Ugo Foscolo
Le Grazie
[Edizione Chiarini 1904]
INNO PRIMO
VENERE
Carme ad ANTONIO CANOVA
Alle Grazie immortali |
INNO I
Venere
[Protasi] Cantando, o Grazie, degli eterei pregi Di che il cielo v'adorna, e della gioja Che vereconde voi date alla terra, Belle vergini! a voi chieggo l'arcana Armonïosa melodia pittrice Della vostra beltà; sì che all'Italia Afflitta di regali ire straniere Voli improvviso a rallegrarla il carme. [Dedica] Nella convalle fra gli aerei poggi Di Bellosguardo, ov'io cinta d'un fonte Limpido fra le quete ombre di mille Giovinetti cipressi alle tre Dive L'ara innalzo, e un fatidico laureto In cui men verde serpeggia la vite La protegge di tempio, al vago rito Vieni, o Canova, e agl'inni. Al cor men fece Dono la bella Dea che in riva d'Arno Sacrasti alle tranquille arti custode; Ed ella d'immortal lume e d'ambrosia La santa immago sua tutta precinse. Forse (o ch'io spero!) artefice di Numi, Nuovo meco darai spirto alle Grazie Ch'or di tua man sorgon dal marmo. Anch'io Pingo e spiro a' fantasmi anima eterna: Sdegno il verso che suona e che non crea; Perché Febo mi disse: Io Fidia primo Ed Apelle guidai con la mia lira. [Origine e lodi a Citera e Zacinto] Eran l'Olimpo e il Fulminante e il Fato, E del tridente enosigeo tremava La genitrice Terra; Amor dagli astri Pluto feria: né ancor v'eran le Grazie. Una Diva scorrea lungo il creato A fecondarlo, e di Natura avea L'austero nome: fra' celesti or gode Di cento troni, e con più nomi ed are Le dan rito i mortali; e più le giova L'inno che bella Citerea la invoca. Perché clemente a noi che mirò afflitti Travagliarci e adirati, un dì la santa Diva, all'uscir de' flutti ove s'immerse A ravvivar la gregge di Nerèo, Apparì con le Grazie; e le raccolse L'onda Jonia primiera, onda che amica Del lito ameno e dell'ospite musco Da Citera ogni dì vien desiosa A' materni miei colli: ivi fanciullo La Deità di Venere adorai. Salve, Zacinto! all'antenoree prode, De' santi Lari Idei ultimo albergo E de' miei padri, darò i carmi e l'ossa, E a te il pensier; chè piamente a queste Dee non favella chi la patria obblia. Sacra città è Zacinto. Eran suoi templi, Era ne' colli suoi l'ombra de' boschi Sacri al tripudio di Dïana e al coro; Pria che Nettuno al reo Laomedonte Munisse Ilio di torri inclite in guerra. Bella è Zacinto. A lei versan tesori L'angliche navi; a lei dall'alto manda I più vitali rai l'eterno sole; Candide nubi a lei Giove concede, E selve ampie d'ulivi, e liberali I colli di Lieo: rosea salute Prometton l'aure, da' spontanei fiori Alimentate, e da' perpetui cedri. [Nereidi[ Splendea tutto quel mar quando sostenne Su la conchiglia assise e vezzeggiate Dalla Diva le Grazie: e a sommo il flutto, Quante alla prima prima aura di Zefiro Le frotte delle vaghe api prorompono, E più e più succedenti invide ronzano A far lunghi di sé aerei grappoli, Van alïando su' nettarei calici E del mèle futuro in cor s'allegrano, Tante a fior dell'immensa onda raggiante Ardian mostrarsi a mezzo il petto ignude Le amorose Nereidi oceanine; E a drappelli agilissime seguendo La Gioja alata, degli Dei foriera, Gittavan perle, dell'ingenue Grazie Il bacio le Nereidi sospirando. [Primi portenti delle rose bianche] Poi come l'orme della Diva e il riso Delle vergini sue fer di Citera Sacro il lito, un'ignota violetta Spuntò a' piè de' cipressi; e d'improvviso Molte purpuree rose amabilmente Si conversero in candide. Fu quindi Religïone di libar col latte Cinto di bianche rose e cantar gl'inni Sotto a' cipressi ed offerire all'ara Le perle e il fior messagger d'Aprile. [La Dea ornata] L'una tosto alla Dea col radïante Pettine asterge mollemente e intreccia Le chiome di marina onda spumanti; L'altra sorella a Zefiri concede, A rifiorirle i prati a primavera, L'ambrosio umore ond'è irrorato il petto Della figlia di Giove; vereconda La terza ancella ricompone il peplo Su le membra divine, e le contende Di que' selvaggi attoniti al desio. [Cacciatori] Non