I
[Tre donne]
Tre vaghissime donne a cui le trecce
Infiora di felici itale rose
Giovinezza, e per cui splende più bello
Sul lor sembiante il giorno, all'ara vostra
Sacerdotesse, o care Grazie, io guido.
Qui e voi che Marte non rapì alle madri
Correte, e voi che muti impallidite
Nel penetrale della Dea pensosa,
[Urania e Galileo]
. . . . .
Urania era più lieta
. . . . .
. . . .
.
. . . . .
. . . .
.
. . . e le Grazie a lei l.azzurro
Paludamento ornavano. Con elle
Qui dov.io canto Galileo sedeva
. . . . .
a spiar l'astro
Della loro regina; e il disviava
Col notturno rumor l'acqua remota,
Che sotto a' pioppi delle rive d'Arno
Furtiva e argentea gli volava al guardo.
Qui a lui l'alba, la luna e il sol mostrava,
Gareggiando di tinte, or le severe
Nubi su la cerulea alpe sedenti,
Or il piano che fugge alle tirrene
Nereidi, immensa di città e di selve
Scena e di templi e d'arator beati,
Or cento colli, onde Appennin corona
D'ulivi e d'antri e di marmoree ville
L'elegante città, dove con Flora
Le Grazie han serti e amabile idioma.
[Principio del rito]
Date principio, o giovinetti, al rito,
E da' festoni della sacra soglia
Dilungate i profani. Ite, insolenti
Genii d'Amore, e voi livido coro
Di Momo, e voi che a prezzo Ascra attingete.
Qui né oscena malía, né plauso infido
Può, né dardo attoscato: oltre quest'ara,
Cari al volgo e a' tiranni, ite, profani.
[Fanciulle]
Dolce alle Grazie è la virginea voce
E la timida offerta: uscite or voi
Dalle stanze materne ove solinghe
Amor v'insidia, o donzellette, uscite:
Gioia promette e manda pianto Amore.
Qui su l'ara le rose e le colombe
Deponete, e tre calici spumanti
Di latte inghirlandato; e fin che il rito
V'appelli al canto, tacite sedete:
Sacro è il silenzio a' vati, e vi fa belle
Più del sorriso. E tu che ardisci in terra
[Canova scultore]
Vestir d'eterna giovinezza il marmo,
Or l'armonia della bellezza, il vivo
Spirar de' vezzi nelle tre ministre,
Che all'arpa io guido agl'inni e alle carole,
Vedrai qui al certo; e tu potrai lasciarle
Immortali fra noi, pria che all'Eliso
Su l'ali occulte fuggano degli anni.
[Suonatrice]
Leggiadramente d'un ornato ostello,
Che a lei d'Arno futura abitatrice
I pennelli posando edificava
Il bel fabbro d'Urbino, esce la prima
Vaga mortale, e siede all'ara; e il bisso
Liberale acconsente ogni contorno
Di sue forme eleganti; e fra il candore
Delle dita s'avvivano le rose,
Mentre accanto al suo petto agita l'arpa.
Scoppian dall'inquïete aeree fila,
Quasi raggi di sol rotti dal nembo,
Gioia insieme e pietà; poi che sonanti
Rimembran come il ciel l'uomo concesse
Alle gioie e agli affanni, onde gli sia
Librato e vario di sua vita il volo,
E come alla virtù guidi il dolore,
E il sorriso e il sospiro errin sul labbro
Delle Grazie, e a chi son fauste e presenti,
Dolce in core ei s'allegri e dolce gema.
[Musica media]
Pari un concento, se pur vera è fama,
Un dì Aspasia tessea lungo l'Ilisso:
Era allor delle Dee sacerdotessa,
E intento al suono Socrate libava
Sorridente a quell'ara, e col pensiero
Quasi a' sereni dell'Olimpo alzossi.
