trovò (scrive al Montevecchio) la Cecchina più riservata, il padre più amoroso, la madre più contegnosa: "e davvero, soggiunge, ch'io mi vidi, non so come, assai perplesso: [...] Parlai nondimeno sì chiaramente, e mi contenni in maniera da levare ogni sospetto ai parenti, e ogni lusinga alla giovinetta - o a me stesso". Ma nelle cosa d'amore l'uomo propone, e Dio, il giovinetto Dio cieco ed alato, dispone.
         È singolare questo accoppiarsi. o quasi direi intrecciarsi, nell'animo del Foscolo di due amori ad un tempo stesso. Del contrasto che pur dovea derivarne non c'è il più leggero riflesso ne' pochi versi delle Grazie ch'essi ispirarono. La ragione intima della loro simultaneità, fatta astrazione dalle circostanze accidentali che li produssero, sta, io creda, in ciò, che il poeta, assetato d'autore, si vedevo egualmente conteso il possesso delle due donne da lui amate. I suoi principii, le sue abitudini, le condizioni della sua vita gli facevano riguardare il matrimonio come una cosa impossibile a sè (e ciò fu probabilmente una fortuna per la donna che avrebbe potuto esser sua moglie). Ma anche senza di ciò, egli avrebbe visto la impossibilità di una unione con la tenera giovinetta appartenente ad una famiglia ricca, patrizia, divota. L'altra donna era moglie, moglie d'un uomo a cui lo legavano sentimenti di rispetto, d'amicizia, di stima.
         Tornato a mezzo aprile a Pavia, il nostro poeta ebbe il 21 di maggio una visita della Bignami. Il Montevecchio non c'era; ed ei glie ne scrive una lettera, che val bene una poesia, ch'è una delle tante lettere nelle quali metteva, come dissi, quella poesia della passione che, dopo i primi sonetti, raramente gli accadde di trasfondere nei versi. "Giulio mio, la Lenina è stata qui dalla mattina di domenica fino al dopo pranzo di lunedì. Sono due giorni ch'io non vivo se non aggirandomi qua e là, parlando col mio desiderio e con le memorie che quella bella persona lasciò in ogni luogo di queste stanze. Oh come mi compiaccio della mia buona memoria! ed è pure in queste amarezze d'un qualche conforto: quasi tutti i poeti che ho letto mi mandano un verso, e mille pensieri che stanno nel mio cuore, ma che nello loro poesie sono espressi con maggiore dolcezza. Non sono tre giorni ch'io ti recitava sovente quel sonetto del Petrarca, e la combinazione ha fatto piene di armonia e di soavità tutte quelle parole - ma d'un'armonia e d'una soavità ch'io posso sentire e gustare, ma che non saprei nè spiegartela, nè fartela immaginare. È vero.

Qui cantò dolcemente, e qui s'assise,
Qui si rivolse, e qui ritenne il passo,
Qui co' begli occhi mi trafisse il core;
Qui disse una parola, e qui sorrise,
Qui cangiò il viso: in questi pensier, lasso!
Notte e dì tienmi il signor nostro, Amore.

E se tu fossi con me, ti mostrerei ogni luogo, ogni sedia, ogni stanza, che mi pare ancor bella".
         La dimora del Foscolo a Pavia anche questa volta fu breve: a' 6 di giugno recitò l'ultima lezione, e tornò subito a Milano, per finirvi il Montecuccoli e andare poi a passare una parte dell'estate e dell'autunno sul lago di Como col suo Mentevecchio. Agli ultimi di giugno andò a Como per fissar l'appartamento; vi si trattenne ventiquattr'ore, e rivide la tenera giovinetta; la rivide, e si dimenticarono, pare, lei e lui dei chiari discorsi ch'egli aveva fatto tre mesi innanzi per togliere ogni lusinga alla giovinetta ed a sè stesso: o forse quei discorsi non erano stati abbastanza chiari, com'era sembrato al poeta; o piuttosto il piccioletto Dio cieco ed alato, che poco si sgomenta de' savi propositi umani volle che, in onta a quei chiari discorsi, il poeta e la tenera giovinetta, seguitassero la incominciata trama del loro idillio amoroso.
