Ugo Foscolo

Le Grazie
[Edizione Orlandini 1848]
[In collaborazione con la Donna Gentile]

  

Hic triplex uno comitatur Gratia nexu.

Sidon. Apollinar. Car. IX.

Pei giovani assento di pubblicare alcune note al mio Poema; ma se non avessi temuto di parere ingrato a' consili altrui, avrei volentieri abbandonati i versi senza interpretazione veruna, rassegnandomi al biasimo che mi merito da' lettori, se io, mentre pensava adornare col velo poetico i miei pensieri, li ho fatti, come altre volte fui tacciato, più oscuri.

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INNO PRIMO

VENERE

 Carme  ad  ANTONIO CANOVA 

Alle Grazie immortali
         Le tre di Citerea figlie gemelle,
         È sacro il tempio, e son d'Amor sorelle;
Nate il dì che a' mortali
         Beltà, ingegno, virtù concesse Giove;
         Onde perpetue, sempre e sempre nuove
Le tre doti celesti,
         E più lodate e più modeste ognora
         Le Dee serbino al mondo. Entra ed adora

 INNO PRIMO 

      Cantando, o Grazie, degli eterei pregi
Di che il cielo v'adorna, e della gioja
Che vereconde, voi date alla terra,
Belle vergini! a voi chieggio l'arcana
Armoniosa melodia pittrice
Della vostra beltà, sì che all'Italia
Afflitta di regali ire straniero
Voli improvviso, a rallegrarla, il carme.
      Nella convalle fra gli aerei poggi
Di Bellosguardo, ov'io, cinta d'un fonte Limpido, fra le quete ombre di mille
Giovinetti cipressi, alle tre Dive
L'ara innalzo (e un fatidico laureto
In cui men verde serpeggia la vite,
La protegge di tempio) al vago rito
Vieni, o Canova, e agi inni. Al cor men fece
Dono la bella Dea che tu sacrasti
Qui sull'Arno alle belle Arti custode;
Ed ella d'immortal lume e d'ambrosia
La santa imago sua tutta precinse.
Forse (o ch'io spero!) artefice di Numi,
Nuovo meco darai spirto alle Grazie
Ch'or di tua mano escon del marmo. Anch'io
Pingo e spiro a' fantasmi anima eterna:
Sdegno il verso che suona e che non crea
Perchè Febo mi disse: Io, Fidia, primo,
Ed Apollo guidai colla mia lira.
      Eran l'Olimpo e il Fulminante e il Fato
E del tridente enosigèo tremava
La genitrice Terra: Amor dagli astri
Pluto feria; nè ancora eran le Grazie.
Una Diva scorrea lungo il creato
A fecondarlo, e di Natura avea
L'austero nome: fra' Celesti or gode
Di cento troni; e con più nomi ed are
Le dan rito i mortali, e più le giova
L'inno che bella Citerea la invoca.
Perchè, elemento a noi che mirò afflitti
Travagliarci e adirati, un dì la santa
Diva, all'uscir de' flutti ove s'immerse 40
A ravvivar le gregge di Neréo,
Apparì colle Grazie; e le raccolse
L'onda jonia primiera, onda che, amica
Del lito ameno e dell'ospite museo,
Da Citera ogni dì vien desïosa
A' materni miei colli. - Ivi fanciullo
La deità di Venere adorai.
      Salve, Zacinto! All'antenoreo prode,
De' santi Lari idei ultimo albergo
E de' miei padri, darò i carmi e l'ossa,
E a te i pensier; chè pïamente a queste
Dee non favella chi la patria oblia.
Sacra città è Zacinto! Eran suoi templi,
Era ne' colli suoi l'ombra de' boschi
Sacri al tripudio di Dïana e al coro,
Nè ancor Neuttuno al reo Laomedonte
Muniva Ilio di torri inclite in guerra.
Bella è Zacinto! A lei versan tesori.
L'angliche navi; a lei dall'alto manda
I più vitali rai l'eterno Sole;
Limpide nubi a lei Giove concede,
E selve ampie d'ulivi, e liberali
I colli di Lieo: rosea salute
Spirano l'aure, del felice arancio
Tutte odorate, e de' perpetui cedri.
        Tacea splendido il mar, poi che sostenne,
Sulla conchiglia assise e vezzeggiate
Dalla Diva, le Grazie: e a sommo il flutto,
Quante alla prima prima aura di Zeffiro
Le frotte delle vaghe api prorompono,
E Più e più succedenti invide ronzano
A far lunghi di sè aerei grappoli;
Vanno aliando su' nettarei calici,
E del mèle futuro in cor s'allegrano;
Tante a fior dell'immensa onda raggiante
