Ugo Foscolo

Le Grazie
[Edizione Orlandini 1848]
[In collaborazione con la Donna Gentile]

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INNO SECONDO

VESTA

 Carme  ad  ANTONIO CANOVA

      "In quest'Inno particolarmente ho tentato di verseggiare ciò che ho osservato io medesimo nelle amabili donne, che senza saperlo, mi mandarono prima al cuore, e poscia all'ingegno alcune immagini delle Grazie; ed io per gratitudine ho voluto, se non altro, tentare che i giovinetti italiani imparino, leggendo il mio Inno, a sentire e a discernere le Grazie, e ad adorarle con versi più accetti, perché dettati da un poeta che, dopo aver sacrificato alle Sacerdotesse e alle emulatrici di quelle dilicate Divinità, si è ritirato pria d'invecchiare, per non offenderle con versi impudichi." (Foscolo)

      Tre vaghissime Donne, a cui le trecce
Infiora di felici itale rose
Giovinezza, e per cui splende più bello
Sul lor sembiante il giorno, all'ara vostra,
Sacerdotesse, o care Grazie, io guido.
      Qui, e voi che Marte non rapì alle madri,
Correte, e voi che muti impallidite
Ne' penetrali della Dea pensosa,
Giovinetti d'Esperia era più lieta
Urania un dì, quando le Grazie a lei
Il gran peplo fregiavano. Con elle
Qui Galleo sedeva a spiar l'astro
Della loro regina; e il disviava
Col notturno romor l'acqua remota,
Che sotto a' pioppi delle rive d'Arno
Furtiva e argentea gli volava al guardo.
Qui a lui l'Alba, la Luna e il Sol mostrava,
Gareggiando di tinte, or le severe
Nuvole sull'azzurra alpe sedenti,
Ora il piano che sfugge alle tirrene
Nereidi, immensa di città e di selve
Scena, e di templi e d'arator beati;
Or cento colli, onde Appennin corona
D'ulivi e d'antri e di marmoree ville
L'elegante città, dove con Flora
Le Grazie han serti e amabile idïoma.
      Date principio, o giovinetti, al rito,
E da' festoni della sacra soglia
Dilungate i profani. Ite, insolenti
Genj d'Amore, e voi, livida turba
Di Momo, e voi che a prezzo Ascra attingete.
Qui nè oscena malia, nè plauso infido
Può, nè dardo attoscato oltre quest'ara,
Cari al vulgo e a’ tiranni, ite, profani.
Sacra tutela son le Grazie al core
Delle ingenue fanciulle. Uscite or voi
Da' boschetti di mirto ove solinghe
Amor V’insidia, o donzellette, uscite:
Gioja promette e manda pianto Amore.
Qui sull'ara le perle e le colombe
Deponete, e tre calici spumanti
Di latte inghirlandato; e, fin che il rito
V'appelli al canto tacite sedete:
Sacro coro è il silenzio; e vi fa belle
Piú del sorriso. E tu che ardisci in terra
Vestir d'eterna giovinezza il marmo,
Or l'armonia della bellezza e il vivo
Spirar de’ vezzi nelle tre Ministre,
Che all'arpa, ai balli ed all'offerta io chiamo,
Vedrai qui meco; e tu potrai lasciarla
Immortali fra noi, pria che all'Eliso
Sull'ali occulto fuggano degli anni.
L'una disveli e noi come a beata
Molle armonia temprate, o Dee, gli affetti
De' mortali e i pensier: l'altra, danzando,
Scorrer quell'armonia faccia da tutto
Il suo bel corpo; e un guardo, un atto, un vezzo
Mandino agli occhi venustà improvvisa:
Rechi la terza il mèle, onde per voi,
A modestia, la Musa, a dolci studi
E. a belle imprese persuade il mondo.
      Leggiadramente d'un ornato ostello,
Che a lei., d'Arno futura abitatrice,
I pennelli posando, edificava
Il bel fabbro d'Urbino, esce la prima
Vaga mortale, e siede all'ara; e il bisso
Liberale acconsente ogni contorno
Di sue forme eleganti; e fra il candore,
Delle dita s'avvivano le rose,
Mentre accanto al suo petto agita l'arpa.
Scoppian dall'inquïete aeree fila,
Quasi raggi di sol rotti dal nembo,
Gioja insieme e pietà; poi che sonanti
Rimembran come il ciel l'uomo concesso
Al diletto e agli affanni, onde gli sia
Librato e vario di sua vita il volo;
E come alla virtù guidi il dolore,
E il sorriso e il sospiro errin sul labbro
Delle Grazie; e a chi son fauste e presenti,
Dolce in core ei s'allegri, e dolce gema.
      Pari un concento, se pur vera è fama,
Un dì Aspasia tessea lungo l'Ilisso,
Di queste Dive allor sacerdotessa;
E intento al suono Socrate libava,
Sorridente, a quell'ara; e col pensiero
Quasi a' sereni dell'Olimpo alzossi.