Quinci il veglio mirò volgersi obliqua,
Affrettando or la via su per le nubi,
Or ne' gorghi letèi precipitarsi
Di Fortuna la rapida quadriga
Da' viventi inseguita; e quel pietoso
Gridò invano dall'alto: A cieca duce
Siete seguaci, o miseri! e vi scorge
Dove in bando è pietà, dove il Tonante
Più adirate le folgori abbandona
Su la timida terra. O nati al pianto
E alla fatica, se virtù vi è guida,
Dalla fonte del duol sorge il conforto.
[Melodia]
Ah ma nemico è un altro Dio di pace,
Più che Fortuna, e gl'innocenti assale.
Ve' come l'arpa di costei sen duole!
Duolsi che a tante verginette il seno
Sfiori, e di pianto alle carole in mezzo,
Invidïoso Amor bagni i lor occhi.
Per sè gode frattanto ella che amore
Per sè l'altera giovane non teme.
Ben l'ode e su l'ardenti ali s'affretta
Alle vendette il Nume: e a quelle note
A un tratto l'inclemente arco gli cade.
E i montanini Zefiri fuggiaschi
Docili al suono aleggiano più ratti
Da le linfe di Fiesole e dai cedri,
A rallegrare le giunchiglie ond'ella
Oggi, o Grazie, per voi l'arpa inghirlanda,
E a voi quest'inno mio guida più caro.
[Musica alta e Lario]
Già del piè delle dita e dell'errante
Estro, e degli occhi vigili alle corde
Ispirata sollecita le note
Che pingon come l'armonia diè moto
Agli astri, all'onda eterea e alla natante
Terra per l'oceàno, e come franse
L'uniforme creato in mille volti
Co' raggi e l'ombre e il ricongiunse in uno,
E i suoni all'aere, e diè i colori al sole,
E l'alterno continuo tenore
Alla fortuna agitatrice e al tempo;
Sì che le cose dissonanti insieme
Rendan concento d'armonia divina
E innalzino le menti oltre la terra.
Come quando più gaio Euro provòca
Sull'alba il queto Lario, e a quel sussurro
Canta il nocchiero e allegransi i propinqui
Liuti, e molle il flauto si duole
D'innamorati giovani e di ninfe
Su le gondole erranti; e dalle sponde
Risponde il pastorel con la sua piva:
Per entro i colli rintronano i corni
Terror del cavrïol, mentre in cadenza
Di Lecco il malleo domator del bronzo
Tuona dagli antri ardenti; stupefatto
Perde le reti il pescatore, ed ode.
Tal dell'arpa diffuso erra il concento
Per la nostra convalle; e mentre posa
La sonatrice, ancora odono i colli.
[Fiori]
Or le recate, o vergini, i canestri
E le rose e gli allori a cui materni
Nell'ombrifero Pitti irrigatori
Fur gli etruschi Silvani, a far più vago
Il giovin seno alle mortali etrusche,
Emule d'avvenenza e di ghirlande;
Soave affanno al pellegrin se innoltra
Improvviso ne' lucidi teatri,
E quell'intenta voluttà del canto
Ed errare un desio dolce d'amore
Mira ne' volti femminili, e l'aura
Pregna di fiori gli confonde il core.
Recate insieme, o vergini, le conche
Dell'alabastro, provvido di fresca
Linfa e di vita, ahi breve! a' montanini
Gelsomini, e alla mammola dogliosa
Di non morir sul seno alla fuggiasca
Ninfa di Pratolino, o sospirata
Dal solitario venticel notturno.
Date il rustico giglio, e se men alte
Ha le forme fraterne, il manto veste
Degli amaranti invïolato: unite
Aurei giacinti e azzurri alle giunchiglie
Di Bellosguardo che all'amante suo
Coglie Pomona, e a' garofani alteri
Della prole diversa e delle pompe,
E a' fiori che dagli orti dell'Aurora
Novella preda a' nostri liti addussero
Vittoriosi i Zefiri su l'ale,
E or fra' cedri al suo talamo imminenti
D'ospite amore e di tepori industri
Questa gentil sacerdotessa educa.
