Ugo Foscolo

Le Grazie
[Edizione Orlandini 1848]
[In collaborazione con la Donna Gentile]

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INNO TERZO

PALLADE

 Carme  ad  ANTONIO CANOVA

Pari al numero lor volino gl’Inni
Alle Vergini sante, armonïosi
Del peregrino suono uno e diverso
Di tre favelle. Intento odi, Canova;
Ch’io mi veggio d'intorno errar l'incenso,
Qual si spandea sull'are a’ versi arcani
D’Anfione. Presente ecco il nitrito
De' corsieri dircèi: eran divini;
Per que’ vaganti Pindaro contenne
Presso il Cefiso, ed adorò le Grazie.
Fanciulle, udite, udite; un lazio Carme
Vien sonando imenei dall’isoletta
Di Sirmïone per l'argenteo Garda
Fremente con altera onda marina,
Dacchè le nozze di Pelèo, cantate
Nella reggia del mar, l’aureo Catullo
Al suo Garda cantò. Te Pur dall’aure
Di Partenope udiam, gloria del Mincio.
A te dal cielo Orfeo, quando t’intese
Pianger lei che all’eterne ombre gemendo
Da’ suoi baci tornò, scese e, commosso,
Radïante di stelle a te la lira
Diede e ’l suo lauro, e disse; ognun t’adori
Re de’ versi divini! A me voi date
L’arte; o sacri Poeti, a me de’ vostri
Idïomi gli spirti (e la dolcezza
Mi daranno le Grazie), e co’ toscani
Modi seguaci adornerò più ardito
Le note istorie, e quelle onde a me solo
Siete cortesi allor che degli antiqui
Sepolcri m'apparite, Illuminando
D’elisia luce i solitari campi
Ove l’errante Fantasia mi porta
A discernere il vero. Or ne preceda
Clio, la più casta delle Muse, e chiami
Consolatrici sue meco le Grazie.
      Della terra al desio già Citerea
Rapiano l’aure, e seco ivan le figlie;
E intorno a lei radean lievi le falde
Dell’Ida irriguo di sorgenti. E quando
Fur più al cielo propinque, ove una luce
Rosea le vette al sacro monte asperge,
E donde sembran tutte auree le stelle,
Alle vergini sue, che la seguieno,
Mandò in coro la Dea queste parole:
« Assai beato, o giovinette, è il regno
De’ Celesti ov’io riedo. Alla infelice
Terra ed a’ figli suoi voi rimarrete
Confortatrici; e sol per voi sovr’essa
Ogni lor dono pioveranno i Numi.
Ma se vindici fien più che elementi,
Allor fra’ nembi e i fulmini del Padre
Guiderovvi a placarli. Udrete intanto
Al mio partir tal dall’Olimpo un’alta
Armonia, che, da voi dolce diffusa
Sovra la terra, renderà più liete
Le nate a delirar vite mortali,
Più deste all’Arti, e men tremanti al grido
Che le promette a morte. Ospizio amico
Talor sienvi gli Elisi; e sorridete
A’ vati, se cogliean puri l’alloro
Ed a’ prenci indulgenti, ed alle pie
Giovani madri che a straniero latte
Non concedean gl’infanti, e alle donzelle
Che occulto amor trasse innocenti al rogo,
E a’ giovinetti per la Patria estinti.
Siate immortali! » Disse, e le mirava,
E degli sguardi diffondea sovr’esse
Soave il lume dell’eterna Aurora.
Poi d’un suo bacio confortò le meste
Vergini sue che la seguian cogli occhi
Di lagrime suffusi; e lei dall’alto
Vedean conversa, e questa voce udiro:
« Daranno a voi dolor novello i Fati,
E gioja eterna. » E sparve; e, trasvolando
Due primi cieli, s’avvolgea del puro
Lume dell’astro suo. L’udì Armonia,
E giubilando l’etere commosse.