Ardian mostrarsi a mezzo il petto ignude
Le amorose Nereidi oceanine;
E a drappelli agilissime seguendo
La Gioja alata, degli Dei foriera
Gittavan perle, delle ingenue Grazie
Il bacio le Nereidi sospirando.
      Poi, come l'orme della Diva e il riso
Delle vergini sue fer di Citera
Sacro il lito, un'ignota violetta
Spuntò al piè de' cipressi; e d'improvviso
Molte purpuree rose amabilmente
Si conversero in candide. - Fu quindi
Religïone di libar col latte
Cinto di bianche rose, e cantar gl'inni
Sotto a’ cipressi, ed offerire all'ara
Le perle e il fiore messagger d'Aprile.
      Ma chi de' Numi esercitava impero
Sugli uomini ferini, e quai rninistri
Aveva in terra, il primo di che al mondo
Le belle Dive Citerea concesse?
Alta ed orrenda n'è la storia; e noi
Quaggiù fra le terrene ombre vaganti,
Dalla Fama n'udiam timido avviso.
Abbellitela or voi, Grazie, che a tutto
Siete presenti e, Dee, tutto sapete.
      Quando i pianeti dispensò a' Celesti
Giove padre, il più splendido ei s'elesse,
E tocco in sorte a Citerea '1 più bello,
E l'altissimo a Pallade; e le genti
Di que' mondi beate abitatrici
Sentir l'imperio del lor proprio Nume,
Ma da' Celesti rimanea negletto
Il picciol globo della Terra - e, nati
Alle prede i suoi figli ed alla guerra,
E dopo breve dì sacri alla morte,
va van tutti colle belve all'ombra
Della gran selva della terra: e gli antri
Eran tetto, e i sepolcri erano altari;
E col sangue di vergini innocenti
Placavan l'aspre Deità d'Averno,
Alle menti atterrite unico Nume. -
Non prieghi d'inni o danze d'imenei,
Ma di veltri perpetuo ululato
Tutta l'isola udia, quindi; e di dardi
Correa dagli archi un suon lungo sull'aure,
E il provocato fremito di belve
Minaccianti e degli uomini la pugna
Sulle membra del vinto orso rissosi,
E de' piagati cacciatori il grido.
Cerere invan donato avea l'aratro
A que' feroci: invan d'oltre l'Eufrate
Chiamò un di Bassaréo giovine Dio
A ingentilir i pampini le balze.
Il pio strumento irrugginìa su' brevi
Solchi, deserto; divorata, innanzi
Che i grappoli novelli imporporasse
A' rai d'autunno, era la vite. E quando
Ripassò col suo coro il giovin Dio,
il fremir delle tigri, all'immortale
Cocchio ministre, que' feroci a nuova
Rabbia di guerra concitava. Solo
Quando apparian le Grazie, i cacciatori,
E le donne e le vergini, e i fanciulli
L'arco e '1 terror deponeano, ammirando.
      L'una tosto alla madre col gemmato
Pettine asterge mollemente e intreccia
Le chiome di marina onda stillanti;
L'altra sorella a' Zeffiri consegna,
A rifiorirle i prati a primavera,
L'ambrosio umore ond'è irrorato il seno
Della figlia di Giove: vereconda
La terza ancella ricompone il peplo
Sulle membra divine, e le contende
Di que' Selvaggi attoniti al desio.
      Con mezze in mar le rote era frattanto
La conchiglia sul lito, ove, tendendo
Alte le braccia, la spingean Ie belle
Nettunine. Spontanee s'aggiogarono
Alla biga gentil due delle cerve,
Che ne' boschi dittei, prive di nozze,
Cinzia a' freni educava; e poi che dome
Aveale a’ cocchi suoi, pasceano immuni
Da mortale saetta. Ivi per sorte,
Vagolando ribelli, eran venute ,
Le avventurose; e corsero ministre
Al viaggio di Venere. Improvvisa
Iri, che segue i Zeffiri col volo,
S'assise auriga, e drizzò '1 corso all'istmo
Del laconio paese. Ancor disgiunta
Dal continente l'isola non era,
Nè tutta sola di quel golfo intorno
Sedea regina: e dove oggi da lunge
L'agricoltor lacone, ardere i fochi
Mira, se al pescator buia è la notte,
Pendea negra una selva. Esilïato
N'era ogni Dio da' figli della terra
Duellanti a predarsi; i vincitori
D'umane carni s'imbandian le cene.
      Videro il cocchio e misero un ruggito,
Palleggiando la clava. Al petto strinse,
Sotto il suo manto accolte le gementi
Sue giovinette, e: O selva, ti sommergi!
Venere disse; e fu sommersa - Ah, tali
Forse eran tutti i primi avi dell'uomo!