Spira soave e armonïoso agli occhi
Quanto all'anima il suon, splendono i serti
Che di tanti color mesce e d'odori;
Ma il fior che altero del lor nome han fatto
Dodici Dei ne scevra, e il dona all'ara
Pur sorridendo; e in cor tacita prega:
E di quei fiori ond'è nudrice, e l'arpa
Ne incorona per voi, ven piaccia alcuno
Inserir, belle Dee, nella ghorlanda
La quale ogni anno il dì sesto d'aprile
Delle rose di lagrime innaffiate
In val di Sorga, o belle Dee, tessete
A recarla alla madre.
II
[Polinnia e invocazione]
Ora Polinnia alata Dea che molte
Lire a un tempo percote, e più d'ogni altra
Musa possiede orti celesti, intenda
Anche le lodi de' suoi fiori; or quando
La bella donna, delle Dee seconda
Sacerdotessa, vien recando un favo.
Nostro e disdetto alle altre genti è il rito
Per memoria de' favi onde in Italia
Con perenne ronzio fanno tesoro
Divine api alle Grazie: e chi ne assaggia
Parla caro alla patria. Ah voi narrate
Come aveste quel dono! E chi la fama
A noi fra l'ombre della terra erranti
Può abbellir se non voi, Grazie, che siete
Presenti a tutto, e Dee tutto sapete?
[Giano manda a invitarle]
Quattro volte l'Aurora era salita
Su l'oriente a riveder le Grazie,
Dacché nacquero al mondo; e Giano antico,
Padre d'Italia, e l'adriaca Anfitrite
Inviavan lor doni, e un drappelletto
Di Naiadi e fanciulle eridanine,
E quante i pomi d'Anïene e i fonti
Godean d'Arno e di Tebro, o quante avea
Ninfe il mar d'Aretusa; e le guidavi
Tu più che giglio nivea Galatea.
* * *
* *
* *
*
[Apollo canta]
E cantar Febo pieno d.inni un carme.
Vaticinò, com'ei lo spirto e varia
Daranno ai vati l'armonia del plettro
Le sue liete sorelle, e Amore il pianto
Che lusinghi a pietà l'alme gentili,
E il giovine Lieo scevra d'acerbe
Cure la vita, e Pallade i consigli,
Giove la gloria, e tutti i Numi eterno
Poscia l'alloro; ma le Grazie il mèle
Persuadente grazïosi affetti,
Onde pia con gli Dei torni la terra.
E cantando vedea lieto agitarsi
Esalando profumi, il verdeggiante
Bosco d'Olimpo, e rifiorir le rose,
E [scorrere] di nèttare i torrenti,
E risplendere il cielo, e delle Dive
Raggiar più bella l'immortal bellezza;
Però che il Padre sorrideva, e inerme
A piè del trono l'aquila s'assise.
* * * *
* * *
*
[Vesta]
Inaccessa agli Dei splende una fiamma
Solitaria nell'ultimo de. cieli,
Per proprio foco eterna; unico Nume
La veneranda Deità di Vesta
Vi s'appressa, e deriva indi una pura
Luce che, mista allo splendor del sole,
Tinge gli aerei campi di zaffiro,
E i mari, allor che ondeggiano al tranquillo
Spirto del vento facili a. nocchieri,
E di chiaror dolcissimo consola
Con quel lume le notti, e a qual più s.apre
Modesto fiore a decorar la terra
Molli tinte comparte, invidïate
Dalla rosa superba.
* * * *
* * *
*
Dite, o garzoni, a chi mortale, e voi,
Donzelle, dite a qual fanciulla un giorno
Più di quel mèl le Dee furon cortesi.
N'ebbe primiero un cieco; e sullo scudo
Di Vulcano mirò moversi il mondo,
E l'altro Ilio dirùto, e per l'ignoto
Pelago la solinga itaca vela,
E tutto Olimpo gli s'aprì alla mente
E Cipria vide e delle Grazie il cinto.