      Come nel chiostro vergine romita,
Se gli azzurri del cielo, e la splendente
Luna, e ’l silenzio delle stelle adora,
Sente il nume ed al cembalo s’asside
Ed affatica l'ebano sonante:
Ma se le tocca insidïoso il coro
Colla occulta memoria delle gioje
Perdute Amore, movono più lente
Sovra i tasti le dita, e d’improvviso
Quella soave melodia che sgorga
Secreta ne’ vocali alvei del legno,
Flebile e lenta all'aure s’aggira;
Tal l’armonia che discorrea da’ cieli
Le Grazie intente udirono e nel coro
L'albergaro; e correan su per la terra
A dettarla a’ mortali. E da quel giorno
Fu più soave la fatica e il pianto,
Più liberale il beneficio, e grata
Del beneficio la memoria. Afflitte
Fuggon le caste Dee, fuggon l’ingrato,
E l’amicizia de’ potenti e il fasto.
A te, Canova, a te chiedono amico
Ospizio, che alle belle Arti neglette,
O magnanimo, dài premj ed esempi.
      E a te, felice Orfeo, primo le Grazie
Compartiano quel suono onde a più mito
Vivere addur l'umana plebe errante
Infra ciechi delirj. In mille piagge
Poser le Dive il piè: pure alla sacra
Terra d’Italia il nume lor più arrise.
      Vide lor possa invido Amor, de’ Numi
Il più giovine insieme ed il più antico;
E dai gioghi d’Olimpo, acerbo in coro,
Precipita, agitando arco e faretra
Strepitanti per gli omeri al suo corso;
E i chiusi strali presagian frementi
Quell’invisibil Dio che, pari a notte,
Di nembi circondato e di paure,
L’alme sorelle a funestar scendea.
Come se a’ raggi d'Espero amorosi
Fuor d’una mirtea macchia escon secrete
Due tortorelle mormorando a’ baci,
Guata dall’ombra l’upupa e sen duole
Fuggono quelle impaurite al bosco;
Così le Grazie si fuggian tremando.
      Fu lor ventura che Minerva allora
Risaliva que’ balzi, al bellicoso
Scita togliendo il nume suo. Di stragi
Di canuti, e di vergini rapite,
Stolto! il trionfo profanò che in guerra
Giusta il favore della Dea gli porse.
      Delle Grazie s’avvide e della fuga
Immantinente, e dietro a un ombrosa
Rupe il cocchio lasciava, e le sue quattro
Leonine poledre: ivi lo scudo
Depose, e la fatale egida, e l'elmo,
E inerme agli occhi delle Grazie apparve,
Scendete, disse, o vergini, scendete
Al mare, ed adorate ivi la madre;
E una pietà per gli altrui lutti in core
Vi manderà, che oblierete il vostro
Terror, tanto ch’io rieda a offrirvi un dono
Che da Amor vi difenda. - E tosto al corso
Diè la quadriga e giunse ratto a un’alta
Reggia che a par d'Atene ebbe già cara:
Or questa sola alberga, or quando i Fati
Non lasciano ad Atene altro che il nome.
      Isola è in mezzo all'oceàn, là dove
Sorge più curvo agli astri; immensa terra,
Com’è vetusto grido, un dì beata
D'eterne mèssi e di mortali altrice.
Ma indarno, ora del nostro or dell’avverso
Polo gli astri invocando, oggi il nocchiero
La chiede all'onde: e se il desio lo illude,
Biancheggiar mira i suoi monti da lunge,
E affretta i venti, e per l'antica fama
Atlantide l’appella. In Elicona
Detta è palladio ciel, dacchè la santa
Palla-Minerva agli abitanti irata,
Che il suol fecondo e le promiscue nozze
Fean pigri all’Arti e sconoscenti a Giove,
Dentro Asia gli espulse, e l’aurea terra
Cinse di ciel soltanto aperto ai Numi.