         Il Foscolo tornò a Milano col cuore e la testa in grande agitazione; e al solito si sfogò col suo Montevecchio: "Io non sono più padrone, nè memore di me: temo di trovarmi solo: le idee mi vacillano nel cervello: il cuore mi batte sempre a palpiti immensi: la penna mi trema nella mano: [...] raccorrò tutto le forze dell'animo. Ci vedremo; saprai tutto - vi è una vittima e un sagrifizio: saprai tutto, s'io avrò tanto vigore di dirti ciò che vorrei tacere a me stesso". Spedita questa lettera il primo di luglio, e il 7 non vedendo risposta, riscrisse all'arnico: "bada di riavere la mia lettera ch'io sino da sabato 1° di questo mese ti ho spedita: non vorrei che fosse veduta da occhio vivente; v'è un'espressione che mi fa tremare pel segreto del mio cuore pazzo. Gli uomini ne riderebbero, ma una persona. una disgraziata persona, se lo risapesse, avrebbe, e ingiustamente certo, ma avrebbe mille ragioni apparenti di odiarmi". Mentre mandava queste lettere di fuoco al Montevecchio, non si dimenticava, scrivendo all’Arrivabene, di inviare saluti e parole affettuose alla Marzia.
         Il 30 di luglio il Foscolo modò nella casetta sul lago di Como ad aspettarvi l’amico Montevecchio; e vi si trattenne fino alla metà di ottobre. Andò con l'idea di scrivere una tragedia su gli amori di Bibli e Cauno, della quale poi non fece altro. Il 19 prese un'eroica risoluzione, e scrisse la famosa lettera alla Giovio, con la quale, in conclusione, le dice ch'egli l'aveva amata e l'amava, ma che, essendo impossibile nè ora nè mai la loro unione, bisognava troncare ogni affettuosa corrispondenza. E la savia giovinetta fece come aveva fatto la Roncioni, si rassegnò e sposò un altro.
         Dopo i Sepolcri, e il pochissimo che aveva composto e il molto che aveva meditato degli altri Carmi il Foscolo fino a questo tempo non scrisse altri versi. Il Pecchio e il Carrer credono che durante la dimora sul lago di Corno cominciasse e conducesse molto innanzi le Grazie. Io non lo credo; e ne dirò fra poco la ragioni.
         Prima di tornare a Milano, scrisse il 12 d'ottobre a Teresa Bignami, la suocera della giovine sposa, le ragioni per le quali, tornando, egli doveva esiliarsi dalla casa di lei. Se poi adempisse strettamente il dovere che s'era imposto, non so; ma è lecito dubitarne.

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*      *

         Ne' quasi tre anni che si trattenne a Milano, dopo il ritorno da Como, il Foscolo lavorò interrottamente, ma lavorò molto. Egli aveva ben ragione di scrivere il 13 novembre 1809, che tra l'amore, le sue pazzie e l'altrui, la sua famiglia e il governo, aveva, in quell'anno, passato l'anno più tempestoso della sua vita; ma i tre successivi non gli furono molto più quieti. Lavorò, come dissi, molto; e il lavoro è la miglior medicina, il più dolce nepènte ai mali e fastidi umani; forse per ciò nelle sue lettere di questo periodo sono men radi i lamenti. Scrisse la lettera sulla Orazione inaugurale, l'articolo sui traduttori d'Omero, l'Ipercalissi, gli Atti dell'Accademia dei Pitagorici, i Commentari sul Machiavelli, l'articolo sui Druidi e sui Bardi; meditò un nuovo romanzo fratello dell’Ortis, ma con altre tinte, con la tavolozza di Swift, di Sterne, di Cervantes, di Platone, e compose l'Aiace, cominciato a verseggiare il 2 febbraio 1911, terminato il 5 d'ottobre, e recitato alla Scala il 9 dicembre. Di versi in tutto questo tempo non scrisse altro, credo io, che i fammenti di Sermoni, forse qualche frammento dei Carmi, ma non coordinato, secondo me, a nessun disegno.