Quinci il veglio mirò volgersi obliqua
Affettando or la via su per le nubi,
Or ne' gorghi letéi precipitarsi
Di Fortuna la rapida quadriga,
Da' viventi inseguita; e quel pietoso
Gridò invano dall'alto: a cieco duce
Siete seguaci, o miseri! e vi scorge
Dove in bando è pietá, dove il Tonante
Più adirate le folgori abbandona
Sulla timida terra; ove le mèssi
Calpostano gli alipedi di Marte.
Ardon l'Erinni di lor man le antique
Selve e le moli, opra de' regi. L'ombre
Magnanime d' Eroi fremon confuse
Fra lunga schiera di garzoni estinti
Fuor degli occhi paterni: il piè alla proda
Movono d’Acheronte, e gli occhi errando,
Cercan fra le tenèbre il solar raggio
Anzi tempo smarrito. O nati al pianto
E alla fatica, se virtù v'è guida,
Dalla fonte del duol sorge il conforto.
      Ah! ma nemico è un altro Dio, di pace,
Più che Fortuna, e gli innocenti assale.
Ve' come l'arpa di costei ne geme!
Geme che a tante verginette il seno
Sfiori, e di pianto, in mezzo alle carole,
Le lor pupille invidïoso inondi.
Per sè gode frattanto ella, che Amore,
Per sè, l’altera giovine, non teme.
Ben l'ode, e sull’ardenti ale s'affretta
Alle vendette il Dio; ma a quelle note
Tosto l'arco terribile gli cade.
E i montanini Zeffiri fuggiaschi,
Docili al suono, aleggiano più ratti
Dalle linfe di Fiesole e da' cedri
A rallegrare le giunchiglie, ond'ella
Oggi, o Grazie per voi, l’arpa inghirlanda.
E a voi. quest'inno mio guida più caro.
      Già del piè, delle dita e dell'errante
Estro, e degli occhi vigili alle corde,
Ispirata, sollecita le note,
Che pinger san come Armonia diè moto
Agli astri, all'onda eterea e alla natante
Terra per l'Oceáno: e come franse
L'uniforme creato in mille volti
Co' raggi e l'ombre, e il ricongiunse in uno:
E i suoni all'aere, e diè i colori al sole,
E l'alterno continuo tenore
Alla Fortuna agitatrice e al Tempo;
Sì che le cose dissonanti insieme
Rendan concento d'armonia divina,
E inalzino le menti oltre la terra.
Così quando più gajo Euro provóca
sull’alba il queto Lario, e a quel susurro
canta il nocchiero, allegransi i propinqui
Liuti, e molle il flauto si duole
D'innamorati giovani e di ninfe
Sulle gondole erranti; e dalle sponde
Risponde il pastorel colla sua piva:
Per entro i monti rintronano i corni,
Terror del cavriol, mentre in cadenza
Di Lecco il maglio domator del bronzo
Tuona dagli antri ardenti: stupefatto
Pende le reti il pescator, ed ode.
Tal dell'arpa diffuso erra il concento
Per la nostra convalle; e mentre posa
La sonatrice, ancora odono i colli.
      Or le recate, o vergini, i canestri
E le rose e gli allori a cui materne
Nell'ombrifero Pitti irrigatrici
Fur le Najadi etrusche, a far più vago
Il giovin seno alle mortali etrusche,
Emule d'avvenenza e di ghirlande;
Soave affanno al pellegrin che inoltra
Improvviso ne’ lucidi teatri,
E quella intenta voluttà del canto,
Ed errare un desio dolce d'amore
Mira ne' volti femminili; e l'aura
Pregna di fiori gli confonde il cuore.
Recate insieme, o vergini, le conche
Dell'alabastro, provvido di fresca
Linfa e di vita, ahi breve! a’ giovinetti
Gelsomini, e alla mammola, dogliosa
Di non morir sul seno alla fuggiasca
Ninfa di Pratolino, o sospirata
Dal solitario venticel notturno.
Date il rustico giglio; ei, se men alte
Ha le forme fraterne, il manto veste
Degli amaranti invïolato: unite
Aurei giacinti e azzurri alle giunchiglie
Di Bellosguardo, che all'amante suo
Coglie Pomona; e a' garofani alteri
Defla prole diversa e delle pompe;
E a' fiori, che dagli orti dell'Aurora
Novella preda a' nostri liti addussero
Vittorïosì i Zeffiri sull'ale,
E or, fra' cedri al suo talamo imminenti,
D'ospite amore e di tepori industri
Questa gentil sacerdotessa educa.
Spiran soavi, e armonïosi agli occhi,
Come all'orecchie il suon, splendono i serti
Che di tanti color tesse e d'odori:
Ma il fior che altero del suo nome han fatto
Dodici Dei ne sceglie e il dona all'ara
Pur sorridendo, e in cor tacita prega.
Con lei pregate, o donzellette, e meco
Voi, garzoni, miratela. Il secreto
Sospiro, il riso del suo labbro, il dolce
Foco esultante nelle sue pupille,
Faccianvi accorti di che preghi, e come
L'ascoltino le Dive. Or forse impetra
Che di loro l'amabile consiglio
Per lei s'adempia. I pregi che dal cielo,
Per pietà della terra, han le divine
Vergini caste, non a voi li danno;
Li danno a' vati, e artefici eleganti
Ed a qual più gentil donna le imita.