Onde, qualvolta per furor di regno
Pugnano i prenci, o i popoli alla bella
Libertà danno umane ostie esecrate,
O danno a prezzo anima e brandi all’ire
Di tiranni stranieri, o a stolta impresa
Seguon avido sin che a sconosciute
Genti appresta catene e lutto a’ suoi;
Allor concede le Gorgoni a Marte
Pallade, e sola tien l’asta paterna
Con che i Duci precorre alla di difesa
Delle leggi e dell’are, e per cui splende
A’ magnanimi eroi sacro il trionfo.
Poi beata in quell’Isola s’asconde,
E le Dive minori alle gentili
Arti ammaestra: e quivi casti i balli,
Quivi i canti dolcissimi, e fiorita
Sempre a’ passi la terra, ed aureo ’l giorno,
E limpido ‘l notturno aere stellato.
      Corsero intorno le celesti alunne,
Come giunse, alla Diva. Ella a ciascuna
Compartì l’opre del promesso dono
(Era un velo) alle Grazie. Ognuna allegra
Agl’imperi obbedia: Pallade in mezzo
Colle azzurre pupille amabilmente
Signoreggiava il suo virgineo coro.
      Attenuando i rai aurei del sole,
Volgeano i fusi nitidi tre nude
ore, e del velo distendean l’ordito.
Venner le Parche di purpurei pepli
Avvolte il crin di quercia e di più trame
Raggianti, adamantine, al par dell’etra
E fluide e pervie e intatte mai da Morte,
Trame onde filan degli Dei la vita,
Le tre presaghe riempiean le spole.
Non men dell’altre innamorata, all’opra
Iri scese fra’ Zefiri; e per l’alto
Le vaganti accogliea lucide nubi
Gareggianti di tinte, e sul telajo
Piovea a Flora a effigiar quel velo:
E più tinte assumean, riso e fragranza,
E mille volti dalla man di Flora.
E tu, Psiche, sedevi, e spesso in core,
Senza aprir labbro, ridicendo: « Ahi, quante
Gioie promette e manda pianto Amore! »
Raddensavi col pettine la tela.
E allor faconde di Talia le corde,
E Tersicore Dea che a te dintorno
Fea tripudio di ballo e ti guardava,
Eran conforto a’ tuoi pensieri e all’opra.
Correa limpido insiem d’Erato il canto
Da que’ suoni guidato: e come il canto
Flora intendeva, si pingea con l’ago.
      « Mesci, odorosa Dea, rosee le fila;
» E per te in mezzo il sacro vel s’adorni
» Della imago di Psiche, or che perfetta
» Ha la sua tela e ti sorride in viso.
» Mortale nacque, e son più care in cielo
» Sue belle doti; e se a noi canta o danza,
» Se mesta siede o amabile sospira,
» Se talora alle fresche onde eliconie
» Gode i puri lavacri, atti e parole
» D’una venusta immortal luce abbella.
» Segga e carezzi il fanciulletto figlio
» Del Sonno, a cui le rose Amor sacrava
» Perchè in silenzio i furti suoi chiudesse;
» E sì gli additi in aurea nube il sogno
» Roseo, che sulla fresca alba di maggio
» Sovra dormente giovinetta aleggia,
» E la ripete susurrando i primi
» Detti d’amor che da un garzone udia.
      » Or mesci, industre Dea, varie le fila;
» E danzi a un lato dell’etereo velo
» Giovinezza. Suo coro, abbia le ardite
» Speranze ombrate d’amaranto eterno;
» E al suon d’un plettro che percote il Tempo
» La menin giù pel clivo della vita.
» A lei decenti accorrano le Grazie,
» E la cingarn di fiori, e quando il biondo
» Crin t’abbandoni e perderai ‘l tuo nome
» Vivran que’ fiori, o Giovinezza, e intorno
» L’urna funerea spireranno odore.