         Quando Giovita Scalvini andò nel 1810 a trovarlo (e di questa visita scrisse poi una lettera piena di entusiasmo il a Camillo Ugoni), il Foscolo, dopo avergli mostrato le traduzioni dell'Iliade e dello Sterne, gli parlò (sono parole dello Scalvini) di sette o otto carmi da lui scritti. Ciò mostra che il Foscolo pensava ancora ai Carmi, e non altro; credo che ci pensasse specialmente poco dopo il suo ritorno da Como, negli ultimi del 1809 e nei primi del 1810: me lo fa credere l’aver egli riletti in quei giorni e meditati e cantati i quattrocento versi delle nozze di Teti e Peleo. Questa lettura, questa meditazione, questo canto mi paiono come una lontana preparazione a comporre le Grazie. Ma poi gli altri scritti a cui pose mano alcuni de' quali gli suscitarono contro acerbissime guerre letterarie e furono cagione della sua rottura col Monti, il pensiero delle satire che fino dal maggio 1810 gli frullavano pel capo, e che poco appresso cominciò a scrivere, pei discorsi intorno alle inimicizie letterarie fattigli dall'amico Brunetti, poi l'Aiace, che gli occupò una gran parte dell'anno 1811, poi una gita a Venezia nei primi del 1812, poi gli amori, lo distolsero affatto dal pensiero, non pure di tutti i Carmi immaginati, ma dell'unico che doveva soprannuotare al naufragio degli altri e arricchirsi delle loro spoglie. In tutte le lettere di questi tre anni non è mai fatta menzione dei Carmi mentre in esso è fatta menzione di tutti gli altri lavori ai quali il poeta attese in quel tempo.
         La natura del Foscolo era di poeta essenzialmente lirico: egli è lirico anche nella narrazione e nella rappresentazione degli affetti: nel suo romanzo e nelle tragedie c'è il lirismo, non il drammatico della passione. Non bastano, per fare il dramma, l'esaltamento delle passioni e la morte del protagonista: se la rappresentazione delle passioni non è schietta, cruda, reale; se le passioni, più che mostrarsi operanti, dissertano e disputano; se parlano il linguaggio della poesia, non quello del cuore umano; esse possono farci ammirare l'arte e la fantasia dello scrittore, ma non ci commuovono e per conseguenza il dramma non c'è. Il Foscolo, scrittore tanto caldo e concettoso e nervoso nei sonetti e nei Sepolcri, pare per ciò nel dramma freddo, lungo, slavato. Il predominio dell'elemento fantastico era in lui d'impiccio alla espressione del sentimento. Chi volesse far delle frasi, potrebbe dire che Polinnia, impermalitasi ch'egli la abbandonasse per cortei dietro a Melpomene, gli fece un brutto tiro: si vestì dei panni della sorella e prese il luogo di lei; e il poeta, mentre credeva d'aver che fare con la Musa dal severo coturno, non si accorse di esser sempre nelle braccia della sua legittima moglie. In quel che c'è di meglio nell'Aiace si sente il poeta de' Carmi. Se dall'Aiace e dalla Ricciarda si levano alcuni bei pezzi di poesia lirica, il resto val poco.
         E il poeta de' Carmi si sente anche nei Sermoni. Il Foscolo aveva poche corde alla sua lira. Fu già notato che anche nei Sepolcri c'è qualche tòcco satirico: e, anche da cotesto altri credè poter argomentare che il Foscolo avesse molte e grandi attitudini a scrivere satire. A me invece dal Sermone intero e dai frammenti, dal Capitolo Al Cicognara e dalla Novella, sembra di poter argomentare che il nostro poeta, se anche si fosse dato alla satira piú di proposito che non fece, non si sarebbe levato in essa a grande altezza.