A lei correte, e di soavi affetti
Spiratrici e d'imagini leggiadre
Sentirete le Dee; - ma vi rimembri
Che inverecondo le spaventa Amore!

II

Torna, deh! torna al suon, donna, dell'arpa;
Mira la tua bella compagna; e viene,
Seconda al rito, a circondar l'altare
Di liete danze, ed a guidar le ninfe.
Pur l'insubre città, cui tanta
Le Najadi fan pingue, e cui feconde,
Di mille pioppe aeree al susurro,
Le mandre ombrano i campi, or la richiama
Fra lo splendor de' suoi balli notturni,
E alle cene ospitali, e in mezzo orti
Freschi di frondi e intorno aurei di cocchi,
Lungo i rivi d'Olona. E già tornava
Questa gentile al suo molle paese,
Che al tebro, all'Arno, ov'è più sacra Italia,
(Così imminente omai freme Bellona!)
Non un'ara trovò, dove alle Grazie
Rendere il voto d'una regia sposa.
Ma udì 'l canto, udì l'arpa; e vêr noi move
Agile come in cielo Ebe succinta.
Sostien del braccio un giovinetto cigno,
E togliesi di fronte una catena
Vaga di perle a cingerne l'augello.
Quei lento, al collo suo del flessuoso
Collo s'attorce, chè di lei contempla
Neri sulle sue lattee piume i crini
Scorrer diffusi ; e più lieto la mira,
Mentr’ella scioglie a questi detti il labbro
Grata agli Dei del reduce marito
Da' fiumi algenti ov'hanno patria i cigni,
Alle virginee Deità consacra
L'alta Regina mia candido un cigno.

      Accogliete, o garzoni, e sulle chiare
Acque vaganti intorno all'ara e al bosco
Deponeto l'augello, e sia del nostro
Fonte signore; e i suoi atti venusti
Gli rendan l'onde e il suo candore, e goda
Di sè, quasi dicendo a chi lo mira:
Simbol son io della beltà! Sfrondate
Ilari carolando, o verginette,
Il mirteto e i rosai lungo i meandri
Del ruscello: versate sul ruscello,
Versateli; e al fuggente nuotatore,
Che veleggia con pure ali di neve,
Fate inciampi di fiori ; e qual più ameno
Fiore a voi sceglia col puniceo rostro,
Vel ponete nel seno. A quanti alati
Godon l'erbe del par, l'aere ed i laghi
Amabil sire è il cigno: e coll'impero
Modesto delle grazie i suoi vassalli
Regge, ed agli altri volator sorride,
E lieto la superba aquila ammira.
Sovra l'omero suo guizzan securi
Gli argentei pesci, ed ospite leale
Il vagheggiano s' ei visita all'alba
Le lor ime correnti, desioso
Di più freschi lavacri, onde rifulga
Sovra le piume sue nitido il Sole.
Fioritelo di gigli. Al vago rito
Donna l'invia che nella villa amena
De' tigli (amabil pianta, e a molli orezzi
Propizia, e al santo coniugale amore)
Nudrialo afflitta; e a lei dal pelaghetto
Grato accorrea, agitandole l'acque
Sotto i lauri tranquille. - O nuova sperne
Della mia Patria, e di tre nuove Grazie
Madre, e del popol tuo; bella fra tutte
Figlie di regi, e agl'Immortali amica!
Tutto il cielo t'udia quando al marito
Guerreggiante a impedir l'Elba ai nemici
Pregavi lenta l'invisibil Parca
Che accompagna gli Eroi, vaticinando
L'inno funereo, e l'alto avello, e l'armi
Più terse, e giunti alla quadriga i bianchi
Destrieri eterni a correre l'Eliso.
Tutto il cielo t'udia quando tendesti
Le rosee braccia, e de' tuoi figli al padre
Men crude le funeste ire pregavi
Di Borea, e il gel che pel solingo cielo
Dal carro l'imminente Orsa rovescia
Sulla scitica terra, orrida d'alte
Nevi e sangue ed armate ombre insepolte.
Solo frattanto il giovinetto Eroe
La barbarica tenne onda di Marte.
Così, quando Bellona entro le navi
Addensava gli Achei, vide sul vallo
Fra un turbine di dardi Aiace solo
Fumar di sangue; e ove dirúto il muro
Dava più varco a' Teucri, ivi a traverso
Piantarsi; e al suon de' brandi onde intronato
Avea l'elmo e lo scudo, i vincitori
Impaurir, col grido, e rincalzarli:
Fra le dardanie faci arso e splendente
Scagliar rotta la spada, e trarsi l'elmo,
E fulminare immobile col guardo
Ettore che perplesso ivi si tenne.
Sdegnan chi a’ fasti di Fortuna applaude
Le Dive mie, e sol fan bello il lauro
Quando sventura ne corona i prenci.