      » Mesci, o madre dei fior, lauri alle fila;
» Ed il contrario lato orna, ideando
» Levissima l’imagine del sogno
» Ch’a un dormente guerrier mandan le Grazie
» A rammentargli il suo padre canuto,
» Che solitario nella vota casa
» Spande lacrime e preci; e quei si desta.
» E i prigionieri suoi guarda e sospira.
       » Mesci, o Flora gentile, oro alle fila;
» E il terzo lembo istorïato esulti
» D’un festante convito: il Genio amici
» Ode gli augurj, e largamente in volta
» Pirme corona agli esuli le tazze.
» E faconda è la Gioja, e co’ Lepori
» Libera scherza, amabile è il Decoro.
» Qui l’Ironia che motti ama conditi
» Di riso e il ver dissimulando accenna:
» E qui la liberal candida Lode
» Va con lor favellando. A parte siede
» Bello il Silenzio, delle Grazie alunno
» Col dito al labbro, e l’altra mano accenna
» Che non volino i detti oltre le soglie.
      » Mesci, cerulee, Dea, mesci le fila;
» E pinta il lembo estremo abbia al barlume
» Di queta lampa, una solinga madre
» Sedente a studio della culla. E teme
» Non i vagiti del suo primo infante
» Sien presagi di morte; e in quell’errore
» Non manda a tutto il cielo altro che pianto.
» Lei mirano invisibili le Grazie.
» Beata! ancor non sa quanto agl’infanti
» Provvido è il sonno eterno; e que’ vagiti
» Presagi son di dolorosa vita. »
      Come d’Erato al canto ebbe perfetti
Flora i trapunti, ghirlandò l’Aurora
Gli aerei fluttuanti orli del peplo
De’ flor che ne’ celesti orti raccolse:
Ignoti fiori a noi; sol la fragranza
Se presso è un Dio, talor ne scende in terra.
Venne, fra tutte giovinette eterne
Bellissima la bionda Ebe, ravvolta
In mille nodi fra le perle i crini:
Tacitamente l’anfora converse
E dell’altre la vaga opra fatale
Rorò d’ambrosia; e fu quel velo eterno.
      Pallade il tolse, e scese; e le tre caste
Timide Grazie vide assise al lito
Di Mergellina Galatea chiamando.
Tendean le palme a.Galatea: « deh!, vieni
Colla tua conca, o nivea Galatea! »
Ed a loro il divin senno di Palla:
« Venere, o Grazie, più del bacio v’ama
Che Amor le dà: perciò v’insegue Amore
Invido, e non fanciul, come più spesso
Pare agli umani; ma d’Apollo assume
L’alta persona; ad Ercole la clava
Strappa dinanzi a Giove; e non ha l’ali,
Gli occhi bensì, che sospettosi intorno
Volteggia e intenti, minacciando - ed arde
Perchè dal crin sino alle piante è fiamma,
Ma pur, vergini Dee d’Amor sorelle
Creovvi il Fato; nè da lui potrei
Partirvi, nè il desia la Terra o il Cielo.
Ma qualor di sue fiamme arda l’Olimpo,
Arda il cor de’ mortali, e di voi, caste
Dive, a’ consigli e al lacrimar s’adiri,
Vi ricopra il mio velo; e sì raccolte,
Finchè nel furor suo freme e imperversa,
Siavi la reggia mia securo albergo.
Quindi ospiti improvvise all’elegante
Pittor scendete, e il vostro ingenuo riso
Dolce un decoro pioverà alla tela;
Nitido il verso suonerà al Poeta,
Se voi l’udrete; e lo scalpel sul marmo
Scorrerà facilissimo, spontaneo,
Purchè raggiate su quel marmo i guardi:
Così d’amore oblio l’Arti saranno. »
      Taceva: e già l’invïolabil velo
Che circonda le Dee manda improvviso
Suon quasi di lontana arpa, scorrente
Sulle penne de’ zeffiri; soave
E mesto al par dell’armonia che diede
D’Orfeo la Lira, allor che al sacro capo
Dalle Baccanti di Bistonia infissa,
Venne nell’alto Egeo spinta da’ monti;
E un’armonia sonò tutto quel mare,
E l’isole l’udiano e il continente.