         Al Foscolo abbondò la materia e non mancarono eccitamenti alla satira, specialmente in quelli anni delle sue inimicizie letterarie. Il 5 maggio 1810 egli scriveva al Giovio: "mi pare che, s'io avessi forza e voglia di lavorare, scriverei satire con assai poca fatica: non mi tengo per uomo arguto e maligno; nondimeno mi si è piantata nel cervello una pazzia, ed è che gli uomini, assediandomi gli occhi e le orecchie, lascino ad ogni modo il mio cuore in una solitudine illiberale; e m'adiro anche di me, perchè ad ora ad ora mi credo or più buono or più tristo degli altri mortali". Per quanto sdegnoso di andare sulle orme altrui, e desideroso di parere originale e novatore, il Foscolo era rimasto fedele, troppo strettamente fedele, alla tradizione letteraria classica: le forme nelle quali egli consentiva all'ingegno suo di muoversi erano quelle dei classici, ch'egli chiamava sole fonti di scritti immortali; quelle e non altre. E la tradizione classica nelle moderne letterature europee, oramai tutti lo sanno, aveva avuto per effetto di rimpicciolire, e restringere le forme stesse trovate dai classici, e di togliere ai moderni quella libertà che aveva fatto la grandezza degli antichi scrittori.
         Il Foscolo concepiva la satira nella forma datale dai poeti romani e rinnovata in Italia dagli scrittori del secolo decimosesto; pure una novità ce la introdusse, l'unione dell'elemento lirico col satirico; unione riuscitagli assai felicemente. Ma all'ingegno suo solenne e severo mancava la finezza e la spontaneità dell'arguzia, mancava l'audacia dell'espressione aggressiva, feroce, plebea, per la quale son grandi Aristofane, Giovenale, il Berni, Victor Hugo ed Enrico Heine. Anche le sue satire in prosa, lo scritto sugli Atti dell'Accademia dei Pitagorici e l'Ipercalissi, mostrano, secondo me, la verità di questo ch'io dico. In tante pagine tu non trovi una di quelle arguzie che provocano una risata forte, piena, irresistibile, non trovi una di quelle espressioni che ammazzano un uomo, che ne fanno la caricatura, una caricatura che ti si imprime nella mente, e non te la dimentichi più. L'Ipercalissi, più che una satira, è un libello. A parte ciò, il Foscolo nella satira ha qualche cosa dell'austera indignazione di Persio, al quale, nota giustamente il Carrer, si rassomiglia; ma gli si rassomiglia un po' troppo; e, checchè ne dica il Carrer, è non meno oscuro di lui. Ora la oscurità, derivante nel nostro poeta da soverchio sforzo di condensare le idee, e da quel suo modo di concepire e di esprimersi lontanissimo dal comune, che lo fa grande nei Sepolcri, toglie efficacia alla satira. Si paragoni, non dico il Sermone, dove l'intonazione alta e la preponderanza dell'elemento lirico nascondono quasi la satira, ma il Capitolo Al Cicognara o un frammento qualunque dei Sermoni, col sonetto del Berni contro l'Aretino, o con l'altro contro il Signore d'Arimini, o anche solamente col sonetto del Monti A Quirino, e si vedrà come la satira del Foscolo rimanga nel confronto sbiadita.

La oscurità del Sermone la riconobbe l'autore stesso, specie nella prima parte, che ha veramente dell'enigmatico. Quando ebbe letta la traduzione latina fattane dall'amico suo Bottelli, che delle dieci volte le nove non lo aveva capito, gli scrisse: "davvero in quel sermone io sono sfinge più che in qualunque altro mio scritto", e, spiegatogli il concetto del sermone stesso, soggiunge: "Ecco ciò ch'io scrissi ... o almeno ciò ch'io voleva scrivere e far intendere. Ma vedo che non lo posso intendere se non io solo: onde cangerò di pianta tutta la prima parte, lasciando i pensieri, ma diradando le tenebre degli enigmi e connettendo meglio l'ordine degli argomenti". A rifare la prima parte e correggere il resto non ci pensò più, o glie ne mancò il tempo.
         Ma nel Sermone il poco valore dell'elemento satirico è compensato dal valore dell'elemento lirico, il quale s'impone quasi all'autore, e a poco a poco gli leva la mano, e fa che l'incominciata satira giunta appena a metà si trasmuti e finisca in un Carme.


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© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 10 dicembre 1998