Ma quando quel sapor venne a Corinna
Sul labbro, vinse tra l'elèe quadrighe
Di Pindaro i destrier, benchè Elicona
Li dissetasse, e li pascea di foco
Eolo, e prenunzia un'aquila correva,
De' suoi freni li adornava il Sole.
. . . . .
. . . .
. . .
Di quel mèl la fragranza errò improvvisa
Sul talamo all'eolia fanciulla,
E il cor dal petto le balzò e la lira
Ed aggiogando i passeri, scendea
Venere dall'Olimpo, e delle sue
Ambrosie dita le tergeva il pianto.
* * * *
* * *
*
. . . . .
. Indarno Imetto
Le richiama dal dì che a fior dell'onda
Egea, beate volatrici, il coro
Eliconio seguieno, obbedïenti
All'elegia del fuggitivo Apollo.
[Marte caccia le muse: le seguono le api: etc.]
Però che quando su la Grecia inerte
Marte sfrenò le tartare cavalle
Depredatrici, e coronò la schiatta
Barbara d'Ottomano, allor l'Italia
Fu giardino alle Muse, e qui lo stuolo
Fabro dell'aureo mel pose a sua prole
Il felice alvear. Né le Febee
Api (sebben le altre api abbia crudeli)
Fuggono i lai della invisibil Ninfa,
Che ognor delusa d'amorosa speme,
Pur geme per le quete aure diffusa,
E il suo altero nemico ama e richiama;
Tanta dolcezza infusero le Grazie,
Per pietà della Ninfa, alle sue voci,
Che le lor api immemori dell'opra,
Ozïose in Italia odono l'eco
Che al par de' carmi fe' dolce la rima.
Quell'angelette scesero da prima
Ove assai preda di torrenti al mare
Porta Eridàno. Ivi la fata Alcina
Di lor sorti presaga avea disperso
Molti agresti amaranti; e lungo il fiume
Gran ciel prendea con negre ombre un'incolta
Selva di lauri: su' lor tronchi Atlante
Di Ruggiero scrivea gli avi e le imprese,
E di spettri guerrier muta una schiera
E donne innamorate ivan col mago,
Aspettando il cantor; e questi i favi
Vide quivi deposti, e si mietea
Tutti gli allori; ma de' fior d'Alcina
Più grazïoso distillava il mele,
E il libò solo un lepido poeta,
Che insiem narrò d'Angelica gli affanni. |
Ma non men cara l'api amano l'ombra
Del sublime cipresso, ove appendea
La sua cetra Torquato, allor che ardendo
Forsennato egli errò per le foreste,
Sì che insieme movea pietate e riso
Nelle gentili Ninfe e ne' pastori: |
Né già cose scrivea degne di riso
Se ben cose facea degne di riso. |
. . . . .
. . Deh! perché torse
I suoi passi da voi, liete in udirlo
Cantar Erminia, e il pio sepolcro e l'armi?
Nè disdegno di voi, ma più fatale
Nume alla reggia il risospinse e al pianto. |
. . . .
. . .
. . .
. .
. . . .
. . A tal ventura
Fur destinate le gentili alate
Che riposàr sull'Eridano il volo. |
[L'altra in Toscana ... ... ... Speranza]
Mentre nel Lilibeo mare la fata
Dava promesse, e l'attendea cortese
A quante all'Adria indi posaro il volo
Angiolette Febee, l'altro drappello
Che, per antico amor Flora seguendo,
Tendea per le tirrene aure il suo corso,
Trovò simile a Cerere una donna
Su la foce dell'Arno; e l'attendeva
Portando in mari purpurei gigli e frondi
Fresche d'ulivo. Avea riposo al fianco
Un'etrusca colonna, a sè dinanzi
Di favi desïoso un alveare.