      Ma più alle Dive mie piace quel canto,
Che d'egregia beltà l'alma e le forme
Colla pittrice melodia ravviva.
Nè invan per l'altre età, se l'idioma
D'Italia correrà puro a' nepoti
(È vostro, e voi, deh! lo serbate, o Grazie),
Tento ritrar ne' versi miei la sacra
Danzatrice, men bella allor che siede,
Men di te bella, o gentil suonatrice,
Men amabil di te quando favelli
O nudrice dell'api; ma se danza,
Vedila! tutta l'armonia del suono
Scorre dal suo bel corpo, e dal sorriso
Della sua bocca; e un moto, un atto, un vezzo
Mandano agli occhi venustà improvvisa
Che diffondon le grazie. Io la discerno
Per mille aspetti mille volte bella;
Pur chi pinger la può? Mentre a ritrarla
Pongo industre lo sguardo, ecco m'elude,
E la carola che lenta disegna
Alterna rapidissima, e s'invola
Sorvolando su' fiori; appena veggo
Il vel fuggente biancheggiar fra' mirti,
Quasi nembo che un Nume avvolge e fura.
      Agitate da' Zeffiri, le vostre
Chiome, o Grazie, così mutano anella,
E mostran vari ognor biondeggiamenti,
Sì che a senso mortal ne sfugge il vero.
E non già la febea fulgida lampa,
Non la face che ad Espero la Sera
Inghirlanda di rose, e non il lume
Che Cinzia versa placido dal carro
Di madreperla; ma di Vesta il foco,
Di sì gentil varïetà le trecce
Di queste Dee colora: a me l'Olimpo
Ne invia la fama, ed io la narro al mondo.
      Solinga nell'altissimo de' cieli,
Inaccessa agli Dei, splende una fiamma
Per proprio fato eterna; e n'è custode
La veneranda Deità di Vesta.
Vi s'appressa, e deriva indi una pura
Luce che, mista allo splendor del Sole,
Tinge gli aerei campi di zaffiro
E i mari allor che ondeggiano al tranquillo
Spirto del vento, facili a' nocchieri;
E di chiaror dolcissimo consola
Con quel lume le notti; e a qual più s'apre
Modesto fiore a decorar la terra
Molte tinte comparte, invidïate
Dalla rosa superba. Anco talora
Di quel candido foco una scintilla
Spira la Dea nell'anime gentili,
Che, recando con sè parte di cielo,
Sotto spoglia mortal scendon fra noi.
Di quel candido foco ardono i petti,
Pronti al perdono, al beneficio, e pronti
A consolare i miseri col pianto.
Pria ne' Greci spirolla; e da quel giorno,
Dolce un incanto si sentian nell'alma,
Lucido in mente ogni pensiero; e tutto
Ch'udian essi e vedean, vago e diverso
Li dilettava: ad imitarlo industri
Prendeano a prova, e divenia più bello.
Quando l'Ore e le Grazie di soavi
Lumi, passando, coloriano i campi,
E gli augelletti le seguiano, e lieto
Facean tenore al gemere del rio
E de' boschetti al fremito, il mortale
Emulò que' colori - e mentre Marte
Fra l'armi, o l'agitò Nereo fra' nembi
Mirò 'l fonte e i boschetti, udì gli augelli,
E si beò della pace de' campi.
Allor fu bella la fatica; e l'Arte
Diede eleganza alla materia; e, il bronzo,
Quasi foglia pieghevole d'acanto,
Ghrlandò le colonne; e ornato e legge
Ebber travi e macigni, obbedïenti
Al voler delle Dee. - Ma più felice
Tu tu che primiero la tua donna in marmo
Effigiasti! Amor da prima in cuore
T'infiammò del disio che disvelata
Volea bellezza, e profanata agli occhi
De' mortali: ma a te venner le Grazie;
E tal diffusero, al tuo fianco assiso
Avvenenza in quel volto, e leggiadria
Su quelle forme; e al lor divin concento
Sì gentili spirarono gli affetti
Della giovine nuda, che l'amica
Tu ritraesti e Venere in quel marmo.
E quando sparve la celeste fiamma
Che la Diva recato avea sul Tebro,
Canta la Fama che le Grazie un giorno
Vider L'Onore andar fuggiasco, in veste
Di dolente eremita, e sovra l'urne
Muto prostrarsi degli antiqui Eroi;
E seco starsi, in abito d'errante
Pellegrino, la sacra e da' mortali
Mal conosciuta Libertà. Pietose
Le tre sorelle addussero per mano
Il Pellegrino e il tacito Eremita
Ne' queti orti de' Vati, e nell'umíle
Tetto, ove, ignoti a' re, lieti i Scultori
Veston d'eterna giovinezza il marmo
Dove i Pittori col divin sorriso
De' color vari irraggiano le menti
Ottenebrate. - A noi dolce è il dolore
E la fatica, onde affrettar gl'ingegni
A eternarsi co' Numi. A inerte e mesta
Vecchiezza, e detestata anco alle Grazie,
Devote sono o a prematura morte
Le umane vite: unico vive eterno
L'ingegno, e spande in terra aure celesti.