prieghi d'inni o danze d'imenei, Ma di veltri perpetuo l'ululato Tutta l'isola udia, e un suon di dardi, E gli uomini sul vinto orso rissosi, E de' piagati cacciatori il grido. Cerere invan donato avea l'aratro A que' feroci; invan d'oltre l'Eufrate Chiamò un dì Bassarèo, giovine Dio, A ingentilir di pampini le balze: Il pio strumento irrugginia su' brevi Solchi sdegnato; e divorata innanzi Che i grappoli recenti imporporasse A' rai d'autunno, era la vite: e solo Quando apparian le Grazie, i predatori E le vergini squallide, e i fanciulli L'arco e 'l terror deponean, ammiranti. [Cannibali] Con mezze in mar le rote iva frattanto Lambendo il lito la conchiglia, e al lito Pur con le braccia la spingean le molli Nettunine. Spontanee s'aggiogarono Alla biga gentil due delle cerve Che ne' boschi dittei schive di nozze Cintia a' freni educava; e poi che dome Aveale a' cocchi suoi, pasceano immuni Di mortale saetta. Ivi per sorte Vagolando fuggiasche eran venute Le avventurose, e corsero ministre Al viaggio di Venere. Improvvisa Iri che segue i Zefiri col volo S'assise auriga, e drizzò il corso all'istmo Del Laconio paese. Ancor Citera Del golfo intorno non sedea regina; Dove or miri le vele alte sull'onda Pendea negra una selva, ed esiliato N'era ogni Dio da' figli della terra Duellanti a predarsi: i vincitori D'umane carni s'imbandian convito. Videro il cocchio e misero un ruggito, Palleggiando la clava. Al petto strinse Sotto il suo manto accolte, le gementi Sue giovinette, e: O selva ti sommergi; Venere disse, e fu sommersa. Ahi tali Forse eran tutti i primi avi dell'uomo! Quindi in noi serpe, ahi miseri, un natio Delirar di battaglia, e se pietose Nel placano le Dee, spesso riarde Ostentando trofeo l'ossa fraterne. Ch'io non le veggia almeno or che in Italia Fra le messi biancheggiano insepolte! [LAmore e la Paura] Ma chi de Numi esercitava impero Su gli uomini ferini, e quai ministri Aveva in terra il primo dì che al mondo Le belle Dive Citerea concesse? Alta ed orrenda nè la storia; e noi Quaggiù fra le terrene ombre vaganti Dalla fama nudiam timido avviso. Abbellitela or voi, Grazie che siete Presenti a tutto, e Dee tutto sapete | . Quando i pianeti dispensò agli Dei Giove padre, il più splendido ei selesse, E toccò in sorte a Citerea il più bello, E laltissimo a Pallade, e le genti Di quei mondi beate abitatrici Sentìr limperio del lor proprio Nume. Ma senza Nume rimanea negletto Il picciol globo della terra, e nati Alle prede i suoi figli ed alla guerra, E dopo breve dì sacri alla morte | . . . . . . . . . . . . . . . . . . . [Sparta] Il bel cocchio vegnente, e il doloroso Premio de' lor vicini arti più miti Persuase a' Laconi. Eran da prima Per l'intentata selva e l'oceàno Dalla Grecia divisi; e quando eretta Agli ospitali Numi ebbero un'ara, Vider tosto le pompe e le amorose Gare e i regi conviti; e d'ogni parte Correan d'Asia i guerrieri e i prenci argivi Alla reggia di Leda. Ah non ti fossi Irato Amor! e ben di te sovente Io mi dorrò dacché le Grazie affliggi. Per te all'arti eleganti ed a' felici Ozi per te lascivi affetti, e molli Ozi, e spergiuri a' Greci, e poi la dura Vita, e nude a sudar nella palestra le fanciulle . . . . onde salvarsi Amor da te. Ma quando eri per anche Delle Grazie non invido fratello Sparta fioriva. Qui di Fare il golfo Cinto d'armonïosi antri a' delfini Qui Sparta e le fluenti dell'Eurota Grate a' cigni; e Messene offria secura Ne' suoi boschetti alle tortore i nidi; Qui d'Augìa 'l pelaghetto, inviolato Al pescator, da che di mirti ombrato Era lavacro al bel corpo di Leda E della sua figlia divina. E Amicle Terra di fiori non bastava ai serti Delle vergini spose; dal paese Venian cantando i giovani alle nozze. Non de' destrieri nitidi l'amore Li rattenne, non Laa che fra tre monti Ama le caccie e i riti di Dïana, Né la maremma Elea ricca di pesce. E non lunge è Brisea, donde il propinquo Taigeto intese strepitar l'arcano Tripudio, e i riti, onde