Molte intorno a' suoi piè verdi le spighe
Spuntavano, e perìan molte immature
Fra gli emuli papaveri; mal nota,
Benchè fosse divina, era l'Ancella
Alle pecchie immortali. Essa agli Dei
Non tornò mai, da che scendea ne' primi
Dì noiosi dell'uorno; e il riconforta
Ma le presenti ore gl'invola; ha nome
Speranza e men infida ama i coloni.
Già negli ultimi cieli iva compiendo
Il settimo de' grandi anni Saturno
Col suo pianeta, da che a noi la Donna
Precorrendo le Muse era tornata
Per consiglio di Pallade, a recarne
L'ara fatale ove scolpite in oro
Le brevi rifulgean libere leggi,
Madri dell'arti | onde fu
bella Atene. |
* * * *
* * *
* *
[Architettura]
Ecco prostrata una foresta, e fianchi
Rudi d'alpe, e masse ferree immani
Al braccio de' Ciclòpi, a fondar tempio
Che ceda tardo a' muti urti del tempo.
E al suono che invisibili spandeano
Le Grazie intorno, assunsero nell'opra
Nuova speme i viventi: e l'Architetto
Meravigliando della sua fatica,
Quasi nubi lievissime, di terra
Ferro e abeti vedea sorgere e marmi,
A sue leggi arrendevoli, e posarsi
Convessi in arco aereo imitanti
Il firmamento. Attonite le Muse
Come vennero poscia alla divina
Mole il guardo levando, indarno altrove
Col memore pensier ivan cercando
Se altrove Palla, . . . . . .
. . .
O quando in Grecia di celeste acànto
Ghirlandò le colonne, o quando in Roma
Gli archi adornava a ritornar vittrice
Trïonfando con candide cavalle,
Miracolo sì fatto avesse all'arti
Mai suggerito. - Quando poi la Speme
Veleggiando su l'Arno in una nave
L'api recò e l'ancora là dove
Sorger poscia dovea delle bell'arti
Sovra mille colonne una gentile
Reggia alle Muse, . . . corser l'api
A un'indistinta di novelle piante
Soavità che intorno al tempio oliva. |
. . . .
. . .
. . .
[Dante, Petrarca, Boccaccio]
Un mirto
Che suo dall'alto Beatrice ammira,
Venerando splendeva; e dalla cima
Battea le penne un Genio disdegnoso
Che il passato esplorando e l'avvenire
Cieli e abissi cercava, e popolato
D'anime in mezzo a tutte l'acque un monte;
Poi, tornando, spargea folgori e lieti
Raggi, e speme e terrore e pentimento
Ne' mortali; e verissime sciagure
All'Italia cantava. Appresso al mirto
Fiorian le rose che le Grazie ogni anno
Ne' colli euganei van cogliendo, e un serto
Molle di pianto il dì sesto d'aprile
Ne recano alla Madre. A queste intorno
Dolcemente ronzarono, e sentiro
Come forse d'Eliso era venuto
Ad innestare il cespo ei che più ch'altri
Libò il mel sacro su l'Imetto, e primo
Fe' del celeste amor celebre il rito.
Pur con molti frutteti e con l'orezzo
Le sviò de. quercioli una valletta
Dove le Ninfe alle mie Dee seguaci
. . . .
. . .
. . .
.
Non son Genii mentiti. Io dal mio poggio
Quando tacciono i venti fra le torri
Della vaga Firenze, odo un Silvano
Ospite ignoto a' taciti eremiti
Del vicino Oliveto: ei sul meriggio
Fa sua casa un frascato, e a suon d'avena
Le pecorelle sue chiama alla fonte.
Chiama due brune giovani la sera,
Né piegar l'erbe mi parean ballando.
Esso mena la danza. N'eran molte
Sotto l'alpe di Fiesole a una valle
Che da sei montagnette ond'è ricinta
Scende a sembianza di teatro acheo.
Affrico allegro ruscelletto accorse
A' lor prieghi dal monte, e fe' la valle
Limpida d'un freschissimo laghetto.