E l'ingegno, d'origine celeste,
Non fortuna o favor levan da terra,
Ma il proprio igneo vigore. E l'aureo Sole,
Quando sormonta il clivo arduo dell'erta
Eoa, la lena a' suoi destrieri incuora,
Non della speme del trifoglio eterno,
E non del grido, e de' spumanti morsi
Al comandar, nè della sforza al fischio:
De' dardi al tintinnir dentro il turcasso
Fatale i vanni affrettano gli alipedi
Al ciel, meta del Dio. Quindi dechina;
Poi riede, e l'opre sue lieto contempla. 

III.

Ora Polinnia, alata Dea, che molte
Lire a un tempo percote, e più dell'altre
Muse possiede orti celesti, esulti:
Ch'io pur de' fiori suoi colti in Italia,
Nel giardino d'Europa, ornerò l'inno.
Ornerò lieto il canto, ora che terza
Sacerdotessa vien bella una donna,
Fresco portando alle mie Dive un favo
(Nostro, e non dato ad altre genti, è il rito),
Per memoria del mele onde alle Grazie
Con soave ronzìo fanno tesoro
L'eterne Api di Vesta: e chi n'assaggia,
Caro a' mortali ed agli Dei favella.
      O grazïose Dee gioja degl'inni,
Per voi la bella donna oggi ha in sua cura.
Quelle alate angelette; e le fronndose
Indiche piante onde i suoi lari ombreggia
Apprestano diporti alle vaganti
Schiere: e le accoglie, ne' fecondi orezzi
Un armonico speco, invïolate
Dal gelo e dall'estiva ira de' nembi.
La bella Donna di sua mano i lattei
Calici dell'arancio, e la più casta
Delle viole, e il timo, amor dell'api,
Educa, e il fior delle rugiade, implora
Dalle stelle tranquille: e l'Api a lei
Tesoreggiano; e amabile il sorriso
Spunta fra' detti arguti, onde i procaci
Geni d'Amore e le virtù severe,
Adulando, rattempra. Ora costei
Dal felsineo pendio, donde Appennino
Mira l'Orsa che indarno erra cercando
Le fonti di Neréo, mosse, ed a voi
Queto eletto tra' favi offre sull'ara.
      Cantando Febo pieno d'inni un carme,
Vaticinò, ch'egli lo spirto, e varia
Daranno a' Vati l'armonia del plettro
Le sue caste Sorelle, e Amore il pianto
Che lusinghi a pietà l'alme gontili,
E il giovine Lïeo scevra d'acerj,
Cure la vita, e Pallade i consigli,
Giove la speme, e i patrii Numi eterno
Poscia l'alloro; ma le Grazie il mèle
Persuadente a grazïosi affetti,
Onde pia cogli Dei torna la terra.
E cantando, vedea lieto agitarsi,
Esalando profumi, il verdeggiante
Bosco d'Olimpo; e rifiorir le rose;
E scorrere di néttare i torrenti;
E risplendere il cielo; e delle Dive
Raggiar più bella l'immortal bellezza;
Però che il Padre sorrideva, e, in lui
Con gli occhi intenta l'aquila posava.
      Dite garzoni, a chi mortale, e voi,
Donzelle, dite a quai fanciulle un giorno
Più di quel mèl le Dee furon cortesi. -
N’ebbe primiero un Cieco; e sullo scudo
Di Vulcano mirò moversi il mondo,
E l'alto Ilio dirúto, e per l'ignoto
Pelago la solinga itaca vela,
E tutto Olimpo gli s'aprì alla mente,
E Cipria vide e delle Grazie il cinto. -
E quando quel sapor venne a Corinna
sul labbro, vinse tra l'elee quadrighe
Di Pindaro i destrier, benchè Ippocrene
Li dissetava, e li pascea dell'aure
Eolo, e prenunzia un'Aquila correa,
E de'suoi freni li adornava il Sole.
Di quel mèl la fragranza errò improvvisa
Sul talamo all'eolia Fanciulla,
E il cor furente le gemè e la lira:
Ed aggiogando i passeri, scendea
Venere dall'Olimpo, e delle sue
Ambrosie dita le tergeva il pianto. -
      Così opimo tesor su greche labbra
Ponean l'Api febee! Ma indarno Ilisso
Le richiama dal dì che a fior dell'onda
Egea, beate volatrici, il coro
Delle Muse siguiro, obbedïenti
All'elegia del fuggitivo Apollo.
Però che quando sull'ascrea convalle,
Disfrenando le tartare poledre,
Marte afflisse ogni pianta, e le sacrate
Ossa de' Vati profanò un superbo
Nepote d'Ottomano, allor l'Italia
Alle Muse ricetto, e fu giardino
Alle Pecchie esulanti: e se al Penéo
Fuggiano i lai della invisibil Ninfa,
Che ognor delusa d'amorosa speme,
Pur geme per le quete aure diffusa,
E 'l su' altero nemico ama e richiama;
Tanta dolcezza infusero le Grazie,
Per pietà della Ninfa, alle sue voci,
Che le lor Api, immemori dell’opra,
Ozïose in Italia odono l'Eco
Che al par de' carmi fe dolce la rima.