il femmineo coro Placò Lieo, e intercedean le Grazie. [Arcadia e Pane] * * * * * * * * * * [Calliroe e Ifianeo] * * * * * * * * * * [Lara] Ma dove, o caste Dee, ditemi dove La prima ara vi piacque, onde se invano Or la chieggio alla terra, almen l'antica Religïone del bel loco io senta. Tutte velate, procedendo all'alta Dorio che di lontan gli Arcadi vede, Le Dive mie vennero a Trio: l'Alfeo Arretrò l'onda, e die a lor passi il guado Che anc'oggi il pellegrin varca ed adora. Fe' manifesta quel portento a' Greci La Deità; sentirono da lunge Odorosa spirar l'aura celeste. [Beozia intera] De' Beoti al confin siede Aspledone: Città che l'aureo sol veste di luce Quando riede all'occaso; ivi non lunge Sta sull'immensa minïea pianura La beata Orcomeno, ove il primiero Dalle ninfe alternato e da' garzoni, Amabil inno udirono le Grazie. * * * * * * * * * * * [Inno] Così cantaro; e Citerea svelossi, E quanti allor garzoni e giovinette Vider la Deità furon beati, E di Driadi col nome e di Silvani Fur compagni di Febo. Oggi le umane Orme evitando, e de' poeti il volgo, Che con lira inesperta a sé li chiama, Invisibili e muti per le selve Vagano. Come quando esce un'Erinne A gioir delle terre arse dal verno, Maligna, e lava le sue membra a' fonti Dell'Islanda esecrati, ove più tristi Fuman sulfuree l'acque; o a groelandi Laghi lambiti di [sulfuree] vampe, La teda alluma, e al ciel sereno aspira; Finge perfida pria roseo splendore, E lei deluse appellano col vago Nome di boreale alba le genti; Quella scorre, le nuvole in Chimere Orrende, e in imminenti armi converte Fiammeggianti; e calar senti per l'aura Dal muto nembo l'aquile agitate, Che veggion nel lor regno angui, e sedenti Leoni, e ulular l'ombre de' lupi. Innondati di sangue errano al guardo Della città i pianeti, e van raggiando Timidamente per l'aereo caos; Tutta d'incendio la celeste volta S'infiamma, e sotto a quell'infausta luce Rosseggia immensa l'iperborea terra. Quinci l'invida Dea gl'inseminati Campi mira, e dal gel .... oceano A' nocchieri conteso; ed oggi forse Per la Scizia calpesta armi e vessilli, E d'itali guerrier corpi incompianti. | . . . . . . . . E giunte Le Dive appiè de monti, alla sdegnosa Diana Iride il cocchio e mansuete Le cerve addusse, amabil dono, in Creta. Cintia fu sempre delle Grazie amica, E ognor con esse fu tutela al core Dellingenue fanciulle ed aglinfanti. Quelle intanto radean lievi le falde [Viaggio in Olimpo] DOlimpo irriguo di sorgenti, Or quando Fur più al cielo propinque, ove diversa Luce le vette al sacro monte asperge, E donde sembran tutte auree le stelle, Alle vergini sue, che la seguieno, Mandò in core la Dea queste parole: Assai beato, o giovinette, è il regno De' celesti ov'io riedo; allinfelice Terra ed a' figli suoi voi rimanete Confortatrici: sol per voi sovr'essa Ogni lor dono pioveranno i Numi: E se vindici fien più che clementi, Anzi al trono del padre io di mia mano Guiderovvi a placarli. Al partir mio Tale udirete un'armonia dall'alto, Che diffusa da voi farà più miti De viventi i dolori. Ospizio amico, Talor sienvi gli Elisi: e sorridete A' vati, se cogliean puri l'alloro, Ed a' prenci indulgenti ed alle pie Giovani madri che a straniero latte Non concedean gl'infanti, e alle donzelle Che occulto amor trasse innocenti al rogo, E a' giovinetti per la patria estinti. Siate immortali. Disse e le mirava E degli sguardi diffondea sovresse Sovra il lume delleterna Aurora. Poi dun suo bacio confortò le meste Vergini sue che la seguian cogli occhi E li velava il pianto; e lei dall'alto Vedean appena, e questa voce udiro: Daranno a voi dolor novelli i Fati E gioia eterna. E sparve; e trasvolando Due primi cieli, si cingea del puro nel puro Lume dell'astro suo. L'udì Armonia, E giubilando l'etere commosse. Chè quando Citerea torna a' beati Cori, Armonia su per le vie stellate Move plauso alla Dea pel cui favore Temprò un dì l'universo . . . . . . [Arti derivanti dallarmonia] Come nel