Nulla per anco delle Ninfe inteso
Avea Fiammetta allor ch'ivi a diporto
Novellando d'amori e cortesie
Con le amiche sedeva, o s'immergea,
Te, amor, fuggendo e tu ve la spïavi,
Dentro le cristalline onde più bella.
Fur poi svelati in que' diporti i vaghi
Misteri, e Dioneo re del drappello
Le Grazie afflisse. Perseguì i colombi
Che stavan su le dense ali sospesi
A guardia d'una grotta: invan gementi
Sotto il flagel del mirto onde gl'incalza
Gli fan ombra dattorno, e gli fan prieghi
Che non s'accosti; sanguinanti e inermi
Sgombran con penne trepidanti al cielo.
Della grotta i recessi empie la luna,
E fra un mucchio di gigli addormentata
Svela a un Fauno confusa una Napea.
Gioì il protervo dell'esempio, e spera
Allettarne Fiammetta; e pregò tutti
Allor d'aita i Satiri canuti,
E quante emule ninfe eran da' giochi
E da' misteri escluse: e quegli arguti
Oziando ogni notte a Dioneo
Di scherzi e d'antri e talami di fiori
Ridissero novelle. Or vive il libro
Dettato dagli Dei; ma sfortunata
La damigella che mai tocchi il libro!
Tosto smarrita del natio pudore
Avrà la rosa; né il rossore ad arte
Può innamorar chi sol le Grazie ha in core.
[Donna del favo: sua cura delle api: sua preghiera]
O giovinette Dee, gioia dell'inno,
Per voi la bella donna i riti vostri
Imita e le terrene api lusinga
Nel felsineo pendio d'onde il pastore
Mira Astrea che or del ciel gode e de' tardi
Alberghi di Nereo; d'indiche piante
E di catalpe onde i suoi Lari ombreggia
Sedi appresta e sollazzi alla vagante
Schiera, o le accoglie ne' fecondi orezzi
D'armonïoso speco inviolate
Dal gelo e dall'estiva ira e da' nembi.
La bella donna di sua mano i lattei
Calici del limone, e la pudica
Delle viole, e il timo amor dell'api
Innaffia, e il fior delle rugiade invoca
Dalle stelle tranquille, e impetra i favi
Che vi consacra e in cor tacita prega.
Con lei pregate, o donzellette, e meco
Voi, garzoni, miratela. Il segreto
Sospiro, il riso del suo labbro, il dolce
Foco esultante nelle sue pupille
Faccianvi accorti di che preghi, e come
L'ascoltino le Dee. E certo impetra
Che delle Dee l'amabile consiglio
Da lei s'adempia. I pregi che dal Cielo
Per pietà de' mortali han le divine
Vergini caste, non a voi li danno,
Giovani vati e artefici eleganti,
Bensì a qual più gentil donna le imìta.
A lei correte, e di soavi affetti
Ispiratrici e immagini leggiadre
Sentirete le Grazie. Ah vi rimembri
Che inverecondo le spaventa Amore!
III
[Venere danzatrice]
Torna deh! torna al suon, donna dell'arpa;
Guarda la tua bella compagna; e viene
Ultima al rito a tesser danze all'ara.
[Milano]
Pur la città cui Pale empie di paschi
Con l'urne industri tanta valle, e pingui
Di mille pioppe aeree al sussurro,
Ombrano i buoi le chiuse, or la richiama
Alle feste notturne e fra quegli orti
Freschi di frondi e intorno aurei di cocchi,
Lungo i rivi d'Olona. E già tornava
Questa gentile al suo molle paese,
Così imminente omai freme Bellona
Che al Tebro, all'Arno, ov'è più sacra Italia,
Non un'ara trovò, dove alle Grazie
Rendere il voto d'una regia sposa.
Ma udì 'l canto, udì l' arpa; e a noi si volse
Agile come in cielo Ebe succinta.
Sostien del braccio un giovinetto cigno,
E togliesi di fronte una catena
Vaga di perle a cingerne l'augello.