      Del nuovo ospizio a vista, il drappelletto
Fabro del mèl si dipartì in due schiere.
L'una, al lito approdando ove Po d'acque
Tanta preda riporta all'Oceáno,
Vide agresti fioretti, e lungo il fiume
Gran ciel prendea con negre ombre una selva
Strana d'allori, a imago di bizzarra
Gotica reggia i rami alti intrecciando,
Acutissimi in arco. Ivi una Fata,
Delle sorti presaga, avea quel bosco
Piantato per incanto, e assai novelli
Fiori ad arte cosparsi, onde allettate
L'Api sacre ponessero a lor prole
Quivi il primo alvear. Sovra que' tronchi
Scriveva Atlante i fasti di Ruggiero;
E donne innamorate, e vagabondi
Sppttri di cavalieri ivan col Mago
Aspettando il cantor, che poi, trovati
Deposti i favi, si mietea con essi
Tutti gli allori. Se non che d’Orlando
Cantò pur anco un lepido Poeta,
E al suo labbro involò parte de' favi.
      Ma non men cara l'Api amano l'ombra
Dell'eterno cipresso, ove appendea
La sua cetra Torquato, allor che Amore,
Signor severo all'anime sublimi,
Forsennato il traea per le foreste,
« Sì che insieme movea vietade e riso
» Nelle gentili ninfe e ne’ pastori;
» Nè già cose scrivea degne di riso. »
»Pianse il Poeta all'altrui e pianto, e allora
I suoi malìi obliò. Deh! perchè il piede
Sorse, o Grazie, da voi liete in udirlo?
Cantò' alla Patrìia il pio sepolcro e l'armi;
Cantò d'Erminia; e in sè trovò e dipinse
Di Tancredi l'altera alma, gentile.
Nè disdegnò di voi; ma più fatale
Nume alla reggia il risospinse e al pianto.
      Cotal ventura prescrivea la Fata
A quante all'Adria riposaro il volo
Angelette Pimplee. L’altro drappello
Che per antico amor Flora seguendo,
Tendea per la tirrena onda il viaggio,
Trovò, simile a Cerere, una Donna
Sulla foce dell'Arno; e lo attendea,
Portando in man purpurei gigli e fronde
Dell'arbor che le avea novellamente
Palla donato: avea, riposo al fianco,
Un'etrusca colonna, e a sè dinanzi
Di favi desïoso un alveare.
Molte intorno a' suoi piè verdi le spighe
Spuntavano e perian molte immature
Fra sorgenti papaveri. Mal nota
Benchè fosse divina, era la Donna
Alle Pecchie immortali. Essa agli Dei
Non tornò mai, dacchè scendea ne' primi
Dì noiosi dell'uomo: e il riconforta,
Ma le presenti ore gl'invola: ha nome
Speranza, e meno infida ama i coloni.
      Già negli ultimi cieli iva compiendo
Il settimo de' grandi anni Saturno
Col suo pianeta, dacchè a noi la Donna,
Precorrendo le Muse, era tornata
Per consiglio di Pallade, recando
L'ara fatale ove scolpite in oro
Le brevi rifulgean libere leggi,
Un dì madri dell'Arti: e a somma l'ara
Ralluminò il gentil foco di Vesta,
Che inestinto vagò per la profonda
Barbara notte, e la rompea talvolta:
E le risse civili, e le riarse
Ire di parte andò temprando; e i toschi
Animi a generose opre rivolse.
Ecco prostrata una foresta e fianchi
Orridi d'alpe, e masse ferree, immani,
Al braccio de' Ciclopi a por delubro
Che tardo ceda a' muti urti del Tempo.
E al suono che invisibili spandeanao
Le Grazie intorno, assunsero nell'opra
Nuova speme i viventi; e l'Architetto,
Maravigliando della sua fatica
Quasi nubi lievissime, dal suolo
Ferro e abeti vedea sorgere e marmi,
A sua legge arrendevoli; e sublimi
Curvarsi in arco aerco, imitanti
Il firmamento. Attonite le Muse,
Come vennero Poscia, alla divina
Mole il guardo levando, indarno altrove
Cercando gìan col memore pensiero,
Se Palla avesse argive Arti o latine
Spirato mai a sì fatto portento.
      Coll'alvear lietissimo dell'Api
Veleggia intanto, e l'áncora nel fiume
Gitta la donna, ove una reggia all'Arti,
Su dorïensi gemine colonne,
Alzar poscia doveva, ed alle Grazie,
Il Dedalo d'Arezzo; e già fu santa
Dell'imagine tua, Venere bella,
Che a noi dal brando fu rapita, e noi
Riaverla speriam sol co' lamenti.
Tosto le Pecchie sbucano, correndo
A un'indistinta di novelle piante
Soavità, che intorno al tempio oliva.