chiostro vergine romita, Se gli azzurri del cielo, e la splendente Luna, e il silenzio delle stelle adora, Sente il Nume, ed al cembalo s'asside, E dei piè e delle dita e dell'errante Estro e degli occhi vigili alle note Sollecita il suo cembalo ispirata, Ma se improvvise rimembranze Amore In cor le manda, scorrono più lente Sovra i tasti le dita, e d'improvviso Quella soave melodia che posa Secreta ne' vocali alvei del legno, Flebile e lenta all'aure s'aggira; Così l'alta armonia che . . . . . . . . . . Discorreva da' Cieli . . . . . . . . . . . . | Udiro intente Le Grazie; e in cor quell'armonia fatale Albergàro, e correan o per la terra | A spirarla a' mortali. E da quel giorno Dolce ei sentian per l'anima un incanto, Lucido in mente ogni pensiero, e quanto Udian essi o vedean vago e diverso Dilettava i lor occhi, e ad imitarlo Prendean industri e divenia più bello. Quando l'Ore e le Grazie di soave Luce diversa coloriano i campi, E gli augelletti le seguiano e lieto Facean tenore al gemere del rivo E de' boschetti al fremito, il mortale Emulò que' colori; e mentre il mare Fra i nembi, o l'agitò Marte fra l'armi, Mirò il fonte, i boschetti, udì gli augelli Pinti, e godea della pace de' campi. | Ma se di . . . . foreste e fianchi Rudi dalpe, e masse ferree immani Al braccio de Ciclopi, ed alle . . . . Che per golfi di laghi e dalleccelso Atos le addusse a fondar tempio ai Numi Che tardo ceda al muto urto del tempo, Venian tosto le Grazie, ed al secreto Suon che intorno invisibili spandeano, . . . . . . . . . . . le fatiche e l'arte Agevolmente, all'armonia che udiva, Diede eleganza alla materia; il bronzo Quasi foglia arrendevole d'acanto Ghirlandò le colonne; e ornato e legge Ebber travi e macigni, e gìan concordi Curvati in arco aereo imitanti Il firmamento. | Ma più assai felice Tu che primiero la tua donna in marmo Effigïasti: Amor da prima in core Tinfiammò del desìo che disvelata Volea bellezza, e profanata agli occhi Degli uomini. Ma venner teco assise Le Grazie, e tal diffusero venendo Avvenenza in quel volto e leggiadria Per quelle forme, col molle concento Sì gentili spirarono gli affetti Della giovine nuda; e non lamica Ma venerasti Citerea nel marmo. [Epodo] Ma non che ornar di canto, e chi può i doni Narrar dellarmonia? Impazïente Già il vagante inno mio fugge ove incontri Grazïose le genti ad ascoltarlo; Pur non so dirvi, o belle suore, addio, E mi detta più alteri inni la mente. Ma e dove or io vi seguirò, se il Fato Ah da gran giorni omai profughe in terra Alla Grecia vi tolse, e se l'Italia Che v'è patria seconda i doni vostri Misera ostenta e il vostro nume obblia? Pur molti ingenui de' suoi figli ancora A voi tendon le palme. Io finché viva Ombra daranno a Bellosguardo i lauri, Ne farò tetto all'ara vostra, e offerta Di quanti pomi educa l'anno, e quante Fragranze ama destar l'alba d'aprile. E il fonte e queste pure aure e i cipressi E il segreto mio pianto e la sdegnosa Lira, e i silenzi vi fien sacri e l'arti. Fra l'arti io coronato e fra le Muse, Alla patria dirò come indulgenti Tornate ospiti a lei, sì che più grata In più splendida reggia e con solenni Pompe v'onori: udrà come redenta Fu due volte per voi, quando la fiamma Pose Vesta sul Tebro, e poi Minerva Diede a Flora per voi l'attico Ulivo. Venite, o Dee, spirate, Dee, spandete La Deità materna, e novamente Deriveranno l'armonia gl'ingegni Dall'Olimpo in Italia: e da voi solo, Né dar premio potete altro più bello, Sol da voi chiederem, Grazie, un sorriso. |
5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 70 75 80 85 90 95 100 105 110 115 120 125 130 135 140 145 150 155 160 165 170 175 180 185 190 195 200 205 210 215 220 225 230 235 240 245 250 255 260 265 270 275 280 285 290 295 300 305 310 315 320 325 330 335 340 345 350 355 360 365 370 375 380 385 390 395 400 404 |
© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe Bonghi
@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 dicembre 1998