Quindi in noi serpe, miseri un natio
Delirar di battaglie: e se pietose
Nol placano le Dee, truce riarde
A coprir di cadaveri la terra.
Ch'io non li veggia almeno or che insepolti
Per le campagne tue giacciono, o Italia!
      A noi, Dee, rifuggite; a noi fra queste
Ombre accolti, e a quest'ara; e serenate
L'asilo vostro, finchè forse un giorno
In più splendida. reggia, e con solenni
Riti la Patria mia possa adorarvi.
Lieta allor fia, pari alla Grecia, innanzi
Che onnipossente il Fato ogni felice
Vostro favor le invidiasse. - Or mentre
Procedeano le Grazie il doloroso
Premio de' lor vicini arti più miti.
Persuase a' Laconi. E dove in prima
Di burroni infecondo e di fumanti
Spelonche aperte da Vulcano, e ignoto
Per lo mare intentato era quel regno,
Al venir delle Dee fu pieno d'are
Ospitali, e di cólti, e di beate
Città: vide le pompe, e le amorose
Gare, e i regj conviti; e d’ogni parte
Correan d'Asia i guerrieri e i prenci argivi
Alla reggia di Leda.-Ah, non ti fossi
Irato, Amore! e ben di te sovente
lo mi dorrò, dacchè le Grazie affliggi.
Per te, all'arti eleganti, ed a’ felici
Ozj, lascivie sottentraro, e molli
Ozj, e spergiuri a' Greci: indi la dura
Vita, e nude a sudar nella palestra
Le maschili fanciulle, onde salvarsi,
Amor, da te. Ma quando eri peranco
Alle Grazie non invido fratello,
Non a più lieta il Sol nè a più gentile
Terra splendeva. Qui di Fare il golfo
Riscintillante placido alla Luna,
Cinto d'armoniosi antri a' delfini:
Qui Sparta e le fluenti dell'Eurota
Gradite al cigni; e Mêssa offria securi
Ne' suoi boschetti alle tortore i nidi:
Qui d'Augia '1 pelaghetto, inviolato
Al pescator, dacché di mirti ombroso
Era lavacro al bel corpo di Leda,
E della sua figlia divina. Amicla,
Terra di fiori, non bastava ai serti
Delle vergini spose: d'ogn'intorno
Venian cantando i giovani alle nozze.
Non dei destrieri nitidi l'ambre
Li rattenne; non Laa che, tra tre monti,
Ama le cacce e i riti di Diana,
Nè la ricca di pesci elòa marina;
E non lungi è Briséa, donde il propinquo
Taigeto udiva strepitar l'arcano
Tripudio e i riti onde il femineo coro
Placò Lieo e intercedean le Grazie.
      Scendean pur lietamente inghirlandati
Da Daulide i Focesi, e da Pitone
Sacra a veder sulle parnasie rupi;
E chi mirò imperterrito i torrenti
Di Panopéa versare onde e macigni,
E udì in Anemorea Borea fremente;
E chi abitò Jampoli antica, e quanti
Lunghesso i bei meandri del Cefiso
Pascolavan gli armenti, o da Lilea
Nascer vedean del divin fiume i gorghi.
      Ma dove, o caste Dee, ditemi dove
La prima ara vi piacque, onde, se invano
Or la chieggio alla terra, almen l'antiqua
Religïone del bel loco io senta.
      D'Iride al cenno d'una rosea nebbia
Tutte velate, procedendo all'alto
Dorio che di lontan gli Arcadi vede,
Le Dive mie vennero a Trio. L'Alfeo
Arretrò l'onda, e diè a lor passi il guado
Che anch'oggi il pellegrin varca ed adora.
Fe manifesta quei portento a' Greci
La deità; sentirono da lungo
Odorosa spirar l'aura celeste.
      De' Beóti al confin siede Aspledóne,
Città che l'aureo Sol veste di luce
Quando riede all'occaso: e non lontano
Sta sulla immensa minïea.pianura
La beata Orcoméno: ivi più caro
Ebber l'altare, quando allora il primo,
Da fanciulle alternato e da garzoni,
Cantico sacro udirono le Grazie.
      E pria l'intese dalle Dee la bionda
Ifianéa, che stava alle pendici
Adorando. Nè poi quella fanciulla
Destò corde di lira, o all'aure sciolse
L'amabil canto a raccontar suoi guai
E i beneficj delle Dee, che a tutti
Che ad udirla accorrean non provocasse
Soavissimi gemiti dal core.
Sventurata! piangetela donzelle;
Vergine sventurata! Arcade ell'era,
E di Tessalo amante; e l'amò pria
Che sì bello e gentile il conoscesse
E spesso al canto ei l'invitava, e spesso
Su' labbri il canto le rompea co' baci.
Già vicina alle sue nozze, beata