Della civil cultura onde Minerva
Fu pria cortese al terren tósco, un mirto,
Che suo dall'alto Beatrice ammira,
Verdeggiava immortale; e de' suoi rami
Battea le penne un'Aquila sdegnosa,
Cieli e abissi cercando, e popolato
D'anime in mezzo a tutte l'acque un monte,
E l'ïeri vedea, l'oggi e il domani.
Poi, tornando, spargea folgori e lieti
Raggi e speme e paura e pentimenti
Ne' mortali; e verissime sciagure
All'Italia cantava. - Appresso il mirto
Fiorian le rose che le Grazie ogni anno
Ne' colli euganei van cogliendo, e un serto
Molle di pianto, il dì sesto d'Aprile,
Ne recano alla Madre. E l’Api intorno
Dolcemente ronzarono, e sentiro
Come forse d'Eliso era venuto
Ad innestare il cespo ei che più ch'altri
Libò il mèl sacro sull'Imetto, e primo
Fe del celeste Amor celebre il rito.
      Or quelle Ninfe, che fra noi di Tempo
Co' loro amanti accorsero, gentili
Dello sciame custodi, hanno abbellito
Alla famiglia di lor piante il nuovo
Ospizio, e l'aere intepidito e i rivi,
Sì che pur sempre la natia fragranza
All'opra le sviate Api lusinghi:
E molti fiori olezzan qui, non visti
Pria negli orti materni; e più recente
Mèl ne deriva, e più gradito al labbro
Non più amabile al core. Invidi gli altri
Pur dell'esilio, abbandonano all'aura
Vizze le foglie sì vivaci un tempo;
E, se non rosse che son fiori eterni,
Lo stelo invan ne cercheresti, o il monte.
Fiorite, esuli piante; ecco io v'innaffio.
Torneran l'Api vostre. Io lascio intatto
Solo il ligustro onde cingea la cetra
Anacreonte. In su quel fiore un'Ape
Ronzava e tal n'uscìa suon delle fila,
Che da Cupido avea baci spontanei
Il vecchierel. Negò ridarla a Febo,
E l'appendeva delle Grazie all'ara.
E quel ligustro le Napee, seguaci
E custodi dell'Api han co' Silvani,
Dove più dolcemente Eco si duole,
Trapiantato in Italia. E qui verdeggia,
Qual più fu cara pianta alle agnellette
Del siculo Pastore; e il fortunato
Mortal, che, spaziando entro quegli orti,
Cantar ode i Silvani, e il canto impara,
Invoglia altrui di pace. - Oh, meco alberghi
Chi i Numi agresti e le Napee conobbe!
Non son Genj mentiti: io dal mio poggio
Quando tacciono i venti fra le torri
Della bella Firenze, odo un Silvano,
Ospite ignoto a' taciti eremiti
Del vicino Oliveto. Ei sul meriggio
Fa sua casa un frascato, e a suon d'avene
Le pecorelle sue chiama alla fonte:
Chiama due brune giovani la sera;
Nè piegar, l'erba mi parean ballando.
Esso mena la danza. E le vedesti,
Fabre [01], tu che sì vive le dipingi;
Ma se alla fiesolana erta affannato
Vai poggiando, a incontrarle ad orïente
Ti s'apre al guardo una tonda convalle,
Che da sei montagnette ond'è ricinta
Dechina, a imago di teatro acheo.
Dalla vista allettato e da una vaga
Memoria, fornirai snello il cammino.
      Udito ho dir che, a' preghi delle Ninfe,
Affrico allegro ruscelletto, accorse
Zampillando dal monte, e la fe in mezzo
Splendida d'un freschissimo laghetto
Tra' querciòli i frutteti e le vendemmie
Ch'or tu miri dal balzo. Ivi Fiammetta,
Che nulla ancora avea de' Genj inteso,
Spesso, all'orezzo delle sere estive,
Fra' giovani sedea per novellare
Con Elisa, a diporto, e le gentili
Compagne, che venìan pur novellando
« Di donne e cavalier, d'affanni e d'agi
» Che ne invogliano amore e cortesia. »
Ben Valle delle Donne oggi è nomata
Da chi la sa: molte Amadriadi alberga
Fors'anco; ma obbedisce oggi all'aratro.
Le rinnega i bei rivi, e per le balze
Tornò ramingo il Fiumicel da quando
Fur delle Ninfe gl'imenei palesi
Però che a Dioneo, re del drappello,
Offerse l'aura il vel, donde, invaghito,
Vedea pur dianzi biondeggiar le ciocche
De' capelli d'Elisa. Ei contro all'aura
Corre, e le vesti a un cespo trova: immersa
Godeva ella dell'acque, nel secreto
Suo cor cantando Amore al rugiadoso
Estivo raggio dalla Luna. E forse
L'ardito amante avria mirato Elisa
Dentro le cristalline onde più bella;
Se non che quivi un pèsco protendea,
Curve da' pomi bagnando, le frondi
Sul flutto; ed ella vi s'occulta e scorge
Spiar le rive il giovine d'intorno;
E più volte alle vesti e presso al pèsco
Recar l'orme frettose: ad alte grida
Parea volesse, e non ardia, chiamarla.