Pur nè vate giammai, nè arguta corda
Di lidia cantatrice o legge o nome
Diè a quel suono fatal. Così velate,
Sdegnan le Dee mostrarsi a chi l’arcano
Tenta spiar della immortal bellezza.
Con profano pensiero. E ne fa saggi
Di questo avviso Eufrosine, cantando
Flebile un carme che da Febo un giorno
Sotto le palme di Cirene apprese:
E tu l’odi, o Canova, e in cor lo serba.
      Innamorato, nel pïerio fonte
Mirò Tiresia giovinetto i fulvi
Capei di Palla, liberi dall’elmo,
Coprir le rosee disarmate spalle;
Sentì l’aura celeste, e mirò l’onde
Lambire a gara della Diva il piede,
E spruzzar riverenti e paurose
La sudata cervice e il casto petto,
Che i lunghi crin discorrenti dal collo
Coprian, siccome li moveano l’aure.
Ma nè più salutò dalle natie
Cime eliconie il cocchio aureo del Sole.
Nè per la coronèa selva adorata
Guidò a’ ludi i garzoni, o alle carole
Le anfionie fanciulle; ed insultanti
Delle sue frecce immemori le lepri.
Gli trescavano attorno, e i capri e i cervi
Tenean securi le beate valli
Chè non più il dardo suo dritto fischiava
Però che la divina ira di Palla
Al cacciator col cenno onnipossente
Avvinse i lumi di perpetua notte.
Tal destino è ne’ fati. Ah! senza pianto
L’uomo non vede la beltà celeste. -
      Addio, Grazie! son vostri, e non verranno
Soli quest’Inni a voi, nè il vago rito
Obliererno di Firenze a’ poggi
Quando ritorni April. L’arpa dorata
Di novello concento adorneranno,
Disegneran più amabili carole
Le tre avvenenti Ancelle vostre all’ara:
E il fonte, e la frondosa ara, e i cipressi,
E i favi, e i serti vi fien sacri, e i cigni.
E delle ninfe il coro e de’ garzoni.
      Ma intanto udite, o Vergini divine
D’ogni arcano custodi, un prego udite,
Ch’io dal sacrario del mio petto innalzo.
Date candidi giorni a lei che sola
Quando più lieti mi fioriano gli anni,
Il cor m’accese d’immortale amore,
Poi che la sua beltà tutta m’aperse
La beltá vostra. Nè il mio labbro mai
Osò chiamare il nome suo; nè grave
Mi fu nudrir di muto pianto il duolo
Per lei nel lungo esilio. Ed ella sola
Secretamente spargerà le chiome
Sovra il sepolcro mio; quando lontano
Non prescrivano i Fati anco il sepolcro.
Confortatela, o Grazie, or che non vive,
Qual pria, felice: i balli e le fanciulle
Di nera treccia insigni e di sen colmo,
Sul molle clivo di Brianza, adorna
Di giovenile rosëo candore,
Guidar la vidi: oggi le vesti allegre
Obliò mesta e il suo vedovo coro.
E, se alla Luna e all’etere stellato
Scintillando più azzurro Eupili ondeggia,
Il guarda avvolta in lungo velo, e plora
Coll’usignuol, finchè l’Aurora il chiami
A men soave tacito lamento.
Deh! nel lume ravvolte aureo dell’Alba
A lei movete, o belle Grazie, intorno;
E nel mirarvi, o Dee, tornino i grandi
Occhi fatali al lor natio sorriso.

 
 
 
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E-mail: Giuseppe Bonghi @mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 20 dicembre 1998