Le ghirlande apprestava; e le fu spento.
Senza lacrime a terra muta cadde;
Ma le Grazie l'accolsero morente
Nelle pietose braccia, ed una nuova
Aura di vita le spiràr. La mesta
Non sciolse il cinto; e, finchè lei sotterra
Non chiamò Cloto a riveder l'amante,
All'altar delle Dee consolatrici
Sacrò gl'inni e il dolor, vergin ancella.
Udì Cipria que' Cori, e disvelossi;
E quanti allor garzoni e giovinette
Vider la Deità, furon beati.
E di Driadi col nome e di Silvani
Fur compagni di Febo. Infra le Muse
Scherzar ne’ fonti suoi vedeali Imetto,
E ne' suoi colli il Tebro. Oggi, le umane
Orme temendo, e de' poeti il vulgo,
Che con lira straniera, evocatrice
Di fantastiche larve, a sè li chiama,
Invisibili e muti nelle selve
Celansi: come quando esce un'Erinni
A gioir delle terre arse dal verno,
Maligna, e lava le sue membra a' fonti
Dell'Islanda esecrati, ove più occulte
Fuman sulfuree l'acque; e a putreolenti
Laghi lambiti da cerulee vampe,
La teda alluma, e al ciel sublime aspira.
Finge, perfida, in pria roseo splendore,
E lei delusi appellano col vago
Nome di boreale Alba i mortali,
Quella freme, e le nuvole in Chimere
Orrende, e in imminenti armi converte,
Fiammeggianti; e calare odi per l'aere
Dal muto nembo l'aquile agitate,
Che veggion nel lor regno angui, e sedenti
Leoni, ed ululanti ombre di lupi.
Inondate di sangue errano al guardo
Delle genti le stelle, e van gittando
Squallidi raggi per l'etereo caos.
Tutta d'incendio la celeste volta
S'infiamma, e sotto a quella infausta luce
Rosseggia immensa l'iperborea terra.
Quindi l'invida Dea gl'inseminati
Campi mira, e l'Oceano conteso
Tutto a' nocchier dal gelo: ed oggi forse
Per la Scizia calpesta armi e vessilli,
E d'itali guerrier corpi incompianti!
      Poscia che, colle figlie, ebbe la Diva
Tutte del nume suo fatte più miti
Le contrade di Grecia, alla sdegnosa
Diana, Iride, il cocchio e mansuete
Le cerve addusse, amabil dono, in Creta:
E Cinzia sempre fu alle Grazie amica,
E ognor con esse fu tutela al core
Delle ingenue fanciulle, ed agl'infanti.
      Quattro volte l'Aurora era salita
Sull'orïente a rivedèr le Grazie
Dacchè nacquero al mondo; e Giano antico,
Padre d'Ausonia, e l'itala Anfitrite
Inviavan lor doni, e un drappelletto
Di Najadi e fanciulle eridanine
E quante i pomi- d'Anïene, e i fondi
Godean d'Arno e di Tebro, e quante Ninfe
Avea '1 mar d'Aretusa, e le guidavi
Tu più che giglio nivea Galatea.
      Ma non che ornar di canto, e chi può mai
Ridir l'opre de' Numi? Impaziente
Il vagante Inno mio fugge ove incontri
Grazïose le genti ad ascoltarlo:
Pur non so dirvi, o belle Suore, addio
E mi detta più alteri inni il pensiero.
Ma dove or io vi seguirò, se il Fato,
Ah! da gran tempo omai profughe in terra,
Alla Grecia vi tolse, e se l'Italia
Che v' è patria seconda, i doni vostri,
Misera! ostenta e il vostro nume oblia?
Pur molti ingenui de' suoi figli ancora
A voi tendon le palme. Io, finchè viva
Ombra daran di Bellosguardo i lauri,
Ne farò tetto all'ara vostra, e offerta
Di quanti pomi educa l'anno e quante
Fragranze ama destar l'Alba d'aprile.
E il fonte, e queste pure aure, e i cipressi,
E secreto il mio pianto, e la sdegnosa
Lira, e i silenzi vi fien sacri, e l'Arti.
Fra l'Arti io coronato e fra le Muse,
Alla Patria dirò come indulgenti
Tornaste ospiti a lei, sì che più grata,
In più splendida reggia e con solenni
Pompe v'onori. Udrà come redenta
Fu per opra di voi quando sull'Arno
Pose Vesta il suo fuoco, e poi Minerva
Gli concesse per voi l'attico ulivo.
Venite, o Dee; spirate, o Dee; spandete
La deità materna! e nuovamente
Deriveranno l'armonia gl'ingegni
Dall'Olimpo in Italia: e da voi solo,
Nè dar premio potete altro più bello,
Sol da voi chiederem, Grazie, un sorriso
 
 
 
 
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Ultimo aggiornamento: 20 dicembre 1998