Quando lo trasse un susurrar che uscia
Indi non lunge da una grotta. Elisa
Gli si tolse tremando, e più non venne,
Se non con tutte le compagne, al lago.
Intanto Dioneo dalla frondosa
Soglia dell'antro sterpò un ramo, e acerbo
Di silvestri colombe una vegghiante
Frotta assaliva, flagellando: quelle
Gli si affollano intorno, e gli fann'ombra 745
Più sempre agli occhi; finchè, vinte, all'aure
Fuggon con penne trepidanti. A un tratto
L'antro profondo empie la Luna, e svela,
Sovra un mucchio di rose addormentata,
Ad un Fauno confusa una Napea. 750
Gioì procace Dioneo, sperando
Di sedur coll'esempio della Ninfa
La ritrosa fanciulla; e pregò tutti
Allor d'aita, e i Satiri canuti
E quante invide Ninfe eran da' balli 755
E degli amori escluse: e quei maligni
Di scherzi e d'antri e d'imenei furtivi
Ridissero novelle; ed ei ridendo.
Vago le scrisse, e le rendea più care:
Ma ne increbbe alle Grazie. Or vivo il libro
Dettato dagli Dei; ma sventurata
Quella fanciulla che mai tocchi il libro!
Tosto smarrite del pudor natio
Avrà le rose: nè il rossore ad arte
Può innamorar chi sol le Grazie ha in cuore.


 
 
 
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         Francesco Saverio Fabre nacque il 1 aprile 1776 a Montpellier, e fu figlio di un pittore, cui di gran lunga era destinato a superare. Si addestrò dapprima nel diseguo sotto lo scultore Giovanni Coustou, ma ben presto trovò più opportuna guida all'intelletto in Luigi David, della cui scuola fu uno dei principali ornamenti. Conseguito il gran premio dell'Accademia di Parigi, tuttavia giovinetto si condusse a Roma, ove dimorò fino al 1793, anno in cui accadde la uccisione di Ugo Basville. I politici sconvolgimenti di Francia lo fecero risolvere a rimanersi la Italia; e perciò dal governo francese fu invitato ad aderire per iscritto a quel nuovo stato di cose, ricusando, ebbe condanna di profugo; nè se ne querelò. Nel febbraio del rammentato anno pose la sua dimora in Firenze ove poi passò la maggior parte della vita. Intanto, conquistata l'Italia dalle armi francesi, il Fabre, già molto riputato nell'arte, fu incaricato di presiedere alla scelta dei più famosi quadri della Galleria de' Pitti per inviarsi a Parigi, trofeo della vittoria; ma egli, sdegnoso del superbo spoglio, come di ogni altra ingiustizia, si mostrò anco in questo più tenero verso l'Italia che verso la Francia, poichè conservò alla prima il maggior numero che potè di quei monumenti gloriosi. In Firenze frequentando la conversazione della Contessa d'Albania, ivi conobbe Il grande Alfieri, e più tardi anco li Foscolo, le sembianze dei quali con egregio magistero si compiacque di effigiare in tela al naturale. Il ritratto del primo si ammira nella Galleria degli Uffizj: quello del secondo fu spedito dal pittore ad Ugo in Inghilterra nel 1818, e sembra certo che sia quello stesso oggi posseduto dal Murray. E circa ad esso ritratto del Foscolo è notabile una circostanza narratami dal signor professore Emilio Santarelli che, giovinetto, ne fu testimone. Nel tempo che il Foscolo stava a modello, e il Fabre dipingeva, venne una gravescossa di terremoto. Il poeta non si mosse; il pittore si arrestava un istante, finchè la mano potesse ripigliare la sicurezza dei tocchi poi proseguiva; nè alcun di loro parlò. - Di questo ritratto il Fabre autenticò poi colla sua aprovazione una bella copia in piccolo fatta dal pittore fiorentino Garagalli, e diresse pure la formazionein gesso di due busti al naturale, fatti sul primo ritratto del nostro poeta. Di essi busti, uno fu spedito a Camillo Ugoni a Brescia, l'altro unitamente alla copia del signor Garagalli si conserva presso gli credi della Donna gentile. Fu membro corrispondente dell'Istituto di Francia, professoredell’Accademia di Belle Arti in Firenze, cavaliere della Legione d'onore, e del Merito di Toscana; ed ebbe titolo di Barone. Negli ultimi tempi del viver suo fu invitato a Parigi ad occupare il posto di Pittore del Re, ma egli se ne Scusò. Rimasto erede dei manoscritti alfieriani per disposizione della Contessa d’Albania, dei più preziosi fece dono alla Laurenziana, provvedendo in tal guisa acciò non andassero dispersi. Finalmente da Firenze passato ad abitare a Montpellier, ivi cessò de vivere il 16 marzo 1837, dopo avervi fondato un nobile Museo che porta il suo nome, e lasciando in eredità tutte le sue sostanze al detto professore Santarelli (F. S. O.)    [rit]


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© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 24 dicembre 1998