Quei lento al collo suo del flessuoso
Collo s'attorce, e di lei sente a ciocche
Neri su le sue lattee piume i crini
Scorrer disciolti, e più lieto la mira
Mentr'ella scioglie a questi detti il labbro:
[Offerta]
GRATA AGLI DEI DEL REDUCE MARITO
DA' FIUMI ALGENTI OV' HANNO PATRIA I CIGNI,
ALLE VIRGINEE DEITA' CONSACRA
L' ALTA REGINA MIA CANDIDO UN CIGNO.
[Lodi del cigno]
Accogliete, o garzoni e su le chiare
Acque vaganti intorno all' ara e al bosco
Deponete l' augello, e sia del nostro
Conte e signore; e i suoi atti venusti
Gli rendan l' onde e il suo candore, e goda
Di sé, quasi dicendo a chi lo mira,
Simbol son io della beltà. Sfrondate
Ilari carolando, o verginette,
Il mirteto e i rosai lungo i meandri
Del ruscello, versate sul ruscello,
Versateli , e al fuggente nuotatore
Che veleggia con pure ali di neve,
Fate inciampi di fiori, e qual più ameno
Fiore a voi sceglia col puniceo rostro,
Vel ponete nel seno. A quanti alati
Godon l'erbe del par l'aere ed i laghi
Amabil sire è il cigno, e con l'impero
Modesto delle grazie i suoi vassalli
Regge, ed agli altri volator sorride,
E lieto le sdegnose aquile ammira.
Sovra l'omero suo guizzan securi
Gli argentei pesci, ed ospite leale
Il vagheggiano s'ei visita all'alba
Le lor ime correnti, desioso
Di più freschi lavacri, onde rifulga
Sovra le piume sue nitido il sole.
[Viceregina]
Fioritelo di gigli. Al vago rito
Donna l'invia, che nella villa amena
De' tigli (amabil pianta, e a' molli orezzi
Propizia, e al santo coniugale amore)
Nudrialo afflitta; e a lei dal pelaghetto
Lieto accorrea, agitandole l'acque
Sotto i lauri tranquille. O di clementi
Virtù ornamento nella reggia insubre!
Finché piacque agli Dei, o agl'infelici
Cara tutela, e di tre regie Grazie
Genitrice gentil, bella fra tutte
Figlie di regi, e agl'Immortali amica!
Tutto il Cielo t'udia quando al marito
Guerreggiante a impedir l'Elba ai nemici
Pregavi lenta l'invisibil Parca
Che accompagna gli Eroi, vaticinando
L'inno funereo e l'alto avello e l'armi
Più terse e giunti alla quadriga i bianchi
Destrieri eterni a correre l'Eliso.
Sdegnan chi a' fasti di fortuna applaude
Le Dive mie, e sol fan bello il lauro
Quando Sventura ne corona i prenci.
Ma più alle Dive mie piace quel carme
Che d'egregia beltà l'alma e le forme
Con la pittrice melodia ravviva.
Spesso per l'altre età, se l'idioma
D'Italia correrà puro a' nepoti,
(è vostro, e voi, deh! lo serbate, o Grazie!)
* * * *
* * *
* * *
[Ballerina]
Tento ritrar ne' versi miei la sacra
Danzatrice, men bella allor che siede,
Men di te bella, o gentil sonatrice,
Men amabil di te quando favelli,
O nutrice dell'api. Ma se danza,
Vedila! tutta l'armonia del suono
Scorre dal suo bel corpo, e dal sorriso
Della sua bocca; e un moto, un atto, un vezzo
Manda agli sguardi venustà improvvisa.
E chi pinger la può? Mentre a ritrarla
Pongo industre lo sguardo, ecco m'elude,
E le carole che lente disegna
Affretta rapidissima, e s'invola
Sorvolando su' fiori; appena veggio
Il vel fuggente biancheggiar fra' mirti.
* * * *
* * *
* * *
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* * * |
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